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La crisi climatico e ambientale impone di ripensare il sistema economico , produttivo ed energetico


L'accelerazione della crisi climatico-ambientale in atto impone il ripensamento del sistema economico, produttivo ed energetico dominante superando la logica della crescita infinita, della massimizzazione del profitto e delle politiche estrattiviste al servizio dell'interesse di poche multinazionali.

La siccità che sta mettendo in ginocchio le produzioni agricole anche nel nostro Paese ripropone in modo drammatico la revisione delle politiche di gestione dell'acqua, bisogno primario dell'uomo, riportandole in mano pubblica al fine di ridurre le perdite e uscire dalla logica della gestione privatistica che ha comportato in soli 20 anni un vero e proprio disastro con scarsi investimenti nelle reti di trasporto e distribuzione e un vertiginoso aumento delle tariffe, soprattutto delle quote fisse che colpiscono indistintamenti tutti gli utenti.

Il comitato popolare sangiulianese lancia una proposta di attivazione di un fronte ampio e trasversale al fine di chiedere il rispetto dei referendum del giugno 2011 sull'acqua pubblica, sia come esercizio effettivo della prassi democratica, sia come impellente necessità  ambientale e sociale.

Siamo disponibili, in una assemblea, ad elaborare proposte di mobilitazione comune per riattivare questo fondamentale fronte di lotta.

Invitiamo a diffondere a tutti i soggetti interessati.

Grazie

Il comitato popolare sangiulianese



«Quasi tutta l’Italia è zona rossa» ma il decreto emergenza ancora non c’è

Mauro Ravarino Il Manifesto

Il delta del Po è invaso dal mare, il cuneo salino è risalito fino a 30 chilometri. La situazione in Pianura padana si aggrava nonostante le piogge sparse, in particolare tra Lombardia e Piemonte. Ben accolte ma scarse dopo mesi senza precipitazioni. Il suolo resta assetato. In Veneto, il governatore Luca Zaia lancia l’allarme, «è drammatico», e insiste sullo stato di emergenza che tarda arrivare: «Ci aiuterebbe ad aiutare chi sta subendo danni».

I tecnici del governo ci stanno lavorando e la prossima settimana dovrebbe arrivare l’atteso decreto siccità, che era già previsto nei giorni scorsi. Con la Protezione civile stanno individuando una zona rossa che coinvolge Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Marche e Lazio. Ma l’area potrebbe estendersi, lo ha confermato il ministro alle Politiche Agricole Stefano Patuanelli in un’intervista a Fanpage: «Le aree cosiddette rosse, quelle in cui c’è una diminuzione dei livelli dei fiumi e dei laghi e dove la risorsa idrica sta mancando, si stanno allargando sempre di più e quindi quasi tutto il Paese nel corso delle prossime settimane ci aspettiamo che entri in zona rossa».

Il dpcm dovrebbe prevedere due interventi: uno relativo all’agricoltura attraverso indennizzi qualora «il danno provocato superi il 30% della produzione lorda vendibile» e un altro sulle misure di razionamento (divieto di uso per fini non domestici, chiusura dei rubinetti nelle ore notturne e delle fontane pubbliche), provvedimenti già presi da alcuni comuni. Per Patuanelli bisogna «lavorare con gli strumenti a disposizione sul doppio binario dello stato di emergenza e di quello di calamità per affrontare la contingenza e arrivare alla migliore gestione possibile della risorsa acqua».

E, in un’intervista al Sole 24 ore, aggiunge: «Scommettere con decisione sul sistema delle assicurazioni in agricoltura per arrivare, in un tempo di evidenti cambiamenti climatici, alla normalizzazione della gestione del rischio in agricoltura e, più avanti ancora, intervenire sulle infrastrutture irrigue prima con le risorse del Pnrr e poi con una nuova programmazione pluriennale».

Le associazioni ambientaliste invocano, però, un cambio di paradigma. Lo dice Greenpeace, attraverso le parole di Simona Savini, sottolineando la necessità di un nuovo modello agricolo: «Se vogliamo affrontare il problema siccità, ormai diventato un fenomeno strutturale e non più solo emergenziale, dobbiamo ottimizzare al meglio le risorse idriche, mettendo in discussione come e per quali scopi utilizziamo questo bene sempre più scarso, a partire dai consumi per l’agricoltura».

