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dossier Colombia

 riceviamo dal Giga e Pubblichiamo questo dossier composto di articoli de Il Manifesto

Nella Terra liberata dei comuneros

COLOMBIA. Il clima di attesa per la sfida presidenziale di Petro non scalda più di tanto le comunità di contadini Nasa del Cauca. Che tra narcos, esercito e guerriglia hanno dovuto imparare da soli a difendersi e a riconvertire ecologicamente i terreni strappati al business degli agrocombustibili. Parla l'ex sindaco "comunerò" Abel Coicué: «Oggi la riconversione in terreni agricoli per la comunità dei cañaverales raccoglie l’eredità della resistenza dei popoli nativi alla colonizzazione»

Il Cauca è la culla della cultura del popolo originario Nasa in Colombia, una regione andina che è stata e continua a essere teatro di conflitti sanguinosi: dalla resistenza contro gli spagnoli guidata dall’eroina indigena Gaitana fino agli scontri a fuoco tra le cellule dissidenti delle Farc-Ep e le forze armate.

Nel comune di Caloto, nella zona settentrionale del Cauca, vive oggi Abel Coicué, un comunero Nasa ed ex sindaco del resguardo di Huellas, territorio parzialmente autonomo gestito da comunità indigene. La sua casa autocostruita è circondata da banani, piante di caffè, yuca, aromi, un prato in cui pascola una mucca, del pollame, diversi cani e uccelli che cantano facendo da tappeto sonoro alla sua voce.

UNA VOLTA TUTTO QUESTO era coperto da campi di canna da zucchero, racconta Abel, le coltivazioni intensiva dei proprietari terrieri che hanno dominato storicamente nella regione sfruttando la mano d’opera indigena e afrocolombiana e distruggendo l’ecosistema tropicale. Abel ha contribuito alla nascita del “Tessuto di comunicazione” locale: «Facevamo un lavoro per sensibilizzare le persone attraverso la radio, il web, i video e la stampa. Questo ci ha creato diversi problemi con lo Stato e i gruppi armati, perché stavamo dando visibilità a quello che succedeva sul territorio. Abbiamo avuto problemi con la nostra stessa organizzazione perché quando ci sono stati leader che commettevano errori li rendevamo pubblici attraverso i nostri canali».

L’attivismo radiofonico di Abel viene dall’ACIN, l’Asociación de Cabildos Indígenas del Norte del Cauca che a sua volta fa riferimento al CRIC, il Consiglio Regionale Indigeno del Cauca, fondato nel 1971 sullo slogan «Unità, Terra, Cultura e Autonomia», un’esperienza pioniera del movimento indigeno dell’America Latina e un esempio di autorganizzazione dal basso che interessa 84 resguardos appartenenti a 8 popolazioni originarie.

ABEL HA DOVUTO ABBANDONARE la sua terra e la sua famiglia per diversi mesi e andare in esilio in Spagna quando la sua incolumità è stata messa in pericolo dalle minacce dei gruppi armati che si affrontano nelle vicinanze. Ora che è tornato a casa avrebbe diritto al servizio di protezione offerto dalle istituzioni, ma ai costosissimi mezzi blindati delle autorità preferisce la compagnia di un giovane ragazzo della comunità che lo segue in moto, disarmato, quando si sposta tra i resguardos della regione.

Lungo le curve e i versanti scoscesi della cordigliera centrale che attraversa Caloto si leggono le sigle della cellula dissidente delle Farc-Ep “Dagoberto Ramos” sugli edifici e a poche centinaia di metri di distanza ci sono dipinte le bandiere rossoverdi della Guardia Indigena del CRIC.

LA «GUARDIA» è un’organizzazione di autodifesa delle comunità indigene aderenti al CRIC. Chi fa il turno di guardia non ha armi da fuoco ma impugna il bastone tradizionale che gli conferisce autorità e legittimità. Il loro compito è chiamare a raccolta la comunità in caso di pericolo per evitare l’entrata di gruppi paramilitari e narcotrafficanti. Le cellule guerrigliere dissidenti, che in questa zona si dedicano al traffico di stupefacenti e al controllo territoriale, si sono rese più volte artefici di attacchi e omicidi ai danni della Guardia.

