SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N. 265 DEL 05/08/16

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N. 265 DEL 05/08/16

In allegato e a seguire la Newsletter n. 265 del 05/08/16 di “Sicurezza sul lavoro: Know Your Rights!”.

IN QUESTO NUMERO:
-         Le “Frequently Asked Questions” di Sicurezza Sul Lavoro - Know Your Rights! - N.16
-         Cosa è il mobbing: una breve guida
-         I rischi del lavoro in esterno: alte temperature, radiazioni solari e non solo
-         Antincendio nella scuola: il Decreto Ministeriale 12 maggio 2016
-         Il sovraccarico biomeccanico e la valutazione del rischio
-         Imparare dagli errori: se le mani non sono protette dai tagli

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.
La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.
L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

Marco Spezia
ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro
Medicina Democratica - Movimento di lotta per la salute onlus
Progetto “Sicurezza sul lavoro! Know your rights”

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LE “FREQUENTLY ASKED QUESTIONS” DI SICUREZZA SUL LAVORO - KNOW YOUR RIGHTS! - N.16

Nella mia attività di diffusione della cultura della salute e sicurezza sul lavoro, spesso sono chiamato, da lavoratori o associazioni sindacali di base, a svolgere delle vere e proprie “consulenze” (ovviamente del tutto gratuite) di ampio respiro, che poi riporto, per condividere l’esperienza con tutti, nella mia newsletter, nella rubrica “Le consulenze di Sicurezza sul Lavoro – Know Your Rights!”.
In qualche caso invece le richieste che mi pervengono non richiedono consulenze di ampio respiro, ma brevi e sintetiche risposte a domande su temi molto specifici e limitati.
Anche in questo caso mi sembra giusto e doveroso diffondere questi brevi consulenze che hanno la forma delle cosiddette “Frequently Asked Questions”, facendo nascere su tale argomento una nuova rubrica della mia newsletter.
Ovviamente, per evidenti motivi di privacy e per non creare motivi di ritorsione verso i lavoratori o le associazioni che le hanno poste, riportando le domande ometto il nominativo del lavoratore e dell’azienda coinvolti.

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Ciao Marco,
sono responsabile manutenzione a bordo di una nave trasporto container.
Volevo chiederti se ritieni opportuno dotare il personale che effettua saldature a bordo di tute di protezione, se queste tute sono DPI e di che tipologia devono essere.
Credo che il tipo di tuta sia legato alla tipologia di saldatura che effettuiamo, per cui, se può servire, queste sono le saldature che effettuiamo a bordo:
-         saldature TIG (su acciaio al carbonio e acciaio inox);
-         saldature con elettrodo fusibile (su acciaio al carbonio);
-         saldature con elettrodi basici e acidi (su acciaio al carbonio).
Grazie della risposta.

Ciao,
a seguire le mie considerazioni.
Gli indumenti da saldatura rientrano nella definizione di Disposizione di Protezione Individuali (DPI) di cui all’articolo 74, comma 1 del D.Lgs. 81/08:
qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro, nonché ogni complemento o accessorio destinato a tale scopo”.
I criteri per l’individuazione e l’uso di tali DPI sono contenuti nell’Allegato VIII del D.Lgs. 81/08, ai sensi dell’articolo 79, comma 1 del medesimo Decreto.
Secondo la Tabella 7 del Punto 4 di tale Allegato, gli indumenti da saldatura devono proteggere il corpo del lavoratore da rischi termici da materiali caldi e da lavori di saldatura.
Ai sensi della Direttiva 89/686/CEE (e del Regolamento UE 2016/425 a partire dal 21 aprile 2018) tali DPI devono essere realizzati secondo norme armonizzate al fine di garantire i requisiti essenziali di cui alla Direttiva o al Regolamento).
Per gli indumenti da saldatura la norma armonizzata di riferimento è la UNI EN ISO 11611:2015 “Indumenti di protezione utilizzati per la saldatura e i procedimenti connessi”.
Secondo tale norma gli indumenti da saldatura devono avere caratteristiche specifiche rispetto agli indumenti di lavoro normali e, in particolare, essere progettati in modo da proteggere l’operatore da schizzi di metallo e da calore radiante e in modo da evitare la conduzione di elettricità dall’esterno all’interno e l’intrappolamento di parti di metallo fuso.
Essi inoltre devono essere progettati per rispondere ai seguenti requisiti:
-         propagazione limitata della fiamma;
-         trasferimento limitato di calore radiante;
-         resistenza elettrica;
-         impatti di piccoli schizzi di metallo fuso;
-         resistenza a trazione;
-         resistenza a lacerazione;
-         resistenza allo scoppio dei materiali lavoratori a maglia e delle cuciture;
-         resistenza della cucitura.
L’abbigliamento deve coprire completamente la parte superiore e quella inferiore del torso, il collo, le braccia fino al polso e le gambe fino alle caviglie.
Gli indumenti possono essere un singolo capo da lavoro (ad esempio tuta) oppure un capo in due pezzi (giacca e pantaloni).
I capi di abbigliamento da saldatura sono divisi in due classi:
-         Classe 1 per la protezione per tecniche e situazioni di saldatura meno pericolose che producono i minori livelli di schizzi ei di calore radiante;
-         Classe 2 per la protezione per tecniche e situazioni di saldatura più pericolose che producono i maggiori livelli di schizzi e di calore radiante.
In dettaglio, secondo il prospetto 3 dell’Allegato A della norma gli indumenti di Classe 1 devono essere utilizzati per le seguenti tipologie di saldature manuali:
-         saldatura a gas (acetilene);
-         saldatura TIG (tungsten inert gas);
-         saldatura MIG (metal inert gas) con corrente limitata;
-         saldatura MMA (manual metal arc con elettrodo al rutile);
-         saldatura al microplasma;
-         brasatura;
-         saldatura a punti.
Mentre gli indumenti di Classe 2 devono essere utilizzati per le seguenti tipologie di saldature manuali:
-         saldatura MMA (manual metal arc) con elettrodo acido, basico o cellulosico;
-         saldatura MAG (metal active gas);
-         saldatura MIG (metal inert gas) con corrente elevata;
-         saldatura al plasma;
-         saldature di qualunque tipo in posizioni ristrette oppure saldature di qualunque tipo eseguite sopra la testa dell’operatore o in analoghe posizione con posizione dell’operatore costretta in vicinanza al materiale da saldare.
Con riferimento alle tipologie di saldature effettuate a bordo, si rendono necessarie le seguenti classi di protezione:
-         saldature TIG: Classe 1;
-         saldature a elettrodo basico: Classe 2;
-         saldature a elettrodo acido: Classe 2;
-         saldature a elettrodo fusibile: Classe 2;
-         saldature sopratesta o in posizione ristrette o costrette: Classe 2.
Per uniformità e cautelativamente, si consiglia sempre l’utilizzo di tute di Classe 2.
Marco

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Ciao Marco,
come faccio a contrastare chi nelle aziende socio-sanitarie sostiene che il sollevatore per i pazienti si debba usare da parte di un solo operatore?
Comprendo che è una ragione di buon senso, nel senso che una volta imbragato il paziente lo si può anche “spostare” da soli, ma credo che tutte le manovre di movimentazione manuale dei carichi vadano comunque fatte in 2.
Idem per la questione del rifacimento dei letti: in 1 o in 2?
Senza norme precise tutti ci sguazzano dentro...