È il settore che più necessita di risorse idriche, l’Italia è il secondo Paese in Europa per ricorso all’irrigazione. «Sono a rischio soprattutto colture come mais e soia, la cui reperibilità sul mercato è già complicata a causa della guerra in Ucraina. Queste materie prime vengono quasi interamente indirizzate alla filiera zootecnica. C’è dunque bisogno di ripensare il sistema degli allevamenti intensivi che, oltre ad avere impatti importanti sul clima del Pianeta, consuma oltre un terzo di tutta l’acqua usata dal settore agricolo». Greenpeace contesta la proposta di Coldiretti «di seminare mais sui terreni cosiddetti a riposo», perché «si devono proteggere i terreni agricoli da ulteriori stress».

I numeri della crisi idrica sono pesanti. In Piemonte, in particolare nella zona orientale, le riserve sono al minimo: «Abbiamo un deficit del 70% su Novara e del 55% sul Verbano Cusio Ossola, che – spiega il direttore di Arpa Angelo Robotto – sono i territori più critici della regione. Il Lago Maggiore ha un livello di 3 metri più basso della norma e un tasso di riempimento del 18%, il che vuol dire che manca l’82% dell’acqua. E la pioggia delle scorse ore non ha cambiato niente: con quei quantitativi per reintegrare ciò che manca dovrebbe piovere per 100 giorni consecutivi».

Nel lato lombardo del Maggiore sono stati sospesi gli attracchi delle imbarcazioni. E, proprio ieri, Attilio Fontana, dopo un giovedì col freno tirato, ha dichiarato lo stato di emergenza regionale per limitare l’uso dell’acqua. Anche il comparto apicoltori lancia, infine, un allarme per l’aumento delle temperature: «Negli ultimi cinque anni, più del 50% della produzione di miele in Abruzzo è stata bruciata dal cambiamento climatico».


Siccità, la tragedia che ci costringe a ripensare il mondo

CLIMA. Nel decennio Onu di azione per l’acqua, gli ultimi 7 nel mondo sono stati disastrosi. Un fenomeno che provocando l’aridità dei suoli produce fragilità ecosistemica e instabilità sociale. Risparmiare, riutilizzare, recuperare: non c’è altro da fare per dare da bere al Pianeta

Un torrido pomeriggio di giugno sulle colline del basso Piemonte, dopo molti mesi di pioggia zero e un inverno senza neve. Un abitante ricorda le gite al lago montano di Ceresole che adesso è una pietraia. Conversando di siccità con un muratore nordafricano, gli chiede: «Ma almeno là da voi, piove?». La risposta è un «no» desolato.

IN PIENO DECENNIO ONU DI AZIONE per l’acqua, gli ultimi sette anni sono stati disastrosi a livello mondiale, informa l’ultimo State of the Global Climate dell’Organizzazione meteorologica mondiale (Omm). Il cambiamento climatico antropogenico rende più probabile e grave il fenomeno siccità, che poi è uno dei motori dell’aridità dei suoli, della fragilità ecosistemica, dell’instabilità sociale.

LE ACQUE DOLCI CE LA POTRANNO FARE, a salvarci, ma a certe condizioni. Abbattere le emissioni climalteranti. Protezione degli ecosistemi e cura dei bacini idrici. Ripristino dei suoli. Migliori sistemi colturali e un altro modello alimentare. Risparmio, riparazione, recupero delle acque negli usi civili. Raccolta dell’acqua piovana. Si impone un insieme di normative, tecnologie, scelte produttive e di consumo, comportamenti; per gli usi agricoli, industriali, energetici e civili.

AUTORE DEL SAGGIO «SETE» (1992), Giorgio Nebbia, ambientalista e scienziato delle merci fu chiaro: «Una tonnellata di acqua pro capite all’anno si può ritenere indispensabile per bere, lavarsi e cucinare. Oltre, inizia la discriminazione fra le classi». E fra i paesi. In Sahel il presidente Thomas Sankara lottava per garantire «dieci litri di acqua pulita per ogni persona ogni giorno»; in Italia la media nazionale è di oltre 200 litri – ma a seconda delle aree si va dalla penuria fino alle piscine private e ai praticelli anglofili.

E’ POSSIBILE UNA «CONTRAZIONE e convergenza» intorno al consumo diretto di 40-50 litri pro capite al giorno, diritto minimo fissato dall’Onu. E la siccità porta al revival delle sempiterne 3 R – risparmiare, riutilizzare, recuperare. La cura per l’acqua, compito di tutti, parte dall’eliminazione degli usi perversi e delle perdite, un enorme giacimento al quale attingere. Secondo il rapporto Le statistiche dell’Istat sull’acqua (2019-2021), si perde oltre il 36% dell’acqua immessa in rete per gli usi civili; il resto si perpetra a valle… anche con l’assenza delle bacinelle sotto ogni rubinetto, necessarie al sacro doppio uso).