Superando gli appostamenti delle Farc si trova la scuola rurale “El Credo”. Qui bambini e bambine imparano a fare i calcoli mentre si prendono cura della terra e degli animali, gli si insegna a suonare uno strumento musicale e a preparare il mangime per la fattoria. Durante i periodi di conflitto più intenso, l’edificio si trasforma in un rifugio per tutta la comunità, che si chiude nella scuola per giorni, settimane o anche mesi, mentre fuori si spara. All’entrata della scuola c’è un murale in cui è raffigurato lo spirito comunitario che guida le attività didattiche.

TRA LE NUBI DIPINTE DI AZZURRO si intravede il ritratto di una bambina, Maryi Vanessa, la figlia di Abel, uccisa da un ordigno esplosivo durante uno scontro tra guerriglieri ed esercito.

Alle spalle di Abel il sole tramonta e cala la notte sulle montagne circostanti. Le luci che si accendono fanno pensare ai lumi di un piccolo borgo, invece sono le coltivazioni di Toribio, anche conosciuta come la Ciudad Perdida, dove il business della marijuana è diventato endemico, si organizzano visite guidate nei campi e le piante vengono stimolate anche di notte con luci artificiali visibili da tutta la vallata. Gli affari fioriscono sotto gli occhi vigili della base dell’esercito che sorge a pochi chilometri. Le coltivazioni illegali di marijuana e coca foraggiano ormai da anni i diversi soggetti che si fronteggiano sul territorio. E si sono diffuse anche nei resguardos. Secondo Abel «il narcotraffico è stato uno dei problemi più difficili che abbiamo dovuto affrontare come organizzazione indigena». Le coltivazioni illegali sono una fonte di ingresso per le famiglie, al stesso tempo si sta «rompendo il tessuto sociale, oggi la gente ha più soldi e diventa individualista, incomincia a pensare a se stessa e non più come collettivo. Non partecipa alle riunioni e non va alle assemblee».

Inoltre, le infiltrazioni dei narcos nelle comunità indigene rafforzano i gruppi criminali e le forze militari e di polizia che controllano la zona.

I GIOVANI PREFERISCONO I SOLDI facili offerti dagli imprenditori delle sostanze e per questo molti di loro smettono di studiare o lavorare per dedicarsi al business illegale. «Quando la dirigenza della nostra organizzazione decide di intervenire in modo deciso contro questo problema allora entra in gioco la guerriglia che ci minaccia e ci assassina – commenta Abel -, però noi rimaniamo qui e questa situazione ci deve servire per capire quale strategia usare, cosa fare».

Tra le pratiche messe in campo dalle comunità di Caloto c’è la cosiddetta «Liberazione della Madre Terra», ovvero la riconversione di ettari di cañaverales, i canneti delle imprese che producono agrocombustibili, in terreni adatti all’agricoltura e all’allevamento. I membri della comunità si spostano in moto con i machete, le zappe, i pali di legno e il filo per delimitare il terreno liberato. Si procede in perfetta sincronia con il lavoro collettivo che nella tradizione indigena dell’area andina viene chiamato la «Minga». Secondo Abel, la liberazione della madre terra raccoglie l’eredità della resistenza dei popoli nativi alla colonizzazione e la lunga storia del recupero dei terreni che durante il Novecento ha visto protagoniste le comunità indigene.


LA GIORNATA DI LAVORO collettivo si conclude con un’assemblea e una cena comunitaria in un altro territorio liberato dove ora sorgono alberi da frutto e un piccolo lago. Nelle terre liberate è proibito coltivare coca o marijuana, quello che si semina è per il fabbisogno della comunità e non per la compravendita di merci sul mercato. Durante l’assemblea comunitaria si presenta un candidato alle elezioni politiche per fare campagna elettorale. È un membro della comunità afrocolombiana, che rappresenta circa un quinto della popolazione del Cauca. I contadini di Caloto non hanno molta fiducia nei processi elettorali. Nonostante si respiri un clima di grande speranza nel popolo colombiano, con la possibile vittoria del leader progressista Gustavo Petro, Abel intravede un rischio per le organizzazioni comunitarie: «Ci offrono molti progetti assistenzialisti che di sicuro sono utili per la nostra gente, però ci condizionano politicamente. Il governo dice: se uscite a protestare vi togliamo i sussidi».

LA COOPTAZIONE DEI LEADER comunitari ha fatto sí che «oggi l’interesse per la difesa della vita si stia perdendo, prima quando uccidevano un comunero scendeva in strada un’enorme quantità di persone per prendere i responsabili. Oggi, quando ammazzano un leader, al massimo blocchiamo una strada o facciamo qualcosa di simbolico, ma questo non ha senso perché sappiamo già chi sono gli assassini. La nostra dirigenza non si sta sforzando abbastanza e si muove solo sul piano diplomatico».