Ciao,
le norme ci sono, ma non dicono certo nel dettaglio come eseguire le operazioni di sollevamento dei pazienti o il rifacimento dei letti.
Il D.Lgs. 81/08 prevede che le attività di movimentazione manuale dei carichi (MMC) debbano essere eliminate o ridotte il più possibile, anche mediante specifica valutazione del rischio, da condurre secondo i criteri indicati nelle norme tecniche della famiglia di norme ISO 11228.
Se a seguito della valutazione, il rischio da sollevamento risulta elevato, l’azienda deve intraprendere misure di prevenzione e protezione per ridurre il rischio.
Il fattore di rischio da sollevamento dipende da:
-         massa (cioè peso) dell’oggetto o della persona sollevata;
-         fattori posturali;
-         frequenza della movimentazione;
-         durata della movimentazione;
-         numero di operatori.
Ora poiché nell’attività di sollevamento di pazienti con sollevatore la massa e i fattori posturali (definiti dalla posizione del paziente e dalla geometria del sollevatore) non possono essere modificati, l’unico modo per ridurre il fattore di rischio è, da un lato ridurre frequenza e durata delle attività di sollevamento (aumentare il numero di addetti per far “ruotare” il più possibile l’attività tra di essi), da un altro aumentare il numero di operatori per singolo sollevamento, per ripartire la massa sollevata tra due persone.
Il processo logico che ho riportato (molto succintamente...) qui sopra deve essere formalizzato dall’azienda che deve adottare, se i fattori di rischio risultano elevati, le due misure di prevenzione da me indicate.
Un caro saluto.
Marco

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Ciao Marco,
scusa se ti disturbo.
Sono RSPP della mia scuola in Istituto comprensivo (dall’infanzia alla secondaria di I grado) e come ogni anno sto seguendo on-line il corso di aggiornamento (40 ore) organizzato dalla direzione della scuola.
Quest’anno i moduli (15) non sono specifici per il macrosettore 8 (quello relativo alla scuola), ma riguardano tutti i luoghi di lavoro. E’ corretto?
E le domande finali possono riguardare problematiche per nulla afferenti al nostro settore?
Cordiali saluti.

Ciao,
come tu sai, i corsi di aggiornamento per RSPP (e ASPP) sono sanciti e regolati a livello legislativo dall’articolo 32, comma 6 del D.Lgs. 81/08, che stabilisce che:
I responsabili e gli addetti dei servizi di prevenzione e protezione sono tenuti a frequentare corsi di aggiornamento secondo gli indirizzi definiti nell’accordo Stato-regioni di cui al comma 2 [Accordo sancito il 26 gennaio 2006 in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 37 del 14 febbraio 2006]”.
Pertanto il testo normativo che definisce i contenuti dei corsi di aggiornamento per RSPP (e ASPP) e l’Accordo Stato Regioni del 26/01/06:
Tale accordo al Punto 3 dell’Allegato 1 dispone quanto segue:
In attuazione di quanto previsto dal citato comma 5 dell’articolo 8bis [del D.Lgs. 626/94, ora comma 6 dell’articolo 32 del D.Lgs. 81/08] si conviene che i corsi di aggiornamento, che potranno essere effettuati anche con modalità di formazione a distanza, dovranno comunque fare riferimento ai contenuti dei moduli del rispettivo percorso formativo, con particolare riguardo:
a) al settore produttivo di riferimento;
b) alle novità normative nel frattempo eventualmente intervenute in materia;
c) alle innovazioni nel campo delle misure di prevenzione”.
Pertanto l’Accordo specifica chiaramente che l’aggiornamento della formazione deve fare riferimento ai “moduli rispettivo percorso formativo”, dove per percorso formativo si intende quelli del corso “base” del RSPP e specifica ancor più chiaramente che l’aggiornamento deve essere relativo (lettera a)) “al settore produttivo di riferimento”.
Quindi, se nel corso che segui, la formazione è relativa ad altri settori produttivi, si tratta di un errore da parte dell’ente formatore che, probabilmente, vende pacchetti a uso e consumo di vari settori produttivi per evitarsi l’impegno di prepararli in maniera specifica per ogni contesto.
Stessa cosa si può dire per le domande del test di apprendimento che, secondo normativa richiamata non possono che riguardare il settore produttivo di riferimento su cui deve essere modulato il corso.
Il corso in questione quindi non rispetta in pieno quanto previsto da un punto di vista normativo, sia come contenuti, sia, eventualmente, come valutazione dell’apprendimento.
Purtroppo in merito alla formazione se ne vedono di tutti i colori...
A disposizione per ulteriori chiarimenti.
Marco

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Caro Marco,
la normativa vigente prevede che sia consegnata o meno agli RLS la relazione sanitaria annuale redatta dal medico competente?
In uno dei tuoi scritti mi sembra di avere letto di NO....
Mi puoi chiarire il dubbio.
Grazie.

Ciao,
in un caso precedentemente trattato parlavo del verbale della riunione ex articolo 35 del D.Lgs. 81/08 (Decreto), concludendo quanto segue:
A seguito di quanto sopra, pertanto il datore di lavoro o il dirigente devono consegnare fisicamente il verbale della riunione periodica al RLS, il quale però lo potrà solo consultare all’interno dell’azienda e non portarlo al di fuori della stessa, né tantomeno fotocopiarlo e diffonderlo”.
E il verbale della riunione periodica deve contenere, secondo l’articolo 35 del Decreto, anche “l’andamento degli infortuni e delle malattie professionali e della sorveglianza sanitaria”.
E’ però vero che tra gli obblighi di cui all’articolo 25 del Decreto a carico del medico competente, vi è quello di cui al comma 1, lettera l), secondo cui il medico competente:
comunica per iscritto, in occasione delle riunioni di cui all’articolo 35, al datore di lavoro, al responsabile del servizio di prevenzione protezione dai rischi, ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, i risultati anonimi collettivi della sorveglianza sanitaria effettuata e fornisce indicazioni sul significato di detti risultati ai fini della attuazione delle misure per la tutela della salute e della integrità psico-fisica dei lavoratori”.
Pertanto, mentre datore di lavoro e dirigenti dell’azienda non sono obbligati a dare queste informazioni per iscritto, mediante il verbale della riunione, lo è invece il medico competente in quanto deve comunicare “per iscritto” anche al RLS “i risultati anonimi collettivi della sorveglianza sanitaria”.
Quindi come RLS la richiesta la potrai fare, nell’ambito della riunione ex articolo 35, direttamente al medico competente e se lui non vorrà darti la comunicazione potrai farlo formalizzare nel verbale di riunione.
Marco

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COSA E’ IL MOBBING: UNA BREVE GUIDA

Da Studio Cataldi
02 agosto 2016

Con il termine “mobbing” si fa riferimento, in generale, all’insieme dei comportamenti che tendono a emarginare un soggetto dalla società di cui esso fa parte, tramite violenza psichica protratta nel tempo e in grado di causare seri danni alla vittima.
Non esiste un criterio specifico per individuare tali atti, nei quali rientra quindi ogni forma di angheria perpetrata da una o più persone nei confronti dell’individuo più debole: ostracismo, umiliazioni pubbliche e diffusione di notizie non veritiere.

