Gramsci e gli intellettuali di ieri e di oggi


www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - scienza - 05-06-22 - n. 832

Gramsci e gli intellettuali di ieri e di oggi


Tiziano Tussi


In periodo di gravi crisi internazionali e nazionali, come questo che stiamo attraversando, è utile anche riandare ad  un testo sugli intellettuali scritto da Antonio Gramsci più di novant'anni fa (novembre1930) per valutare la distanza dalla configurazione della classe acculturata di allora, dall'interpretazione che si poteva dare su di essa, dalla sua composizione e dal suo ruolo, come anche della libertà di movimento degli stessi in seno della società nella quale vivevano rispetto ai tempi odierni. Il momento politico attuale, con la guerra in Ucraina con i suoi risvolti che si rovesciano sulla dialettica nazionale, per interpretazioni della stessa guerra e in ordine politico, con quello che possiamo definire genericamente ambito sociale nel quale è possibile praticare la critica allo stato delle cose presenti.

Se pensiamo agli scritti di Gramsci, in prigione in quegli anni del secolo scorso, ci accorgiamo che anche allora, inevitabilmente, problemi sociali e politici di una certa ampiezza e profondità venivano continuamente ad essere oggetto di interpretazioni degli intellettuali. Ma il diverso livello di intervento pubblico rendeva il ruolo degli stessi meno fruibile da parte di ampie masse di uomini. Queste limitazioni di uso producevano forse più profondità di analisi, non esistendo l'affanno e l'isteria dell'intervento continuo ed immediato a tutti i costi, ma nello stesso tempo una minore possibilità di incidere in tempi stretti. Una temporalità diluita poteva perciò portare a due risultati opposti. In sostanza maggior profondità unita ad una minor immediatezza dialettica, con il raggiungimento perciò di risultati che rimanevano nel profondo della società e nei rapporti politici che la guidavano.

Ora, con l'imperare della tecnologia, abnormemente cresciuta ed amplificata da quel periodo novecentesco, si riesce ad arrivare a numeri di umani sempre più grandi e nello stesso tempo ad apparire, a livello di strumenti di critica, spuntati temporalmente sempre più, con poca capacità di permanere e di incidere nel tempo lungo, profondo, restando la superficialità il solo, o quasi, livello di partecipazione possibile.

Insomma: incidere in modo etico sulle sorti delle società appare decisamente più difficile; cambiare le direzioni sociali o almeno modificarle decisamente si rivela meno probabile in questo secolo rispetto allo scorso secolo. In fondo, ora, ci si accontenta di partecipare allo spettacolo sociale, che pare incanalato verso lidi non augurabili, che si definiscono come fruizione fulminea, senza tracce permanenti.

In fondo la stratificazione storica si perde sempre più all'orizzonte e la contemporaneità, la subitaneità, l'istantaneo la fa da padrone. Infatti, non è inusuale raccogliere nulla nelle discussioni che vogliono rimanere sul piano storico. Queste lasciano sul terreno l'insofferenza di chi ascolta - o legge - quello che propone chi si ostina a rimanere su quel livello di profondità e vince, o almeno pare vinca sempre più, l'approccio rapido alla notizia, con analisi pronte al consumo, con teoria usa e getta, qualsiasi esse possano essere. Il momento, l'attimo, il secondo sono egemoni.

La riflessione temporale meditata, anche solo usando anni temporali e non decenni, men che meno secoli, appare perdente, assolutamente perdente, di fronte "all'attimo fuggente". Non pare importino molto i guasti che continuamente vengono procurati agli umani ora viventi da questa velocità. Importa solo ora, adesso, qui. Si è rivoltato il detto che Marx usa, per altra questione, ma che può essere allo stesso modo usato e messo di fronte a sproloqui di intellettuali straparlanti dell'ovvio: Hic Rodhus hic salta[1].

Vediamo alcuni punti trattati da Gramsci nel suo libro Gli intellettuali.

Innanzitutto, in apertura, Gramsci riconosce una funzione intellettuale ad ogni uomo anche se, con evidenza, non tutti gli uomini svolgono nelle società in cui vivono la funzione di intellettuale.[2]  Quindi il riconoscimento della funzione intellettuale degli  umani non viene messa in discussione, ognuno pensa e produce teoria, ma ovviamente, per svolgere la funzione intellettuale, di intellettuale sociale, non basta fare riferimento alla produzione di pensieri, non basta pensare, funzione sempre in atto in sé.

