Dialogando di scuola, istruzione e valutazione
Da anni si parla
della inutilità della performance ai fini della valutazione dei
dipendenti pubblici e ormai anche del privato. L’ideologia del
merito non è mai stata sufficientemente contrastata anche se anche
in seno al capitalismo comincia a palesare contraddizioni alimentando
voci critiche. Abbiamo chiesto a Tiziano Tussi, pubblicista e per decenni insegnante nei licei, di rispondere ad alcune domande su scuola, valutazione e formazione.
Partiamo dalla Dad...
In questo periodo di scuola a distanza – acronimo DAD, didattica a distanza – risalta ancora di più la questione della valutazione, che viene inficiata naturalmente dall’enorme possibilità di rispondere con sistemi ed escamotages più o meno leciti alle domande ed ai compiti decisi dagli insegnanti stando davanti ad un video. Lasciamo da parte il fatto che così non dovrebbe essere, da parte degli studenti, motivazioni etiche, da parte mettiamo anche un altro fattore e cioè se sia o meno sensato formulare una valutazione dopo ore di lezione in DAD. Ma il tema della valutazione, ora che alle scuole elementari sono ritornati sulle pagelle i giudizi, stavolta descrittivi, e che alcuni li vorrebbero anche per i livelli successivi di scuola, il tema della valutazione, dicevo, risalta ancora di più. Cerchiamo di mettere un po’ in fila le questioni di fondo, della valutazione e del fare scuola ora.
Oggi possiamo discutere in ambito scolastico della valutazione?
Penso sia possibile anche ora parlarne. Il significato del valutare rientra nel senso da dare alle strade da percorrere, ad un cursus studiorum da frequentare, sostenere e proseguire verso mete sempre più alte, complesse, di livelli culturali. La scuola dovrebbe fare questo: alzare il livello culturale di chi la frequenta, approfondendo le capacità di approfondire le problematiche studiate. Valutare gli stati d’essere delle cose, i risultati positivi ed i ritardi negativi rientra nella missione dell’insegante. Chiaro che lo stesso dovrebbe porsi come un maestro per i suoi allievi. Un esempio di vita e di studio. Illusorio pensare lo possano essere tutti gli insegnanti, ma a questo ruolo pieno di contenuti e senso occorre tendere. Allora e solo allora è possibile anche tenere in mano l’elemento della valutazione, senza apparire, agli occhi dei valutati, pretestuosi.
Non credi sia errato ridurre il problema alla contrapposizione tra lezioni in
presenza e DAD? Ci sono studenti favorevoli alle lezioni in presenza ma anche altri che ritengono preferibile la Dad, pur criticandola, perchè non hanno certezze e garanzie sulle sanificazioni e igienizzazioni, hanno paura dei contagi....
La DAD si opera con la rete, i computer, i cellulari. Strumenti da usare. La contrapposizione tra modalità di utilizzo viene solo ora, in piena pandemia, sentita come tale. Passato questo pernicioso periodo i due mezzi di passaggio e creazione di saperi dovrebbero e potrebbero integrarsi senza contrapposizioni formali. Si possono usare strumenti informatici, ma non sono obbligatori, per potere operare una modernizzazione della lezione da svolgere. La modernità della lezione, del passaggio di acculturazione, sta nella modernità dell’impianto e dello spessore del contenuto che si passa, della sua interpretazione critica. Una banale lezione in rete di per sé non vale, in assoluto, più di una lezione cosiddetta frontale e viceversa. Questa non è immediatamente superiore alla resa di un insegnamento in rete.
Che cosa non funziona nella scuola di oggi? Quali sono le conseguenze delle ultime controriforme?