ETIMOLOGIA DEL TERMINE
La parola mobbing è stata coniata ufficialmente da un etologo austriaco, Konrad Lorenz.
Il significato iniziale si riferiva, infatti, a tutti quegli atteggiamenti animali perpetrati da uno o più membri di un gruppo nei confronti di quello che potrebbe essere definito come l’anello debole dell’insieme, al fine di estraniare il soggetto dal resto branco e allontanarlo.
Più specificamente, il termine mobbing non è altro che una forma di gerundio sostantivato del verbo “to mob”, coniato, nella lingua inglese, nel corso del XVII secolo e diretto derivato di una comune espressione latina (“mobile vulgus”) con la quale ci si riferiva ai folti gruppi tipici di una parata o di un evento locale, che avevano la cattiva abitudine di muoversi in modo disordinato seminando il caos nei dintorni.
Con il termine “to mob”, in sostanza, si intende letteralmente: accalcarsi intorno a qualcuno, affollarsi, assalire tumultuando.
Oggi, tuttavia, l’accezione del termine si è sviluppata sino ad indicare, in generale, le persecuzioni psicologiche perpetrate da parte di uno o più individui nei confronti di un altro, nel contesto lavorativo e non solo.

RILEVANZA GIURIDICA
Come accennato, dunque, oggi con il termine mobbing si intende quella forma di terrore psicologico, esercitato, con modalità e tempistiche ben precise, in danno di un collega di lavoro, di un subordinato, di un individuo più debole, con il chiaro intento di danneggiarlo ed emarginarlo.
Affinché il mobbing assuma rilevanza sul piano giuridico è più in particolare necessario che il terrore psicologico si estrinsechi in comportamenti aggressivi e vessatori, che si protraggano nel tempo in maniera ripetitiva, regolare e frequente.

MOBBING E LAVORO
Il contesto principale con riferimento al quale si è iniziato a far riferimento al mobbing come a un comportamento illecito, giuridicamente rilevante, è quello lavorativo.
In tal contesto, sostanzialmente, il mobbing si estrinseca in tutti quei comportamenti che il datore di lavoro o i colleghi pongono in essere, per svariate ragioni, al fine di emarginare e allontanare un determinato lavoratore.
Da tale definizione è possibile far discendere una prima forma di classificazione del mobbing: quella che distingue il mobbing verticale dal mobbing orizzontale.
Il mobbing verticale (o bossing) è la classica forma nella quale si estrinseca il mobbing e consiste negli abusi e nelle vessazioni perpetrati ai danni di uno o più dipendenti da un loro diretto superiore gerarchico. In questi casi le possibilità di ribellarsi a tali atteggiamenti sono spesso molto limitate e di non facile attuazione, in ragione dei rapporti di forza sbilanciati tra mobber e mobbizzato.
Per mobbing orizzontale, invece, si intende l’insieme di atti persecutori messi in atto da uno o più colleghi nei confronti di un altro, spesso finalizzati a screditare la reputazione di un lavoratore mettendo in crisi la sua posizione lavorativa. Si tratta di comportamenti difficili da fronteggiare e denunciare soprattutto se attuati da un gruppo.
Per quanto esse siano del tutto inusuali, talvolta possono comunque verificarsi anche ipotesi di mobbing dal basso o low mobbing.
Si tratta di una serie di azioni che mirano a ledere la reputazione delle figure di spicco aziendali, magari a seguito di un loro comportamento ritenuto non idoneo da parte di un buon numero di dipendenti oppure per motivi semplici quanto futili, come antipatia o invidia per il potere mostrato o per la posizione raggiunta.
E’ una situazione che, ad esempio, può verificarsi in ipotesi di crisi economica aziendale. In questi casi, infatti, non è raro che la figura del capo sia considerata alla base della crisi e di ogni altra problematica come disorganizzazione, cattiva reputazione dell’azienda, incapacità di essere competitivi.

IN PARTICOLARE: IL BOSSING
Tra le diverse tipologie di mobbing che possono estrinsecarsi nel mondo del lavoro, di certo quella più diffusa è il bossing.
Su di esso, quindi, è il caso di soffermarsi qualche riga in più.
Innanzitutto occorre chiarire che questa pratica combina, in maniera premeditata, azioni a scopo intimidatorio con veri e propri atti di violenza psico-fisica e di esclusione dai privilegi aziendali solitamente riservati in forma equa ai vari dipendenti.
Tali provvedimenti riguardano spesso l’assegnazione d’incarichi lavorativi specifici, l’esclusione dai meeting del personale dipendente e il tenere nascoste solo ad alcuni dipendenti le informazioni che usualmente vengono diffuse tra tutti.
Tra gli altri atteggiamenti che caratterizzano il comportamento mobbizzante vi è poi, ad esempio, il fenomeno del ridimensionamento di ruolo nella comunità aziendale, che vede brillanti dipendenti (ritenuti potenzialmente pericolosi per lo status di alcuni alti membri del comitato direttivo a rischio) incaricati di mansioni di poco conto, come quella di fare fotocopie o gestire la posta di altri dipendenti di pari rango, che li demotivano e limitano l’espressione delle proprie capacità e conoscenze.
L’intento è quello di creare nella vittima, per varie ragioni, un senso di emarginazione e di cagionarle frustrazione e un’ansia sempre crescente e spesso insopportabile.

CAUSE ALLA BASE DEL MOBBING
Se i comportamenti individuati come mobbing hanno assunto rilevanza nei vari ordinamenti giuridici principalmente in relazione agli ambienti di lavoro, ciò è derivato dalle particolari caratteristiche che connotano il relativo ramo del diritto.
Il mobbing, non a caso, riguarda spesso grandi aziende, le quali lo utilizzano per aggirare la normativa a tutela dei licenziamenti cagionando nel lavoratore “sgradito” una condizione di stress psico-fisico, idonea a determinarlo ad abbandonare di sua “spontanea volontà” il luogo di lavoro.
Tuttavia le motivazioni che possono celarsi dietro gli atti mobbizzanti sono molteplici.
Talvolta, ad esempio, l’intento dei mobber è quello di riversare su un “capro espiatorio” alcune problematiche interne di vario genere.
Altre volte il mobbing è dettato da motivazioni di carattere strettamente personale.
Esso può anche essere la conseguenza del rifiuto, da parte della vittima, delle advances del superiore o del collega poi divenuto mobber.
Da tutto ciò emerge chiaramente che le conseguenze dannose del mobbing non sono necessariamente connesse alla perdita del posto di lavoro che esso può illecitamente e indirettamente cagionare. Essere vittima di ripetute vessazioni, attacchi e umiliazioni può, infatti, indurre nel lavoratore paure e insicurezze, idonee ad incidere in maniera anche rilevante sulla sua salute psico-fisica.

TUTELA GIURIDICA CONTRO IL MOBBING
Nel nostro ordinamento possono rinvenirsi diverse norme che permettono alle vittime di tutelarsi rispetto a fenomeni di mobbing.

LA COSTITUZIONE
La prima fondamentale tutela può essere rinvenuta nella Costituzione.
La carta fondamentale del nostro ordinamento, infatti, all’articolo 32 riconosce e tutela la salute come un diritto fondamentale dell’uomo, all’articolo 35 tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni e all’articolo 41 vieta lo svolgimento delle attività economiche private che possano arrecare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.