Secondo Abel le organizzazioni indigene del Cauca, famose in tutto il paese per riuscire a mobilitare migliaia di persone e mettere sotto scacco i governi di turno, non stanno analizzando questo processo di cattura da parte delle istituzioni, strategia potenzialmente vincente per rompere l’autonomia delle comunità e assimilare l’identità Nasa dentro le dinamiche delle istituzioni corrotte dello Stato.

CONTRO IL TENTATIVO di controllo da parte del governo, gli attacchi dei vari gruppi armati e l’invasione delle multinazionali, che vogliono estrarre minerali e sfruttare le fonti d’acqua, le comunità contadine del Cauca vogliono ripartire dalla Madre Terra, liberarla dalla produzione intensiva «per far tornare la vita, gli animali, gli alberi e ricreare un ecosistema in cui può viverci qualsiasi essere vivente».


Petro o Hernandez, in Colombia la posta in gioco è altissima. Come la violenza

UNO STORICO BALLOTTAGGIO, PER LA PRIMA VOLTA UN CANDIDATO PROGRESSISTA A UN PASSO DALLA PRESIDENZA. Al voto senza neanche il dibattito tra i due sfidanti "imposto" dai giudici. Il candidato di Pacto Historico leggermente avanti secondo i sondaggi, ma con il rischio brogli si annunciano già mobilitazioni e repressioni. Capitale blindata, Dunque minaccia di impiegare l'esercito

A poche ore dal voto, l’esito del ballottaggio per la presidenza in Colombia è tutt’altro che scontato. Gli ultimi sondaggi indicano un leggero vantaggio di Gustavo Petro, leader della coalizione progressista Pacto Histórico, nei confronti dello sfidante Rodolfo Hernandez, populista di estrema destra, con una presenza significativa del voto in bianco e dell’intenzione di annullare la scheda. I giovani e l’elettorato femminile costituiranno il vero ago della bilancia, infatti solo il 20% della popolazione tra i 18 e i 28 anni è andata alle urne al primo turno.

Nel primo turno, il 29 maggio, Hernandez ha superato il candidato della destra tradizionale con un’efficace campagna condotta soprattutto sui social network, cavalcando l’onda dell’antipolitica e schivando i dibattiti televisivi.

MERCOLEDÌ SCORSO una sentenza del Tribunale di Bogotà ha però obbligato i due sfidanti a tenere un dibattito presidenziale, come diritto e dovere di far conoscere pubblicamente i programmi di governo. Hernandez ha prima cercato di imporre le proprie condizioni, poi ha ritirato la partecipazione, manipolando le indicazioni della sentenza. Petro lo ha accusato di non rispettare il potere giudiziario e l’ordine democratico. In sospeso la possibilità di una condanna per non aver rispettato la sentenza.


Come per il primo turno, sul Paese è calata una calma densa di attesa, tra nervi e speranze. Le strade del centro di Bogotà iniziano ad essere presidiate da esercito e polizia, le banche e i palazzi governativi vengono blindati e protetti per evitare saccheggi e danni, come avviene generalmente quando sono previste manifestazioni di piazza. All’entrata dell’Universidad Nacional, uno striscione esposto dagli studenti invita a mobilitarsi in caso di brogli, lasciando intravedere una chiamata alla protesta in caso di esito contestato. Il Consolato degli Stati uniti ha già lanciato l’allarme ordine pubblico dopo il voto.

NEGLI ULTIMI GIORNI è riemerso nuovamente lo spauracchio di una strategia per aggirare i risultati delle elezioni. La maggior preoccupazione risiede nel software che realizza il computo elettronico delle schede, che non garantirebbe sufficiente trasparenza. Alirio Uribe, noto avvocato e difensore dei diritti umani, ha fatto appello alla comunità internazionale affinché gli organismi indipendenti garantiscano il regolare svolgimento delle elezioni e vigilino sul conteggio dei voti. Sul tema si è espresso anche il presidente uscente, Ivan Duque, che ha invitato i rappresentanti del Pacto Histórico ad accettare il risultato del voto, minacciando il dispiegamento dell’esercito e della polizia nelle prossime ore.