In ultima analisi potrei dire: l’aumento esponenziale dell’ignoranza a scuola. Rimando senz’altro ad un libro collettaneo, al quale ho partecipato, che porta l’emblematico titolo de La scuola dell’ignoranza (Mimesis, Milano, 2019). Il mio intervento si intitola appunto Contro la scuola dell’ignoranza. Questa è diventata preponderante, sull’altra, la scuola della cultura proprio grazie all’attenzione che è stata sempre di più messa sulle cornici strumentali – computer, lavagne elettroniche, didattica per competenze, alternanza scuola lavoro, didattica personalizzata, recupero didattico – rispetto ad un percorso di studi che porti da qualche parte, che porti il più lontano possibile dall’ignoranza. Con le riforme degli ultimi venticinque/trent’anni si è pensato più al contesto che al testo. Il tutto ha avuto una bella spinta dal lavoro ministeriale di Luigi Berlinguer che, ad esempio, aveva proposto una settimana di riposo, a novembre, per gli stanchi studenti, forse anche con il segreto, ma non poi tanto segreto, proposito di fermare le occupazioni delle scuole che partivano proprio da quel mese ed erano attive anche nel successivo, in attesa delle vacanze natalizie. Prospettare un alunno stanco vuole dire solo prospettare una scuola mamma, che non c’entra nulla con la fatica di studiare (Gramsci)
Avere una valutazione acriticamente positiva per tutti va proprio verso quell’allargamento dell’ignoranza di cui scrivevo sopra. La fatica dello studio e la felicità di un voto che dica, certifichi, un più alto grado di capacità di comprensione di una qualsiasi problematica, non è minimamente paragonabile alla salvezza per ognuno, basti al risultato assegnato l’iscrizione ad una scuola. Il raggiungimento di un risultato positivo segna un percorso. Guardando ai miei anni universitari io ho ancora il senso di quanto siano stati formativi per me. Per gli esami sostenuti, e discussi, per la valutazione, anche contestata, assegnatami, per i libri che mi erano stati indicati come fondamentali per affrontare un esame, per la preparazione dello stesso con altri studenti con i quali potere confrontare gli esiti, e ripeto, anche con le contrapposizioni frontali con i docenti che valutavano secondo i loro parametri che noi studenti di allora – gli anni della contestazione – mettevamo sotto lente critica. Contestavano se credevamo di doverlo fare. Un voto non è di per sé classista. Esprime un a capacità di valutazione che può essere accettata in parte e/o totalmente o rifiutata dal valutato. Si accende un mondo di contraddizioni che può esser frequentato da pratiche liberatorie e di scontro di classe, anche di scontro di classe. Di lotta per un sapere non insterilito, si diceva, non borghese. Per un sapere proletario da mettere in circolo. Il tutto partendo da una valutazione che si può ritenere sbagliata, non congrua, non valida oppure anche pretestuosa, di classe.
Ma se non si parte da un punto esistente e fermo, la contestazione su cosa può fondarsi? Discutere un giudizio, discutere una parola, risulta ben difficile e chi ha il potere della cultura è nelle condizioni di manipolare l’interpretazione del giudizio a suo vantaggio. Il titolo di una commedia di Dario Fo diceva: L'operaio conosce 300 parole, il padrone 1000, per questo lui è il padrone; siamo alla fine degli anni ’60. Chi conosce le parole può conoscere pure il modo di farle parlare per sé, può portarle dalla sua parte. Chi non le conosce manca dell’ingrediente necessario. E chi sta imparando, evidentemente, poco conosce, rispetto a chi sa.
L'autonomia del docente nei processi valutativi rappresenta allora un pericolo?
Ne consegue che non vi è pericolo nel valutare. L’unico pericolo consiste nell’accettare, sempre, incondizionatamente, da parte del valutato, una qualsiasi valutazione. L’insegnante deve essere autonomo e rispondere solo al suo dovere etico. Che chiaramente deve includere anche la possibilità di venire contestato. Un processo dialettico e democratico.
Certo il giudizio descrittivo per le scuole elementari non entra nelle questioni valutative, le descrive solamente. Ma la scuola, ripeto, ha un valore di certificazione. Le pagelle sono fatte per questo, altrimenti le si potrebbero abolire, dando ad ognuno solo tempo per acquisire capacità, certificandole, in fondo al percorso scolastico, con la certificazione della sola frequenza. Se ad ognuno è riconosciuto, di fondo, un valore eccezionale, salvifico, ed ogni vita lo ha, in sé, e questo è valido anche nel suo stare a scuola, allora non v’è bisogno d’altro. Siamo già tutti salvi. L’aspetto negativo non regge più e viene cassato. Al di là del fatto che scoprirsi poco capaci, in una situazione complessa della vita, da adulti o giovani, in cui si è operato in modo errato, sbagliato, di fallimento, accenderebbe improvvisamente rotture psicologiche difficilmente ricomponibili. Tutti noi ci ricordiamo, attori passivi od attivi che possiamo essere stati, quanta pena suscitavano i nostri piccoli fallimenti da bambini, che ci parevano così enormi. La psicanalisi si interroga anche su questi fenomeni. Non accettare di essere passibili di fallimenti, ed un voto negativo lo può certificare, e che è possibile rimediare, ma improvvisamente, fuori dalla scuola mamma, essere messi di fronte a sé stessi che sbaglia, è decisamente più deleterio psicologicamente di una preparazione al fallimento, all’errore. La scuola non deve diventare un’isola felice rispetto alla vita reale, dove fallimenti e conquiste vivono l’uno accanto all’altra, l’una sull’altra, dentro l’altra. Il senso di onnipotenza del bambino deve fare largo al senso di relativismo del giovane, dell’adulto. La scuola non può consolare sino ad età adulta, deve insegnare a vivere. E la vita è molto più complessa di una ovattata classe o gruppo scolastico, a qualsiasi livello li si vogliano pensare. Giudizi descrittivi vanno proprio nel senso di consolidare una ovatta tanto calda ma tano soffocante e lontana dalla reale vita sociale, anche per un bambino. Vita sociale molto più complessa, ed a volte anche brutta, ma anche bella, bellissima, se la si vuole ben praticare, ben frequentare, conquistandosela.