IL CODICE CIVILE E LE LEGGI SPECIALI
Spostandoci dal piano dei principi a quello pratico, nel nostro codice civile è possibile rinvenire due fondamentali norme in grado di aiutare le vittime di comportamenti mobbizzanti a trovare tutela rispetto alle lesioni subite.
Si tratta, innanzitutto, dell’articolo 2043 che prevede l’obbligo di risarcimento in capo a chiunque cagioni ad altri un danno ingiusto con qualunque fatto doloso o colposo.
Si tratta poi dell’articolo 2087 che impone all’imprenditore di adottare tutte le misure idonee a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale di lavoratori.
Con riferimento alle leggi speciali, una tutela contro comportamenti mobbizzanti può essere ravvisata innanzitutto nello Statuto dei lavoratori, nella parte in cui pone una specifica procedura per le contestazioni disciplinari a carico dei lavoratori e laddove punisce i comportamenti discriminatori del datore di lavoro.
Un’ulteriore tutela, di carattere più generale, è ravvisabile, infine, nel Testo unico in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.

IL CODICE PENALE
Il mobbing, nel nostro ordinamento può talvolta assumere rilevanza anche da un punto di vista penale, sebbene non esista una specifica figura di reato.
I comportamenti mobbizzanti, infatti, a determinate condizioni possono cagionare delle conseguenze riconducibili al reato di lesioni personali di cui all’articolo 590 del codice penale.

TUTELA CIVILISTICA
Le vittime di mobbing, quindi, trovano la loro principale fonte di tutela nella possibilità di esperire i tradizionali rimedi civilistici offerti dal nostro ordinamento.
Esse potranno insomma citare in giudizio il loro mobber nelle forme del rito ordinario al fine di vederne accertata la responsabilità per il danno che hanno cagionato nei loro confronti, ovverosia non solo il danno biologico ma anche il danno morale.

ONERE DELLA PROVA
Affinché possa essere risarcito del danno subito, tuttavia, è necessario che il mobbizzato fornisca una prova precisa e adeguata del mobbing.
Innanzitutto egli dovrà provare che, nei suoi confronti, è stata perpetrata una serie di comportamenti persecutori, con intento vessatorio.
Costituiscono esempi di tali comportamenti, si ricorda, le critiche continue e immotivate, la dequalificazione, l’emarginazione, le molestie.
Il mobbizzato dovrà provare, poi, che tali comportamenti non sono sfociati in un unico, isolato, evento, ma sono stati reiterati lungo un arco temporale medio-lungo, ovverosia per un periodo di tempo tale da rendere invivibile il contesto di riferimento.
Un’ulteriore fondamentale prova da fornire è quella relativa al danno subito. Essa potrà essere data con dichiarazioni testimoniali e, ancor più efficacemente, con perizie e certificati medici che attestino lo stato di depressione e frustrazione.
Infine, ed è questa la prova più delicata da fornire, dovrà essere accertato lo stretto rapporto causale tra la condotta denunciata e il danno subito.

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I RISCHI DEL LAVORO IN ESTERNO: ALTE TEMPERATURE, RADIAZIONI SOLARI E NON SOLO

Da: PuntoSicuro
21 luglio 2016

Un volume dedicato alle Piccole e Medie Imprese (PMI) e al mondo dell’artigianato riepiloga la normativa in materia di salute e sicurezza.
Focus sui rischi del lavoro in esterno con particolare riferimento alle radiazioni solari: normativa, DPI e misure di prevenzione.

Arrivati alla stagione estiva e alle temperature che la caratterizzano, riprendiamo a parlare, come abbiamo fatto anche in un recente articolo, del caldo negli ambienti di lavoro. Con particolare riferimento, in questo caso, ai lavoratori che svolgono la loro attività all’aria aperta (i cosiddetti “lavoratori outdoor”) e partendo dalla constatazione che il rischio da radiazione UV solare nel mondo del lavoro non è ancora sufficientemente conosciuto.

Per affrontare il tema del lavoro in esterni facciamo riferimento al contenuto del volume “Salute e Sicurezza nelle imprese artigiane e nelle PMI: cosa occorre sapere e cosa si deve fare”, realizzato dall’Organismo Paritetico Regionale per l’Artigianato Lombardia (OPRA Lombardia) e dai vari Organismi Paritetici Territoriali Artigiani (OPTA).

Nel capitolo dedicato ai rischi del lavoro in esterno si segnala che pur essendo la radiazione solare classificata dalla IARC nel gruppo 1 di cancerogenesi (sufficiente evidenza di cancerogenicità per l’uomo) e pur costituendo un fattore di rischio per tutte le attività all’aperto, essa non è stata inserita nell’elenco degli Agenti cancerogeni e mutageni del D.Lgs. 81/08.

Tuttavia benché le radiazioni UV solari siano escluse dal campo di applicazione del D.Lgs. 81/08, l’articolo 181 del Testo Unico specifica che la valutazione del rischio di tutti gli agenti fisici deve essere tale “da identificare e adottare le opportune misure di prevenzione e protezione con particolare riferimento alle norme di buona tecnica e alle buone prassi” (articolo 181, comma 1).

Nel volume dedicato al mondo dell’artigianato si indica che il principio di fondo è dato dall’assunto che il lavoratore deve essere protetto da tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori ragionevolmente prevedibili e quindi valutabili. Il Datore di Lavoro deve sempre considerare l’effetto del rischio sulla salute dei lavoratori tenendo conto dell’evoluzione tecnica in materia di prevenzione e sicurezza sul lavoro, e dato che le buone prassi sono per definizione documenti di natura applicativa sviluppati in coerenza con le norme tecniche, è consigliabile utilizzarle come riferimenti primari ogni qualvolta ve ne sia disponibilità.
E si ricorda che tali aspetti vanno riguardati anche considerando che:
-         il Decreto del 27 Aprile 2004 del Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale inserisce i tumori cutanei nella lista delle malattie professionali con obbligo di denuncia;
-         il Decreto Ministeriale 9 aprile 2008 “Nuove Tabelle delle Malattie Professionali nell’Industria e nell’Agricoltura” contempla tra le malattie professionali le malattie causate dalle radiazioni UV, tra le quali le radiazioni solari, chiarendo anche che sono lavorazioni che espongono alle radiazioni UV, quelle che espongono alle radiazioni solari presso stabilimenti balneari, a bordo di navi, in cantieri di edilizia stradale, in cave e miniere a cielo aperto.

Il documento risponde poi a vari quesiti sulla gestione della sicurezza dei lavoratori outdoor.

Quali sono i rischi per la salute del lavoratore che svolge la propria attività in esterno?
Secondo il documento i rischi possono essere molteplici. Infatti durante le lavorazioni in esterno, il lavoratore può essere esposto alla radiazione solare ultravioletta che può provocare:
-         colpo di calore;
-         disidratazione del corpo;
-         eritemi e/o ustioni;
-         insorgenza di malattie della pelle;
-         invecchiamento cutaneo;
-         insorgenza di melanomi.

Non dimentichiamo tuttavia che il lavoratore in esterni può essere esposto anche a temperature fredde. E una temperatura eccessivamente bassa può provocare, per esposizioni prolungate nel tempo, congelamenti in specie delle estremità, ma anche, in soggetti predisposti, accidenti cardiovascolari.
Inoltre si sottolinea che anche gli sbalzi repentini della temperatura possono essere dannosi (per esempio, entrando in una cella frigorifera d’estate).