NEL FRATTEMPO A CALI, Medellin, Bogotà e Bucaramanga sono stati arrestati almeno 22 giovani della primera linea, l’ala radicale e giovanile della rivolta esplosa nell’aprile 2021. I fermi sono dovuti a presunti piani di sabotaggio post-elettorale. Ma è pratica arbitraria della polizia inscenare montature senza prove tangibili, per alimentare la tensione nell’opinione pubblica.

Se nelle principali città l’attesa del voto viene vissuta in un clima di forte tensione, nelle zone rurali la violenza perdura. Giovedì una motobomba è esplosa presso la stazione di polizia del municipio di Suarez, nel dipartimento del Cauca, 500 km a sudovest di Bogotà, una zona dominata da formazioni narcos paramilitari, cartelli messicani della droga e dissidenze armate delle Farc.

PER LA PRIMA VOLTA nella storia recente colombiana un candidato progressista arriva a un passo dalla presidenza, ma i due scenari politici che si aprono dopo il voto di domenica sono radicalmente opposti, la posta in gioco è altissima e coinvolge, oltre ai candidati, la promessa di abbattere la violenza che domina la politica e la società nel Paese.


Francia Márquez: la voce di «los nadies» sfida gli oppressori

COLOMBIA AL BIVIO. L’attivista afrocolombiana candidata alla vicepresidenza con Pacto Historico, oggi al ballottaggio contro l’estrema destra

C’era tanta gente, nella Plaza de los Periodistas a Bogotá, ad ascoltare il discorso di Francia Márquez, la leader afrocolombiana, femminista e ambientalista candidata per il Pacto Histórico alla vicepresidenza del paese. Era il 21 maggio, la “giornata della afro-colombianità”, e l’avvocata 40enne aveva voluto celebrarla con una festa del “vivir sabroso”, uno degli slogan principali della sua campagna elettorale: un concetto, non molto dissimile dal buen vivir indigeno, relativo a un modello di organizzazione sociale, economica, culturale e spirituale centrato sull’armonia tra gli esseri umani e con la natura. Non certo un invito a godersi la vita, come qualcuno ha avuto interesse a sostenere, ma un’affermazione di vita con dignità, con garanzia di diritti, senza paura.
Quel discorso, però, Márquez aveva dovuto terminarlo coperta dagli scudi anti-proiettile, alzati dalla polizia quando, da un edificio antistante, un laser verde era stato puntato sulla sua testa, ancora più inquietante a fronte delle minacce di morte e degli attentati di cui era stata già vittima. Si sarebbe saputo poi che l’autore del gesto era uno studente di 18 anni, presentatosi spontaneamente alla polizia con il suo avvocato per autodenunciarsi e chiedere scusa. Ma quella della candidata alla vicepresidenza costretta a parlare dietro gli scudi della polizia era intanto diventata l’immagine più iconica del processo elettorale, il simbolo del bivio di fronte a cui si trova la popolazione colombiana: la scelta, al ballottaggio di oggi in Colombia, tra gli oppressori di sempre e “los nadies y las nadies”, quei “nessuno” che, nelle parole di Eduardo Galeano, «costano meno del proiettile che li uccide», vittime nei secoli di disuguaglianze di etnia, di genere e di classe.

«Afrocolombiani e indigeni, che rappresentano rispettivamente circa il 10% e il 4,5% della popolazione, presentano i più alti indici di analfabetismo e di povertà e risultano praticamente assenti dalla scena politica. Le loro condizioni di vita sono espressione della profonda discriminazione strutturale che esiste nel paese», ci spiega Alberto Yepes, coordinatore dell’Observatorio de Derechos Humanos y Derecho Humanitario.

