Scuola e non solo: PARTICIPIO PASSATO DI SOCCOMBERE


PARTICIPIO PASSATO DI SOCCOMBERE

 

Tra non molto vi sarà un nuovo governo ed anche un nuovo ministro della Pubblica Istruzione, vedremo se con o senza l’Università e la ricerca, che nel tempo hanno fatto ministero a sé stante, a volta. E vedremo anche, perciò, se potremo confrontarci con l’ennesimo inconcludente ministro oppure se in quel posto vi sarà una figura che ne capisce un po’ di scuola. Perciò mi sento di scrivere qualcosa attorno all’argomento che mi ha visto presente, nelle classi delle superiori, per circa quarant’anni. 


Stimolato anche da una lunga recensione di un libro del pedagogista Gert J. J. Biesta apparso sul sito Le parole le cose ², a firma di Daniele Lo Vetere. La recensione pone l’attenzione sulla rottura, che si presume feconda, tra insegnare ed apprendere. E seguendo le stimolazioni di Biesta si accoglie la sua indicazione di rottura, frattura tra le due cose. L’apprendimento non dove essere la misura di ogni insegnamento. Viene subito alla mente la divisione, ora data per scontata, tra competenze e conoscenze. 


Io non ho mai capito come possano essere le une senza le altre. In ogni caso questa rottura e il rifiuto della quantità di decenza culturale che deriva dall’apprendimento, certificato credo, è una cifra pedagogica di innovazione nello stanco panorama della accumulazione culturale a livello internazionale. Si crede in ogni caso all’efficienza, alla eccellenza, definite in sé come bussole indianti il massimo per l’educazione. Il massimo modernamente inteso. Stanchi discorsi sull’efficienza, perché solo ripetitivi, sempre misurata da livelli di apprendimento, dalla accettazione del discente nella sua specificità, dall’esaltazione del singolo in quanto tale, meglio se si è “fatto da solo”, dalle novità proposte dalle competenze non cognitive. Senza porre attenzione agli aspetti sociali nei quali ognuna di quelle modalità possono venirsi a convivere. 


 Vengono prese in considerazioni, soprattutto per la ricerca ed il successo nel lavoro, empatia, pazienza, capacità di risolvere problemi e di lavorare in gruppo, gestione ottimale del tempo. Tutte adattabilità che si potrebbero tradurre in termini un po’ volgari quali “paraculaggine”, o in termini aurei captatio benevolentiae. 


Ma su queste nonsense si è speso sino ad ora in Parlamento, un gruppo di deputati, capeggiato da Maurizio Lupi, che con tutti i rimasugli della destra-centro, più o meno moderata, ha raccolto, nelle ultime elezioni politiche, il grande bottino di duecentocinquanta mila voti, lo 0,9% dei già scarsi elettori. Naturalmente lui è stato eletto. Nulla quindi a livello sociale, ma galleggiante sul mare delle classi egemoni e della cultura dominante. Tutto questo per dire che a fronte della ricerca di libertà d’interazione, di una continua indagine per innovazioni pedagogiche, per il rapporto tra insegante e discente, il potere culturale egemone si fa bello con nullità molto lontane dalla ricerca di senso che ci prospetta Biesta, così si legge nella recensione. Altro che “dovremmo aiutare i soggetti più giovani a non eccedere nell’ambizione di voler essere nel mondo e, dall’altro, …a non scoraggiarsi troppo velocemente quando il mondo presenterà loro le prime frustrazioni…” 


Tradotto, potrebbe essere, se non hanno avuto troppo successo, se non sono dei leader inarrivabili, o presidenti di azienda o di partito. Insomma, cercare di fare capire loro che il “mestiere di vivere” (Cesare Pavese) è cosa difficile, e continua, necessitante di un rapporto non casuale con la vita. Biesta cerca di caratterizzare un rapporto insegnate-discente attraverso una stimolazione di apertura sul/nel mondo.


 Perciò un rapporto nel quale ci si debba impegnare ad intervenire, essendo già qualcosa di presente, sul mondo che ci circonda indirizzati dal lavoro dell’insegnante. In fondo viene delineata la figura del maestro che in termini socratici si rapporta con l’allievo. Bella inquadratura, ma difficilmente realizzabile in una scuola che non ha affatto in mente queste modalità di rapporto.


Vi sono almeno due considerazioni da fare al riguardo, che cozzano comunque con l’orizzonte libertario di Biesta:

  1. meglio si adattano alle sollecitazioni di Biesta approcci di insegnamento, materie, umanistiche. Tale tipo di relazione è forse meno inarrivabile quando si prendono in considerazioni approcci che hanno campi teoretici di vasto respiro. Ad esempio, la profondità degli aspetti teorico-filosofici
  2. a fronte di una scuola repressiva, per la libertà e la conoscenza inventiva da raggiungere e spendere, se non in termini appunto di apprendimento, possiamo aggiungere, capitalistici e cioè borghesie e efficientisti, nella ricerca del profitto, forse sarebbe necessario pensare ad una scuola proletaria, rivoluzionaria, in termini politici. Ma anche questa scuola è un paradigma già strutturato, almeno a livello di proposta ideale.

Ed è qui che entra in gioco il soccombere. Non credo che l’impostazione di Biesta, così libertaria ed attenta a non costruire strutture fisse, abbia in mente problemi derivanti dal confronto politico, reale e paradigmatico, tra paradigmi, se proprio la prefigurazione, qualsiasi essa sia, è l’obiettivo da scardinare. Il problema ed il destino di un approccio à la Biesta rimandano però ad una debolezza fisico/pedagogica/politica enorme. Scuole deboli politicamente hanno sempre soccombuto alle scuole fortemente strutturate, anche se queste sono state sempre più svuotate di senso e riempite di burocrazia nonsense.


A proposito del participio passato di soccombere: questi non si usa anche se esiste, e l’ho scritto sopra, e il soccombere della scuola libertaria alla scuola del profitto si trova anche nella lingua. Soccombe senza poterlo gridare e denunciare alle orecchie del mondo.


Mi permetto un altro ricordo. 


Nel 1980 uscì nelle sale cinematografiche un bel film Jonas che avrà vent’anni nel Duemila (era uscito in ritardo sull’originale francese che infatti aveva cinque anni in più nel titolo del film).

 Vi sono parti dedicata alla scuola. Un personaggio del film tiene i suoi figli lontani dalla scuola pubblica e gli fa scuola, a loro ed ai loro amichetti, a casa. Gli fa sentire ad esempio la voce registrata delle balene. Ad un certo punto irrompono le maestre e gli dicono, senza giri di parole di mandare i figli a scuola, così come loro, ed anche lui, sono andate ed alla fine “…non siamo più coglioni di altri…”

Tiziano Tussi

 

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