In riferimento al tema delle radiazioni solari, il documento indica anche i Dispositivi di Protezione Individuale che è bene adottare.
Si indica che durante l’esposizione ai raggi solari è necessario indossare un cappello in tessuto anti UV, a tesa larga e circolare per proteggere capo e viso. Quando si lavora al sole, anche se fa caldo non bisogna scoprirsi, vanno usati invece abiti leggeri e larghi, maniche e pantaloni lunghi (è importante non lasciare scoperte parti del corpo) e tessuti che proteggano dai raggi UV. Non va dimenticato infine di proteggere gli occhi con occhiali da sole.

E, infine, cosa si può fare per migliorare le condizioni di sicurezza?
Il documento indica che in relazione alle diverse condizioni microclimatiche presenti è opportuno prevedere tempi di lavoro il più possibile contenuti e intervallati da pause o cambio di mansioni. Nei casi di temperature ambientali elevate e/o di umidità eccessiva occorre garantire in azienda adeguati servizi igienici, comprensivi di docce, spogliatoi, luoghi di riposo.
Inoltre si deve cercare di attuare, per quanto possibile, schermature con teli e con coperture, per proteggere i lavoratori che lavorano all’aperto. Per creare zone d’ombra esistono anche delle strutture portatili (simili ad ombrelloni) che il lavoratore sposta secondo le proprie esigenze (importante è che vi sia lo spazio sufficiente per utilizzarle).
Si deve poi organizzare adeguatamente, ove possibile, l’orario di lavoro in maniera tale che durante le ore della giornata in cui gli UV sono più intensi (dalle 13 alle 16) si privilegino i compiti lavorativi che si svolgono all’interno, riservando i compiti all’esterno per gli orari mattutini e serali in cui l’esposizione agli UV è minore.

Chiaramente si può anche cercare di sfruttare le zone di ombra prodotte da alberi o costruzioni vicine, fornendo così il lavoratore di un luogo ombreggiato dove consumare i pasti e sostare durante le pause. E non ultimo tra gli interventi applicabili, si può fare ricorso a prodotti antisolari.

Accantonando il rischio correlato alle temperature e alle radiazioni solari, un altro fattore di rischio per i lavoratori in esterno può essere l’esposizione al contatto con agenti biologici, in grado di provocare infezioni, allergie o intossicazioni.
Il contatto con tali agenti può avvenire per interazione con il terreno, gli animali selvatici o randagi, i loro parassiti (zecche e pulci), gli insetti e i rettili.
Rappresentano un pericolo anche i depositi di letame e liquame e tutte le lavorazioni di concimazione che prevedono il loro uso.

Nel volume è presente anche una breve check list per la verifica della sicurezza dei lavoratori che svolgono lavori all’aperto.

Il documento dell’Organismo Paritetico Regionale per l’Artigianato Lombardia “Salute e Sicurezza nelle imprese artigiane e nelle PMI: cosa occorre sapere e cosa si deve fare” è scaricabile all’indirizzo:

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ANTINCENDIO NELLA SCUOLA: IL DECRETO MINISTERIALE 12 MAGGIO 2016

Da: PuntoSicuro
25 luglio 2016
A cura di Paolo Pieri

Pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 121 del 25 maggio 2016 il Decreto Ministeriale del 12 maggio 2016 è stato presentato dai giornali come il decreto che avvia il piano per l’adeguamento delle scuole alle norme di prevenzione e protezione dagli incendi.
In realtà il messaggio recepito dagli operatori del settore è quello della solita deroga riguardante il mancato adempimento di quanto prescritto dalla normativa vigente, per giunta ormai obsoleta, riguardante l’adeguamento degli edifici scolastici alla normativa antincendio.

Anzi, più che una deroga, il Decreto in oggetto pare essere una sorta di “condono” che finisce con l’imporre alle “scuole” gli adeguamenti prescritti dalla vecchia regola tecnica del 26/08/92, già in atto da tale data e che quindi sono presumibilmente già stati in buona parte realizzati.

Infatti le prescrizioni che dovranno essere ottemperate secondo delle scadenze differenziate (una il 26 agosto 2016 e l’altra il 26 novembre 2016) sono così vicine alla data dell’entrata in vigore del Decreto del 12 maggio 2016, da far quasi pensare ad un miracolo nel constatare che entro tali scadenze tutte le scuole, o quasi, alla fin fine sono effettivamente dotate di un numero sufficiente di estintori portatili, di impianti elettrici a norma, di interruttore generale con comando di sgancio a distanza, di un sistema di allarme da attivare in caso di pericolo, di segnaletica di sicurezza, di un registro dei controlli periodici, del piano di emergenza, e, insomma, degli accorgimenti per l’esercizio in sicurezza dell’attività prescritti dal punto 12 del già citato Decreto del 26 agosto 1992.

Si riassumono brevemente le scadenze differenziate entro le quali tutti gli istituti dovranno provvedere a mettere in atto gli adempimenti previsti dal Decreto del 26 agosto 1992.

Entro tre mesi dall’entrata in vigore del Decreto appena pubblicato (26 agosto 2016), nelle scuole esistenti devono essere attuate le misure di cui ai punti 7.0, 8, 9.2, 10, 12 del Decreto stesso.
In altre parole gli Enti proprietari in ogni edificio scolastico devono:
-         adeguare l’impianto elettrico ai criteri stabiliti dalla Legge 86/68;
-         dotarsi di un sistema di allarme in grado di avvertire gli alunni ed il personale presenti in caso di pericolo;
-         installare gli estintori portatili;
-         applicare la segnaletica di sicurezza;
-         effettuare controlli periodici degli impianti e dei presidi installati. (a carico delle scuole vi è la sola effettuazione della sorveglianza periodica degli impianti e dei presidi installati).

Entro sei mesi (26 ottobre 2016) nelle scuole già esistenti al momento dell’entrata in vigore del Decreto Ministeriale del 18 dicembre 1975 devono essere attuati i punti 2.4, 3.1, 5, 6.1, 6.2, 6.3, 6.4, 6.5, 6.6, 7.1, 9.1, 9.3 e quindi:
-         separazione dei locali adibiti all’attività scolastica da quelli a uso diverso;
-         utilizzazione di materiali con una resistenza al fuoco adatta in base agli ambienti, come stabilito dal Decreto Ministeriale del 26 giugno 1984;
-         regolazione della larghezza delle uscite per ogni piano e l’affollamento massimo consentito per aula;
-         definizione degli spazi adibiti alle esercitazioni, a deposito, alle attività parascolastiche (auditorium, aule magne, ecc.), ad autorimesse e ai servizi logistici;
-         adeguamento degli impianti di produzione del calore;
-         dotazione di idranti e impianti fissi di rilevazione e estinzione degli incendi.

Dopo gli adeguamenti, e comunque non oltre il 31 dicembre 2016, l’Ente proprietario dovrà presentare la Segnalazione Certificata di Inizio Attività (SCIA).