Si può naturalmente fare riferimento al Cogito cartesiano come disvelatore di esistenza umana, ma certamente il pensare non basta a definire un ruolo. Rimane una funzione insopprimibile ed universale. A livello basilare solo questo. Nel campo intellettuale si hanno anche stratificazioni militari, così ci dice Gramsci. I più alti in grado, così come nell'esercito, sviluppano capacità inventive che vengono riprese enfatizzate dagli strati più bassi, i quali si mostrano sicuramente i più accaniti tifosi delle invenzioni dei gradi superiori e li replicano, li riprendono in modo fanatico: "…traggono da esso una «boria» che spesso li espone ai frizzi e ai motteggi."[3]

Definite le modalità di intervento, Gramsci, lo ricordo ancora, in prigione a Turi, in Puglia, tratteggia le modalità di essere degli intellettuali nei Paesi europei ed extra europei cogliendo comportamenti ripetuti e permanenti, almeno nel lungo periodo, dalla classe acculturata a seconda della latitudine in cui vive.

In ogni luogo comunque tale classe deve oltrepassare il punto della capacità del parlare bene per raggiungere quella dell'indirizzare, guidare bene, con virtù: "…dalla tecnica-lavoro giunge alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane «specialista» e non si diventa «dirigente» (specialista + politico)."[4]

L'oratoria rimane uno degli strumenti da usare ma "il mescolarsi attivamente alla vita pratica"[5] lo completa. Per giungere quindi alla scienza, dall'attività usuale per ogni intellettuale - parole e buona presentazione delle stesse - occorre perciò un sano bagno di materialità sociale.

Un altro punto che possiamo sottolineare riguarda il rapporto tra spezzoni di classe - giovani e vecchi - e spostamenti dei giovani verso gli anziani di altra classe, pronta a dare loro, ed alle loro insoddisfazioni, risposte praticabili. Così Gramsci si immagina debba esser l'attrattiva che i vecchi della classe proletaria esercitano sui giovani borghesi. Una seduzione culturale che sa mettersi in linea con i nuovi arrivati.

E non può non venire alla mente ciò che Pasolini disse a proposito dello scontro poliziotti e manifestanti negli anni della contestazione. Qui si ritorna alla strumentazione gramsciana, però rivoltata. Pasolini disse che tra i manifestanti di Valle Giulia[6] ed i poliziotti lui stava con i poliziotti, perché veri proletari, mentre gli studenti manifestanti erano figli della borghesia. Certo se usassimo la lente interpretativa gramsciana potremmo vedere che non basta essere un corpo proletario, occorre anche fare scelte di campo. E proprio Gramsci definisce la seduzione dei vecchi proletari sui giovani borghesi a livello di risposte teoriche.

Non basta perciò avere fame e arruolarsi, per fame, nella polizia, per mantenere l'appartenenza di classe. Occorre anche che la fame induca in atti rivoluzionari, almeno in prospettiva. Difficile scorgere nella polizia tale possibilità di comportamento. Limiti e fraintendimenti ci sono anche tra i manifestanti studenteschi, ma almeno la scelta del campo politico allora era chiaro e Gramsci ricorda perciò, in altri tempi, l'attrattiva che anche sui giovani borghesi esercitava un forte impulso di tradire la propria classe, anche se, aggiunge poi Gramsci, nei momenti veramente di crisi, di punta, nei momenti topici, si può assistere ad un ritorno alla propria classe di origine. Insomma, è il tempo storico e sono le capacità di attrazione ideologica che guidano il ballo. Ma la scorciatoia presa da Pasolini pare non stia in piedi in nessun momento, sia esso di crisi o di bonaccia sociale. Il corpo deve essere guidato dal pensiero.

Un momento di passaggio, in questo altalena di dislocazione sociale, di classe e tra lo spirito ed il corpo lo ritroviamo in un significativo passaggio in cui si discute la funzione che Hegel assegna agli intellettuali ed al loro ruolo nello Stato, a difesa dello Stato: " Con Hegel si incomincia a non pensare più secondo le caste o gli «stati», ma secondo lo «Stato» la cui «aristocrazia» sono appunto gli intellettuali."[7] Qui spariscono le classi, i giovani ed i vecchi, e si propone un rapporto unico intellettuali-Stato.

