La dea flessibilità in materia di lavoro e occupazione

 In nome della flessibilità del lavoro hanno aumentato lo sfruttamento portando a compimento anche una operazione ideologica atta a esigere prestazioni sempre maggiori. Bisogna essere flessibili, basta con i mansionari e i profili professionali, queste le massime degli ultimi 40 anni diventate ormai un luogo comune..

Negli ultimi 40 anni, con il tramonto del neokeynesismo, la flessibilità ha riguardato i salari sempre piu' differenziati e spinti verso il basso, i contratti di lavoro (il loro numero è aumentato esponenzialmente per dare legittimità alla rappresentanza dei sindacati firmatari ma soprattutto per introdurre ccnl con paghe orarie basse e ridotte tutele). Si è detto che la flessibilità era funzionale alla occupazione ma stando ai numeri è invece vero l'esatto contrario, anzi la strada percorsa è quella della precarietà occupazionale e salariale.

La flessibilizzazione dei contratti e dei salari  ha ridotto il costo del lavoro , il potere di acquisto e di contrattazione, delocalizzato interi siti produttivi dove la manodopera è meno pagata e gli stati offrono tappeti damascati alle imprese straniere che ricevono ogni genere di agevolazioni fiscali se non addirittura incentivi, senza dimenticare lo sfruttamento intensivo, e senza controllo, delle risorse locali  loro accordato con produzioni spesso inquinanti, liberate da ogni vincolo e controllo.

Flessibilità poi fa tutt'uno com la cosiddetta riforma del mercato del lavoro che avviene con la riduzione dei costi, e l'aumento di plusvalore,  la riduzione dei salari nominali. E i paesi che nell'area Euro hanno perso posizioni e competitività non possono piu' ricorrere alla svalutazione monetaria ma sono costretti a ridurre i prezzi dei loro prodotti nella speranza di accrescere le esportazioni.

Il costo del lavoro si è ridotto sotto ogni punto di vista, in termini reali e nominali ma delocalizzando produzioni e precarizzando il lavoro le imprese hanno guadagnato profitti senza accrescere la loro competitività.

Urge quindi sfatare alcuni luoghi comuni

  • ridurre il costo del lavoro e abbattere i salari non ha accresciuto l'occupazione che risulta invece indebolita e precarizzata, la forza lavoro diventa sempre piu' ricattabile. Diminuiti i salari invece risulta indebolita la stessa domanda e con consumi al ribasso anche la stessa economia non ne trare beneficio alcuno. I prezzi sono diminuiti assai meno dei salari e di conseguenza il potere di acquisto risulta ridotto, forse qualche beneficio potranno averlo le esportazioni ma a costo di impoverire la domanda interna e con essa anche l'occupazione .
  • Ridotti i salari e il numero degli occupati non è  quindi cresciuta la domanda di beni e servizi, anzi il welfare è stato ferocemente attaccato e sanità e pensioni integrative sono state rafforzate anche attraverso i contratti di secondo livello e il welfare aziendale. Al contempo i fondi destinati a sanità e istruzione pubblica sono diminuiti con le conseguenze ormai note derivante dalla pandemia.
  • La flessibilità occupazionale e salariale non ha accresciuto la competitività delle imprese, siamo invece in presenza di una vera e propria deflazione salariale, il contenimento dei costi del lavoro e dei prezzi favorisce solo i paesi con grande surplus commerciale coma la Germania ma non le altre nazioni. La flessibilità ha spinto i salari verso il basso e indebolito il potere di acquisto e di contrattazione sindacale.
  • La maggiore flessibilità\precarietà del lavoro non ha comportato l'incremento della produttività delle imprese, anzi la flessibilità si è presto trasformata in libero arbitrio, in licenziamenti imponendo regole ferree alla forza lavoro (peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita)
  • la produttività delle imprese non viene prodotta dall'abbattimento del costo del lavoro ma dalla capacità innovativa e tecnologica: In Italia, in 40 anni, di investimenti in tale senso ce ne sono stati veramente pochi credendo alla vulgata liberista per la quale l'economia avrebbe necessità di abbattere i costi del lavoro riducendo al contempo la pressione fiscale sui redditi elevati e sulle imprese.
  • Aumentando invece i salari si migliora la qualità della vita con effetti benefici sulla domanda interna, le imprese sarebbero costrette a investire in tecnologia per mantenere la loro quota di profitti riducendo i costi con processi innovativi in materia di lavoro. Al contrario di quanto creda la vulgata liberista tanto piu' si abbattono i salari tanto maggiori saranno i profitti aziendali e al contempo vengono abbattuti gli investimenti tecnologici che rappresentano all'inizio un costo a carico dell'azienda. La cultura di impresa in Italia è basata sullo sfruttamento della forza lavoro e sulle agevolazioni fiscali e in caso di crisi c'è sempre lo Stato con gli ammortizzatori sociali.
  • abbattendo le tutele collettive ed individuali non si favorisce l'occupazione è vero invece l'esatto contrario come dimostra la composizione dei senza lavoro. 
  • Quando si parla di rigidità del mercato del lavoro dimentichiamo che la flessibilità non è sinonimo di produttività e di crescita derivante invece dai processi innovativi d\nelle imprese. Negli ultimi 25 anni Pil e produttività in Italia sono cresciuti in misura inferiore agli altri paesi europei, da quando le politiche economiche si sono indirizzate all'abbattimento del potere di acquisto e all'insegna della flessibilità e della riduzione delle aliquote fiscali. Se fosse vero che riducendo le rigidità ne trarrebbe vantaggi l'economia, oggi con l'innalzamento dell'età pensionabile e il jobs act i dati economici italiani sarebbero decisamente migliori. Ci hanno raccontato solo bugie ma peggio ancora è che le bugie sono diventate luoghi comuni inconfutabili anche per la parte sindacale. 
  • Se negli ultimi 25 anni l'economia italiana è in fase regressiva, qualcuno non dovrebbe domandarsi perchè si persevera nella politica di riduzione dei costi del lavoro e la sua precarizzazione? Dagli anni novanta ad oggi, da Treu a Biagi fino alla Fornero e al jobs act la precarizzazione del lavoro non ha avuto alcun effetto benefico sulla produttività  complessiva ed ha anzi creato sacche di povertà ed emarginazione con criteri diseguali ed iniqui di distribuzione del reddito e il disinvestimento statale in materia di formazione, indirizzo e orientamento in materia di lavoro. Gli effetti delle politiche del lavoro sono state solo negativi sui consumi, sulla domanda aggregata, sul numero degli occupati e sulla competitività del paese.
  •  Parlare ancora oggi di riforma e di superamento delle rigidità del mercato del lavoro dovrebbe indurre a riflettere sulla grande menzogna costruita dal liberismo


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