Per quegli edifici scolastici e locali adibiti a scuole esistenti che siano in possesso del Certificato di Prevenzione Incendi (CPI), in corso di validità, o sia stata presentata la SCIA, vige invece l’esenzione dall’obbligo di adeguamento
Gli edifici scolastici che potranno beneficiare di tale esenzione, in base ai dati comunicati dal MIUR nella presentazione dell’Anagrafe Edilizia Scolastica dello scorso 7 agosto 2015, sono all’incirca il 25% dell’intero patrimonio edilizio.

In realtà anche gli edifici scolastici che rientrano nel rimanente 75% hanno negli anni fruito delle opere di adeguamento al Decreto Ministeriale del 26 agosto 1992, effettuate arbitrariamente dagli Enti proprietari, magari in più tempi e senza consultare il Dirigente scolastico di turno.
Di rimando i Dirigenti scolastici hanno nel tempo predisposto il Piano di Emergenza, il Registro delle Verifiche periodiche dei dispositivi di protezione contro l’incendio e, forse non tutti, la Valutazione del Rischio Incendio, da allegare al Documento di Valutazione del Rischio.

Alla luce di questi ragionamenti, la reale portata del Decreto Ministeriale del 12 maggio 2015 inizia ad apparire più chiara e meno allarmante.

Per quanto riguarda gli edifici scolastici dotati di CPI in corso di validità o per i quali sia stata presentata la SCIA, sia l’Ente proprietario che il Dirigente scolastico non dovranno aspettarsi degli specifici sopralluoghi ispettivi da parte dei Vigili del Fuoco (VVF).
Per tutti gli altri edifici, invece, vi potranno essere dei sopralluoghi ispettivi a partire dal mese di gennaio 2017, a meno che l’Ente proprietario non abbia nel frattempo presentato la SCIA entro il 31/12/16.

Gli Enti proprietari dovranno quindi darsi da fare per presentare il maggior numero di SCIA, mentre i Dirigenti scolastici dovranno adoperarsi per revisionare, o magari integrare, i loro piani di emergenza, il registro delle verifiche periodiche e la valutazione del rischio incendio.
Se quindi i primi sono sicuramente consapevoli del numero di edifici scolastici per i quali devono ancora completare gli adeguamenti alla normativa di prevenzione incendi, i secondi si trovano, invece, di fronte al solito problema: se avranno avuto in consegna un edificio a norma, già dotato di CPI, dormiranno sonni tranquilli con la testa tra due cuscini; se viceversa si trovano nella condizione più sfortunata di avere un edificio non adeguato alla normativa, dovranno stare svegli e continuare a camminare sulle braci ardenti, e si dovranno adoperare per redigere e/o reperire tutta la documentazione prevista dal Decreto Ministeriale del 12 maggio 2016.
Questa parte meno fortunata di Dirigenti scolastici avrà sicuramente a disposizione un piano di emergenza, avrà nominato e formato gli addetti all’antincendio e all’evacuazione e salvataggio; ma sarà sicuramente meglio riprendere in mano il piano di emergenza e il piano della formazione, per verificare che sia tutto effettivamente aggiornato; inoltre tutti avranno adottato un Registro delle verifiche periodiche, ma in questo caso, ricontrollandolo potrebbe saltare agli occhi che non è completo o che nel corso degli anni non è stato compilato in modo puntuale.

Se poi il Dirigente scolastico, sempre quello sfortunato senza il CPI o la SCIA, prende in mano il Documento di Valutazione dei Rischi, si potrebbe accorgere che il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP) della scuola non gli aveva mai prodotto la valutazione del rischio incendio; per il Dirigente Scolastico i punti dolenti potrebbero essere quindi almeno due: la valutazione del rischio incendio e il registro delle verifiche periodiche dei dispositivi di protezione contro l’incendio.
A questi due punti se ne dovrà purtroppo aggiungere un terzo per il quale il Dirigente Scolastico non è direttamente responsabile: il riferimento è alla solita difficoltà di comunicazione e di scambio di informazioni con l’Ente proprietario.

Il recepimento del Decreto Ministeriale del 12 maggio 2016 da parte dei Dirigenti Scolastici comporterà pertanto la necessità di muovere subito il primo passo chiedendo all’Ente proprietario l’invio di una relazione che informi in modo ufficiale il Dirigente Scolastico stesso sullo stato di avanzamento dell’iter per l’ottenimento del CPI o per la presentazione della SCIA. Il secondo passo dovrà poi essere quello di chiedere, sempre all’Ente proprietario, una copia dell’esame progetto approvato dai VVF, corredato delle debite informazioni sulle attività non ancora effettuate, in modo che il Dirigente Scolastico Dirigente Scolastico possa redigere o aggiornare la valutazione del rischio incendio, con l’ausilio del proprio RSPP.

A conclusione del presente articolo, rimane invece da aggiungere una constatazione amara: con il Decreto Ministeriale del 12 maggio 2016 il legislatore sembra abbia tutta l’intenzione da una parte di confermare la strada della semplificazione e dell’alleggerimento del lavoro ispettivo dei VVF, già intrapresa con il D.P.R. 151/2011, e dall’altra di condonare gli interventi di adeguamento ancora da effettuare, relegandoli al mero rispetto di una regola tecnica obsoleta non aggiornata con l’attuale tecnologia e con le nuove esigenze delle scuole.
I Dirigenti Scolastici dovranno, invece, continuare a dirigere e gestire l’attività scolastica in edifici scolastici che non sono sicuri, mentre gli edifici scolastici si troveranno ad avere una sorta di nuova classificazione implicita: edifici di prima classe o di prima scelta, quelli con CPI e SCIA; edifici di seconda classe o di seconda scelta, quelli con i lavori di adeguamento già completati e in attesa di verifica della regolarità della SCIA o del rilascio del CPI; edifici di terza classe o di terza scelta, quelli per i quali i lavori di adeguamento non sono stati ancora iniziati o completati.

In questo nuovo panorama di statiche conferme e in attesa dell’ennesima scadenza del 31/12/16, ci si chiede se mentre da una parte gli utenti delle scuole, cioè gli allievi e le loro famiglie, al momento dell’iscrizione al prossimo anno scolastico dovranno imparare a tenere conto anche della sicurezza dell’edificio nella loro scelta dell’Istituzione scolastica o, all’interno di essa, del plesso scolastico, dall’altra parte gli Enti proprietari potranno continuare a beneficiare di ulteriori proroghe statali della scadenza degli adempimenti della normativa antincendio.

Il Decreto del Ministero dell’Interno del 12 maggio 2016 “Prescrizioni per l’attuazione, con scadenze differenziate, delle vigenti normative in materia di prevenzione degli incendi per l’edilizia scolastica” è consultabile all’indirizzo:

Il Decreto del Presidente della Repubblica del 1 agosto 2011, n. 151 “Regolamento recante semplificazione della disciplina dei procedimenti relativi alla prevenzione degli incendi” è consultabile all’indirizzo:

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IL SOVRACCARICO BIOMECCANICO E LA VALUTAZIONE DEL RISCHIO

Da: PuntoSicuro
27 luglio 2016

Indicazioni relative alle malattie da sovraccarico biomeccanico di origine professionale con particolare riferimento alla valutazione del rischio specifico. I metodi e i protocolli per la valutazione, la serie ISO 11228 e le vibrazioni.