È A LORO e a tutti quelli che sono stati ignorati ed esclusi dalla vita politica e sociale che ha dato visibilità Francia Márquez, lei che la povertà l’ha conosciuta da vicino. Nata nel Cauca in un villaggio abitato da discendenti degli schiavi africani, aveva cominciato a lavorare a 12 anni, a 16 era rimasta incinta, senza neppure rendersene conto, e a 20 anni aveva partorito il secondo figlio. Aveva dovuto così lavorare come domestica – «Mi sentivo come una schiava», ha raccontato – per dar da mangiare ai suoi due bambini, che ha cresciuto sola, senza i rispettivi padri. Oggi Carlos Adrián studia medicina a Cuba, mentre Kevin studia a Houston. Si sa che ha un compagno, ma sulla sua vita privata non trapela mai nulla.
L’impegno in difesa del suo territorio era iniziato quando aveva 15 anni e non si è mai interrotto. Nel 2014, per protestare contro l’estrazione mineraria illegale nello stato, avrebbe organizzato insieme ad altre 80 donne una marcia di più di 500 km verso Bogotá passata alla storia come «Marcia dei turbanti», dai copricapi tradizionali africani indossati dalle donne. Quattro anni più tardi sarebbe arrivato il Premio Golden, il Nobel per l’ambiente.
A capo del movimento «Soy porque somos», un concetto ispirato alla filosofia africana Ubuntu che riconosce l’interconnessione tra tutti gli esseri, è stata la grande rivelazione delle primarie del 14 marzo, quando, all’interno del Pacto Histórico, è giunta seconda dietro a Gustavo Petro con più di 783mila voti e la terza più votata in assoluto. Un successo che ha indotto Petro a sceglierla come vice e, in caso di vittoria, a creare per lei un ministero dell’uguaglianza.
Le hanno rimproverato di non avere esperienza politica. Ha risposto: «Certo che ce l’ho. La mia esperienza è la difesa dei territori, la protezione dell’ambiente e la lotta per poter vivere in pace». Le hanno anche rimproverato di maltrattare lo spagnolo, a causa del suo utilizzo di un linguaggio rigorosamente inclusivo. E lei ha reagito spiegando che non esiste «una sola forma di definizione» e che non comprenderlo significa «non riconoscere che siamo un mondo di colori». Le parole, peraltro, lei che studia anche scrittura creativa, le usa in maniera precisa: non dice poveri, ma impoveriti, non schiavi, ma schiavizzati.

SONO TANTE LE SPERANZE che “los nadies” ripongono in lei. Ma la sfiducia nello stato è tale che c’è pure chi non si fa illusioni. «In uno stato che sottomette, violenta, massacra e deruba, soprattutto neri e indigeni, una donna nera come vicepresidente rischia semplicemente di legittimare questo ordine di terrore capitalista, limitandosi ad amministrare il saccheggio di risorse della madre terra e a garantire appena quel tanto che lo stato è disposto a concedere a noi donne nere, indigene e contadine», ci dice l’indigena nasa-misak Vilma Almendra. E, aggiunge, se c’è chi pensa che almeno per quattro anni i movimenti popolari avrebbero la possibilità di respirare e accumulare forze, gli esempi di altri paesi mostrano quanto in realtà sia più difficile lottare contro i propri compagni arrivati al potere che contro la destra fascista».

PIÙ OTTIMISTA si mostra invece Clara Mazo López della Ruta pacífica de las mujeres, convinta che, «come leader sociale impegnata nella difesa dei territori e delle persone spogliate dei loro diritti, Francia darebbe un nuovo significato politico alla sua carica, lavorando per la pace e la giustizia sociale, “hasta que se haga costumbre la dignidad”, come recita uno degli slogan della sua campagna».


Haiti, 120 anni di schiavitù

L’INCHIESTA DEL NY TIMES. Vertice delle Americhe: 20 paesi attaccano gli Usa, 2 li difendono, 6 tacciono. Tra questi c’è il paese caraibico, una storia di colonialismo per debito ancora in corso


Il giudizio finale sul Vertice delle Americhe conclusosi a Los Angeles il 10 luglio lo ha dato il ministro degli esteri messicano Marcelo Ebrard: «Venti paesi partecipanti hanno protestato – contro la politica unilaterale del presidente Joe Biden di escludere Cuba, Venezuela e Nicaragua – due hanno difeso gli Usa, 6 non hanno detto nulla».

TRA I SEI PAESI silenti vi è Haiti. Pochi giorni prima del vertice – e dopo un anno di inchieste e consultazione di documenti «in tre continenti» – il New York Times ha spiegato le ragioni di tale sottomissione.

Haiti è stata la prima nazione del mondo moderno nata da una rivolta degli schiavi: nel 1804 i neri haitiani sconfissero i colonialisti francesi e l’armata di Napoleone e dichiararono l’indipendenza. Si trattava delle seconda repubblica più antica, dopo gli Usa, dell’emisfero occidentale. Una “colpa” di cui ancora Haiti paga le conseguenze.