Messi assieme i due soggetti portano problematiche e riflessioni troppo ampie. Gli studenti non sono sindacalizzati e i sindacati degli studenti non sono istituzionalizzati; i sindacati dei lavoratori della scuola, quelli storici, non sono per gli studenti ma solo per i lavoratori della scuola e sovente, specialmente per i maggiori, sono parte significativa del problema che affligge la scuola da tempo, l’ignoranza di cui sopra. La platea sindacale si diversifica da quelli che vorrebbero ridurre tutti i lavori che si svolgono nella scuola ad un lavoro unico quantificabile e sindacalizzabile, quindi sorvolando sulle differenze tra lavoro fisico, bidelli ed impiegati, e lavoro intellettuale, professori. Tutti in uno stesso edificio, tutti lavoratori scolastici, da trattare allo stesso modo. Altri, come la Gilda, vorrebbero tenere distinti i due lavori, una distinzione precisa; altri sono, come si dice di categoria, molto corporativi, lo SNALS; altri, con meno iscritti, più piccoli, sono spesso alla ricerca della sopravvivenza e difendono, sovente, le ragioni dei precari della scuola. Un bel caos.
Esiste qualche proposta liberatoria per la scuola e l'università?
Una proposta liberatoria nel senso di cercare di risolvere i problemi che giungono dalla scuola, che vi nascono e prosperano in essa potrebbe essere:
Mettere al Ministero dell’Istruzione qualcuno che un po’ ci capisse. Ma non basta un docente universitario, Berlinguer lo era. Una personalità con capacità e cultura adeguata a intervenire in ogni aspetto della stessa. Siccome sarebbe necessario intervenire anche sull’Università, togliendo di mezzo l’inutile suddivisione del 3+2, l’inutile rincorso ai crediti, gli esami farsa e poco impegnativi, la sottovalutazione del lavoro di Tesi, per cercare di avere alla fine del percorso di studi personalità culturali che possono stare in cattedra per meriti e non per conoscenze, male atavico soprattutto dell’Università, forse il Ministero non dovrebbe essere diviso tra un livello scolastico elementari-medie-superiori ed uno, universitario. Certo con personalità ministeriali di spicco lo si potrebbe anche sdoppiare, ma già è difficile immaginare una persona capace a questo compito che sarebbe oltremodo difficile trovarne due. E questo non appaia una sfrontatezza, ma vediamo attorno a noi, dopo decenni di clientelismo culturale e genuflessioni teoriche e personali, quanto grande sia il disastro a livello di singoli acquiescenti. Trovato il centro delle decisioni, ministro o ministri, occorrerebbe che questi fossero in grado di avere dalla sua soggetti della burocrazia ministeriale altrettanto capaci, in ogni ganglio del ministero, o dei ministeri, per affrontare battaglia per la rinascita scolastica. Alcuni problemi: liberalità sui testi da usare in classe, liberalità nel costruire un percorso di studi per le classi e per gli esami universitari slegati dalle mode politiche ed economiche della contemporaneità, ricerca della fondatezza e di serena riflessione sulle tematiche proposte dalla scuola, da parte di professori vincitori di concorsi statali seri e continui, ogni due tre anni. Un accenno alle cattedre scoperte. Vi sarebbero da immettere a scuola migliaia di precari che da anni insegnano, suddivisi in graduatorie che poco senso hanno. Vi sarebbe da togliere di mezzo quella stranezza, credo tutta italiana, del l’organico di potenziamento. Una spinta al fare niente dietro compenso. Ora va di moda – reddito di cittadinanza – ma mi permetto di citare Engels, un passo dalla Dialettica della natura: “…il lavoro…è la prima fondamentale condizione di tutta la vita umana; e lo è invero a tal punto, che noi possiamo dire in un certo senso: il lavoro ha creato lo stesso uomo.” (Friedrich Engels, La dialettica della natura, capitolo Parte avuta dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia) Insomma la rivalutazione del lavoro, in questo caso intellettuale, come elemento centrale della scuola. Ne deriverebbe una lotta alla burocratizzazione dello stesso ed una rivalutazione del fare lezione a dispetto del contesto, della cornice, dello stare in un edificio scolastico, tutti assieme. Il testo al posto del contesto.
Mettere soldi nella scuola e da subito alzare i miserrimi stipendi degli insegnanti, i peggio pagati d’Europa.
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