Nei paesi industrializzati le patologie muscoloscheletriche rappresentano ormai una delle più diffuse malattie da lavoro. E in relazione ad un più sensibile e diffuso meccanismo di riconoscimento della natura professionale di tali malattie, negli ultimi anni si è assistito ad un progressivo aumento del numero di denunce di tali patologie lavoro correlate (Work related Musculoskeletal Disorders, WMSDs) presentate all’INAIL.
E i settori/comparti lavorativi che sono interessati a questa tipologia di rischio sono numerosi, generalmente caratterizzati da un elevato grado di impegno diretto di manualità da parte degli addetti. Ad esempio nelle attività caratterizzate da processi che prevedono montaggio, assemblaggio, microassemblaggio, cablaggio a ritmi prefissati e/o elevati. E ci sono poi settori caratterizzati da cicli produttivi ripetitivi, non uniformabili a un processo tipo “catena di montaggio”, ma costituiti da sequenze di operazioni complesse e non pienamente automatizzabili.

A parlare in questi termini del sovraccarico biomeccanico nei luoghi di lavoro, con particolare riferimento alla valutazione dei rischi, è uno dei contributi presenti nella pubblicazione “Le malattie professionali. Aspetti clinici ed assicurativi”, curata dalla Direzione regionale Campania dell’INAIL. Una pubblicazione che raccoglie gli atti di un corso quadrimestrale di formazione sulle malattie professionali per operatori sanitari e consulenti delle parti che si è tenuto nel 2012 a Napoli.

L’intervento “Malattie da sovraccarico biomeccanico di origine professionale. La valutazione del rischio specifico”, a cura di Daniela Ferrante e Manrico Casale (Professionisti Contarp INAIL Campania), ricorda che le malattie da sovraccarico biomeccanico sono patologie a carico delle strutture osteomuscolo-tendinee che possono essere correlate ad attività lavorative caratterizzate da un costante impegno funzionale del distretto corporeo interessato. Lo sviluppo di queste tecnopatie è legato prevalentemente alla movimentazione manuale di carichi, all’effettuazione di compiti ripetitivi, all’assunzione di posture incongrue e all’esposizione a vibrazioni.

Gli autori indicano che in questo caso la valutazione del rischio si fonda principalmente sull’analisi delle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa, con particolare riguardo ai fattori di rischio principali quali: elevata ripetitività/frequenza dei movimenti, impegno di forza elevato, presenza di posture incongrue, inadeguati periodi di recupero, utilizzo di strumenti vibranti, eventuali fattori di rischio secondari (microclima sfavorevole, presenza di contraccolpi e movimenti bruschi, compressioni localizzate su segmenti anatomici da parte di utensili, oggetti o piani di lavoro, ecc.). E in letteratura sono disponibili varie procedure di valutazione del rischio ognuna delle quali tenta di quantificare, sia pure con diverse concezioni metodologiche, il contributo dei singoli fattori.

In particolare accanto alle liste di controllo (le check list) che permettono di inquadrare rapidamente le postazioni di lavoro (o le fasi lavorative) su cui è necessario intervenire con opportune misure di prevenzione, si trovano protocolli di analisi più complessi che conducono alla definizione di un indice di esposizione, derivato dall’integrazione delle informazioni di natura organizzativa, ottenute tramite l’elaborazione di elementi raccolti sui luoghi di lavoro, con dati di natura biomeccanica relativi al gesto tecnico preso in esame.

In questo panorama di riferimento assumono particolare rilievo le norme tecniche della serie ISO 11228, espressamente citata dall’Allegato XXXIII del D.Lgs. 81/08, che adotta metodi di analisi già adeguatamente validati: il metodo NIOSH per la misura degli indici di rischio nelle attività di sollevamento dei carichi (ISO 11228 Parte 1); il metodo Snook & Ciriello per la valutazione del rischio nelle attività di traino e spinta (ISO 11228 Parte 2); il metodo OCRA per la valutazione del rischio nelle attività che comportano movimenti ripetuti (ISO 11228 Parte 3).

Nell’analisi del rischio da sovraccarico biomeccanico assume inoltre un peso rilevante la misura dell’esposizione a vibrazioni meccaniche, derivanti dall’utilizzo di utensili manuali (vibrazioni del sistema mano-braccio) oppure di automezzi di vario tipo (vibrazioni al corpo intero).

Riportiamo brevemente alcune indicazioni relative alle tre parti della serie ISO 11228.

ISO 11228 Parte 1. Sollevamento e trasporto. La parte 1 delle norme tecniche della serie ISO 11228 fa riferimento al metodo predisposto da NIOSH al fine di valutare il contributo al sovraccarico biomeccanico dovuto alle singole azioni di sollevamento manuale di carichi. Per ogni azione di sollevamento, infatti, il metodo calcola il cosiddetto “peso limite raccomandato”. Tale calcolo viene effettuato a partire dal massimo peso sollevabile in condizioni ideali (Massa di Riferimento). A tale peso si applica una equazione che considera l’eventuale esistenza di elementi sfavorevoli durante il sollevamento.

ISO 11228 Parte 2. Spinta e traino. L’analisi del rischio di sovraccarico biomeccanico nelle attività di traino e spinta è legata principalmente alla valutazione di due forze che l’operatore applica per lo svolgimento del compito: la forza iniziale (FI), necessaria per vincere l’inerzia dell’oggetto, e la forza di mantenimento (FM) che deve prevalere sulle forze di attrito che si oppongono al movimento. La valutazione viene effettuata confrontando il valore delle forze effettivamente sviluppate dall’operatore in fase iniziale e di mantenimento, così come rilevate con l’impiego di dinamometri, con i valori riportati nelle cosiddette “Tabelle Psicofisiche”. Tali tabelle, che rappresentano il risultato di un’approfondita indagine condotta dai ricercatori Snook e Ciriello, riportano i valori delle forze raccomandate nelle azioni di traino e di spinta, per una popolazione lavorativa adulta sana in funzione di: differenza di genere, distanza di spostamento, frequenza di azione, altezza delle mani da terra. Si indica che il criterio di valutazione del rischio proposto dalla norma ISO 11228-2 contempla due diversi livelli di approfondimento.

ISO 11228 Parte 3. Movimentazione di piccoli carichi ad alta frequenza. La parte terza della norma ISO 11228 riguarda la valutazione del rischio da sovraccarico biomeccanico degli arti superiori nelle attività che prevedono la movimentazione di piccoli carichi ad alta frequenza, con speciale riferimento ai compiti ciclici contraddistinti da movimenti ripetuti del distretto mano-braccio. Anche in questo caso, vista la complessità dell’approccio valutativo del rischio, la norma prevede una valutazione preliminare semplificata mediante check list, a cui segue una valutazione più approfondita nel caso in cui l’attività esaminata sia caratterizzata da due o più compiti ripetitivi oppure emerga una situazione che pone il lavoratore a livelli di rischio significativo. In tali casi la norma suggerisce l’applicazione del metodo OCRA.

Segnaliamo, infine, che l’intervento si sofferma anche sulle vibrazioni.
Infatti numerosi studi hanno dimostrato che alcune patologie muscolo scheletriche, in special modo alcune alterazioni a carico della colonna vertebrale, si riscontrano con maggiore probabilità in lavoratori soggetti a vibrazioni caratterizzate da media-alta frequenza (tra 2 e 20 Hz) per le quali la muscolatura non è in grado di controllare i movimenti oscillatori indotti dalla sorgente vibrante nelle varie parti del corpo diversamente sollecitate, che quindi si comportano come un sistema a N gradi di libertà. Le esposizioni ad alte frequenze (20Hz), poi, sono comunemente generate da strumenti manuali vibranti e agiscono a livello degli arti inducendo malattie osteoarticolari e angioneurotiche.