Gramsci rimanda il tutto alla fondazione "dell'idealismo moderno"[8]. Un senso unico che in Italia, grazie alla coppia Croce-Gentile mette anche la scienza in un vicolo cieco, grazie anche alla religione che gioca sullo stesso tavolo di astrazione ideale: " Così gli scienziati «laici» hanno contro la religione e la filosofia più diffusa: non può non avvenire un loro imbozzolamento e una «denutrizione» dell'attività scientifica che non può svilupparsi isolata dal mondo della cultura generale."[9] Tale deprivazione di ricchezza del pensiero scientifico deve fare i conti con il tentativo di costruzione della potenza nazionale e di isterilimento religioso, con commenti gramsciani particolarmente precoci per ritardi e guasti che ancora oggi attanagliano l'Italia per le stesse ragioni.

Togliere investimenti alla scienza laica e libera sviluppa un impoverimento prospettico ed è da ritenere miracoloso ciò che gli scienziati italiani hanno fatto e fanno anche ora: "E tuttavia gli scienziati italiani sono valorosi e fanno, con pochi mezzi, sacrifici inauditi e ottengono risultati mirabili."[10] Un altro passaggio che è proprio adatto anche per l'oggi. Ve ne sono diversi nel pensiero di Gramsci ed è da definire se Gramsci fosse un pensatore eccezionale oppure se i ritardi italici siano anch'essi eccezionali? Le due cose assieme, naturalmente.

Per riassumere e passare ad altro punto: la libertà di pensiero ha a che fare con limiti strutturali e catene ideologiche ma anche con penuria di messi e miopia teorica. Basterebbero i due ultimi ostacoli da superare per fare dell'intellettuale un travet dello stato e/o della chiesa. Lo scienziato perderebbe perciò troppo tempo solo nel tentativo di porvi un rimedio funzionale. Necessario ma ostativo per la sua opera di creatore di idee di modernità.

Quando questo non basta e la voglia di svolgere la propria azione da libero intellettuale si fa impellente c'è sempre la possibilità di andare all'estero: "Questo punto storico è di massima importanza: gli altri paesi acquistano coscienza nazionale, la cosmopoli medioevale si sfalda, l'Italia come territorio perde la sua funzione di centro internazionale di cultura, non si nazionalizza per sé, ma i suoi intellettuali continuano la funzione cosmopolita, staccandosi dal suo territorio e sciamando all'estero."[11] Ed ecco presentato anche il fenomeno della "fuga dei cervelli".

Questi ed altri ritardi nella compagine degli intellettuali, a livello di strutturazione sociale, sono anche profetici e ci impongono un'attenzione verso il profondo che la velocità della parola non riesce a risolvere. Non basta perciò parlare bene per trasformare realmente le cose sociali, i problemi strutturali di una nazione. L'arte della retorica, così presente in epoca fascista, ed anche ora, si rivela inane. Nonostante quello che diceva Isocrate, sembra proprio che non basti dire "cose buone e sagge" per sostanziarle veramente: "Se dobbiamo dire in breve il potere che ha la parola, constateremo che nulla di ciò che è stato fatto con intelligenza è avvenuto senza il concorso della parola… [] Chi desidera persuadere non può fare a meno di avere cura della virtù. "[12]

Dopo di che si apre l'ampio campo dell'azione sociale, come appunto ricordava Gramsci.

Note:

[1] Karl Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Editori riuniti, 1974, Roma, p. 52.

[2] Antonio Gramsci, Gli intellettuali, Editori Riuniti, 1979, Roma, p. 7.

[3] Antonio Gramsci, cit., p. 10.

[4] Antonio Gramsci, cit., p. 22.

[5] Ibidem

[6] Siamo nel marzo 1968 e la poesia Il PCI ai giovani è del 16 giugno successivo.

[7] Antonio Gramsci, cit., p. 59.

[8] Ibidem.

[9] Ibidem.

[10] Antonio Gramsci, cit., p. 60.

[11] Antonio Gramsci, cit., p. 72.

[12] Isocrate, Lo scambio degli averi, (356 a. c.)

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