NEL 1825 re Carlo X di Francia inviò le cannoniere per imporre al popolo che aveva schiavizzato di pagare i danni della guerra che gli schiavisti avevano perso: 120 milioni di franchi in oro, da versare in cinque rate. Molto di più di quanto Haiti potesse permettersi. Per questo Parigi impose che il governo haitiano chiedesse prestiti a una serie di banche francesi. Ne seguì quello che il Ny Times definisce il doppio debito, nei confronti dello Stato e delle banche francesi. Il totale finito di pagare da Haiti dopo ben 122 anni, secondo il quotidiano americano, fu di 560 milioni di dollari attuali. Ma i danni di tale doppio debito, che comportò l’impossibilità di finanziare programmi di sviluppo, calcolati assieme a economisti francesi, furono «tra i 21 e 115 miliardi di dollari». «Otto volte il volume dell’intera economia del paese nel 2020». Haiti divenne quello che è ancora due secoli dopo l’indipendenza: uno stato in fallimento.

MA IL SACCHEGGIO francese fu possibile solo con l’appoggio militante degli Stati uniti, la nascente potenza delle Americhe. L’indipendenza di Haiti metteva in pericolo l’economia schiavista degli Stati del sud degli Usa. I documenti declassificati consultati dal Ny Times dimostrano che nel 1826 il senatore Robert Hayne della Carolina del Sud tuonava nel Congresso: «La nostra politica con rispetto a Haiti è chiara, mai potremo riconoscere la sua indipendenza». Mano libera alla Francia per attuare quello che l’economista francese Thomas Piketty definisce «neocolonialismo per debito».
Ma nel 1914, quando gli Usa già sono una potenza mondiale, decidono che di prendere loro il controllo di Haiti, per «evitare il caos finanziario e politico». «Wall Street chiama i marines rispondono», scrive Ny Times.

LE TRUPPE AMERICANE sbarcano a Port-au-Prince. A fucili spianati, ritirano i fondi della Banca nazionale di Haiti e ne abbattono il presidente, imponendo «governanti marionette per i seguenti 19 anni». Una foto pubblicata dal Ny Times mostra i marines che trasportano lingotti d’oro (valore «500.000 dollari») dalla Banca centrale a un’imbarcazione nordamericana. Tre giorni dopo i lingotti sono già in un caveau di Wall Street.

Il segretario di Stato di allora, Robert Lansing, definisce l’occupazione come «una missione civilizzatrice» perché «la razza africana manca di ogni capacità di organizzazione politica». Il banchiere Roger Farnham si incarica di modificare il sistema finanziario haitiano, «assicurando esenzioni fiscali alle imprese statunitensi e garantendo il pagamento dei debiti esterni a Wall Street». I lavoratori haitiani diventano moderni schiavi. Un quarto di tutti i redditi di Haiti furono destinati per più di dieci anni a pagare alla National City Bank i debiti «dell’aiuto dato dal governo degli Usa».

«HO AIUTATO A FAR SÌ che Cuba e Haiti fossero un luogo tale che i ragazzi della National City Bank (oggi Citibank) raccogliessere buoni guadagni», scrive nel 1935 il generale Smedley Butler, leader della forza militare statunitense che occupava Haiti. Grazie al controllo del debito di Haiti i banchieri della City «ottennero i più alti margini di guadagno» (Commissione finanze del Senato Usa, 1932).

SCRIVE IL NYTIMES: Nel 2003 l’allora presidente Jean-Bertrand Aristide sorprese gli haitiani nel denunciare il debito imposto dalla Francia che esigeva le riparazioni di guerra (…). Parigi rapidamente tentò di discreditarlo (…). Nel 2004 Aristide fu messo a forza in un aereo in una espulsione (ovvero un golpe) organizzata dagli Stati uniti e dalla Francia (…) per stabilizzare la situazione a Haiti».

A seguito dell’inchiesta del Ny Times, la banca francese Crédit Mutuel, erede del Credit Industriel Commercial accusato di aver depredato le finanze haitiane, ha aperto un’indagaine per verificare l’esattezza dei dati pubblicati dal quotidiano nordamericano.

CITIBANK, NEMMENO ci pensa. E nemmeno l’amministrazione Biden molla la presa su Haiti. A Los Angeles il premier (mai eletto) Ariel Henry, che governa dal luglio 2021 quando il presidente eletto Jovenel Moïse fu assassinato da paramilitari colombiani contrattati dalla Counter Terrorist Unit Federal Academy con base a Miami, informava, assieme all’ambasciatrice statunitense all’Onu, Linda Thomas-Greenfield, che ad Haiti non vi saranno elezioni fino a che «le condizioni non lo permettano». Nessun dubbio su chi deciderà quando.


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