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IMPARARE DAGLI ERRORI: SE LE MANI NON SONO PROTETTE DAI TAGLI

Da: PuntoSicuro
28 luglio 2016
di Tiziano Menduto

Esempi di infortuni correlati all’uso errato o mancato uso di DPI per la protezione delle mani. Gli infortuni durante le attività di taglio, la protezione dai rischi meccanici e i guanti contro i tagli e le ferite causate da coltelli a mano.

E’ facile constatare come molti dei gravi incidenti alle mani raccolti dal sistema di sorveglianza degli infortuni mortali e gravi in Italia, facciano riferimento ai rischi meccanici e agli infortuni da taglio.

Per questo motivo nel percorso della rubrica “Imparare dagli errori” attraverso gli infortuni correlati all’uso dei Dispositivi di Protezione Individuale (DPI), ci soffermiamo oggi proprio sugli infortuni dovuti a una non adeguata protezione dai tagli.
Come sempre le dinamiche degli infortuni presentati sono tratte dalle schede di INFOR.MO., strumento per l’analisi qualitativa dei casi di infortunio.

Il primo caso riguarda un infortunio durante il taglio di un pezzo di carne.
Un lavoratore mentre taglia un pezzo di carne nella macelleria perde il controllo dell’utensile a mano e si ferisce il pollice sinistro.
Al momento dell’incidente non indossava guanti antitaglio.

Anche il secondo caso riguarda un infortunio di un operatore nel comparto alimentare.
Un lavoratore deve accompagnare e far avvicinare con le mani il pesce (calamari e seppie) alla lama della macchina spellatrice per facilitarne la spellatura e la pulizia.
Nell’accompagnare il prodotto da lavorare esercitando una piccola pressione, muovendo le mani dalla lama verso il proprio corpo, entra in contatto con la lama che gli procura una ferita alla mano destra.
Il lavoratore non indossava i guanti antitaglio forniti dal datore di lavoro, in quanto previsti già nel libretto di istruzioni.

Il terzo caso riguarda un infortunio di un operatore addetto al taglio di fogli di lamiera.
Un lavoratore mentre assiste la lavorazione presso la linea nella quale avviene il taglio dei fogli di lamiera plastificata si accorge dell’improvviso piegamento della lamiera che determina il bloccaggio della macchina stessa.
Provvede a interrompere l’alimentazione attraverso il quadro dei comandi e con la mano destra, tenta lo sbloccaggio della lamiera stessa senza usare apposito attrezzo fornito secondo la procedura stessa.
Nel tentativo di disincastrare la lamiera, il dorso della mano destra urta la lamiera provocandosi una ferita lacero contusa con sezione del tendine estensore del terzo dito destro.
Vista la lavorazione specifica e la necessaria movimentazione delle lamiere che il lavoratore è tenuto ad eseguire, la ditta non ha provveduto a fornire idonei guanti antitaglio con adeguato indice di protezione al taglio.

Per avere indicazioni e suggerimenti sui guanti utili contro i rischi meccanici, e i rischi di taglio in particolare, possiamo fare riferimento al progetto multimediale Impresa Sicura (elaborato da EBER, EBAM, Regione Marche, Regione Emilia-Romagna e INAIL) che è stato validato dalla Commissione Consultiva Permanente per la salute e la sicurezza come buona prassi nella seduta del 27 novembre 2013. Progetto che ha prodotto negli anni diversi materiali relativi alla prevenzione in vari comparti lavorativi (metalmeccanica, cantieristica navale, lavorazione del legno, calzature, ecc.) e una raccolta dettagliata di informazioni sui Dispositivi di Protezione Individuale nel documento “ImpresaSicura_DPI”.

Il documento sottolinea che i guanti di protezione contro rischi meccanici hanno la funzione di proteggere le mani da aggressioni fisiche e meccaniche, per cui costruttivamente devono resistere all’abrasione, al taglio, allo strappo e alla foratura. E deve essere riportata sui guanti una marcatura che evidenzia la loro capacità di proteggere dai rischi meccanici.
In particolare le caratteristiche tecniche che questo dispositivo di protezione deve avere sono riportate nella norma tecnica UNI EN 388 “Guanti di protezione contro rischi meccanici”.

I guanti di protezione devono essere realizzati con materiali che non provocano problemi di irritazione o allergie e qualora ciò non fosse possibile tale rischio deve essere evidenziato nelle istruzioni d’uso. E le caratteristiche di resistenza meccanica devono essere indicate nella marcatura ed espresse con un indice numerico.

Il documento si sofferma ampiamente sui guanti e proteggi-braccia di maglia metallica o plastica contro i tagli e le ferite causate da coltelli a mano (norma di riferimento: UNI EN 1082-1).
Sono DPI in maglia metallica o in plastica utilizzati in tutte quelle attività in cui il coltello viene avvicinato alla mano e all’avambraccio dell’utilizzatore (ad esempio: nei mattatoi e nelle industrie per la lavorazione della carne compreso il disossamento, così come del pesce e dei molluschi, nella ristorazione industriale). Questa tipologia può offrire inoltre protezione a coloro che lavorano con coltelli a mano in altri ambiti lavorativi (ad esempio nell’industria della plastica, della pelle, del tessile e della carta, nonché nella posa di pavimentazioni e in attività simili).

Si segnala che tali dispositivi forniscono una protezione solo a una porzione limitata del corpo; la scelta quindi del grado di protezione necessaria per un particolare lavoro deve essere effettuata attentamente tenendo presenti i tipi di rischi e le probabilità che ciascuno di esso si verifichi:
-         nei casi in cui il rischio di taglio sia limitato alle mani dovrà essere usato un guanto di protezione che dovrebbe estendersi almeno fino al polso. Tuttavia se sussiste il rischio di tagli alla superficie palmare del polso, dovrebbe essere usato un guanto con polsino. Si tenga presente che i tagli nella zona del polso possono provocare ferite particolarmente invalidanti per il rischio di lesioni ai nervi. Nell’industria del taglio delle carni si consiglia pertanto almeno una protezione per la mano e per il polso che risale per 75 mm prossimale al polso;
-         la protezione per l’intero avambraccio è indicata nei casi in cui si possa prevedere il rischio di ferite in questa regione;
-         è importante che non vi siano punti deboli nella copertura di protezione. Essi possono presentarsi alla giunzione fra il guanto e il polsino, fra il guanto e il proteggi-braccio, e nelle zone in cui il materiale di protezione si sovrappone.

Una scelta corretta e un’adeguata attenzione nell’adattare e indossare la copertura può ridurre al minimo i problemi, infatti:
-         guanti piccoli possono causare danni alle mani;
-         proteggi braccia piccoli possono limitare i movimenti;
-         dispositivi troppo larghi costituiscono un rischio.
Si ricorda, infine, che un guanto a maglia metallica non è elastico, quindi solitamente gli utilizzatori scelgono guanti con misura sufficientemente grande da evitare che diventino troppo stretti durante l’uso.

Nell’articolo abbiamo presentato le schede numero 4375, 1168 e 1343 del sito web di INFOR.MO.:

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