MA IL CONSUMO DI ACQUA DOLCE si nasconde in ogni prodotto. Nel 1993 il geografo Tony Allan introduce il concetto di «acqua virtuale»: quella utilizzata – e inquinata – per produrre alimenti (la parte del leone nel consumo globale) e altri beni di consumo, energia compresa. Anni dopo, Hoekstra e Mekonnen sviluppano l’idea di «impronta idrica» (articolata in tre componenti: verde, blu, grigia a seconda dell’origine). E stimano in oltre 2.300 miliardi di metri cubi all’anno i flussi internazionali di acqua connessi agli scambi. Conteggiando l’acqua virtuale, il consumo pro capite degli italiani supera i 6.000 litri al dì.

LA RETE WATER FOOTPRINT NETWORK («per un uso equo e intelligente dell’acqua nel mondo») mette a disposizione diversi studi e un contatore – valori indicativi – per i prodotti. Esempi: un kg di carne bovina richiede fino a 15.000-20.000 litri di acqua, soprattutto per produrre i mangimi, un kg di carne di maiale 6.000, un kg di grano 1.000, un kg di zucchero 1.700, un kg di mele 822, un kg di formaggio 3.000, un kg di cioccolato 17.000. Tazzina di caffè? 130.

E’ UNA QUESTIONE DI MODELLI agroalimentari e scelte di consumo: il sindacato internazionale La Via Campesina è impegnato da tempo nell’agroecologia che, come l’agricoltura naturale, risparmia acqua e non la inquina. Insieme alla conversione e alle produzioni plant-based, la cui impronta idrica è molto inferiore, si impone il ritorno a colture che da sempre danno buona prova di sé in climi aridi: miglio, sorgo, cassava, legumi, arachidi… Parchi e nutrienti.

PER SALVARE ACQUA: RIUSARE I DUREVOLI, uscire dai monouso, risparmiare energia. Il Water Foorprint Network dà conto anche della pesantezza idrica nella produzione di energia, agrocarburanti compresi; ragione di più per risparmiarla – e il clima ringrazia. E i tessili? Per produrre un jeans di cotone occorrono circa 11.000 litri di acqua (irrigazione, evaporazione, diluizione delle acque reflue della lavorazione); una maglietta di pochi ettogrammi ne richiede 2.700. Una tonnellata di pelli conciate, poi, beve 800.000 litri di acqua (nell’intero ciclo). Ma ecco: nel mondo intero, un giacimento di abiti, tessuti, filati già prodotti aspetta di tornare a vivere nel riuso e riutilizzo; puro lavoro da pagare bene, senza la zavorra delle risorse fisiche. Anche il riciclo salva acqua, si pensi alla carta. Davanti al paradosso dell’acqua virtuale necessaria a produrre e trasportare le inutili bottiglie di plastica o vetro dell’acqua industriale, diventa evidente che dallo spreco idrico legato agli imballaggi e alle merci usa e getta si esce con una rivoluzione nel modello dei consumi. Non basta lo sviluppo di tecnologie non idrovore: abbandonare l’inessenziale forse sarà una scelta obbligata per rispettare anche l’acqua invisibile.

INDICATORI E VITTIME INVISIBILI della crisi, i selvatici e la biodiversità soffrono sia come singoli esseri, animali e vegetali, che come specie. Si pensi agli organismi legati alle acque interne. Spiega Andrea Agapito, biologo e responsabile Rete e Oasi del Wwf Italia: «Il prosciugamento di molte piccole e grandi zone umide, tra marzo e maggio, ha impedito o ridotto drasticamente la riproduzione di diverse specie di anfibi, alcune delle quali in uno stato di conservazione già critico come il Pelobate fosco insubrico, la Rana di lataste o il Tritone crestato italiano». Ancor peggio per chi vive sott’acqua: «Non li vediamo, ma scompaiono. Il trend di estinzione delle specie di acqua dolce è quattro volte superiore a quello delle specie terrestri o marine; ogni decennio se ne va un buon 4%. Ci sono state morie di pesci in tratti fluviali e zone umide rimaste completamente a secco. Resistono meglio certe specie alloctone, a scapito delle autoctone come le cozze d’acqua dolce che si stanno rarefacendo sempre più a causa del degrado ambientale e della loro condizione di «filtratori».

PER DISSETARE I SELVATICI, qualche piccolo aiuto è alla portata di tutti, magari sotto forma di contenitori d’acqua all’ombra, piazzati con zavorra nei pressi di aree verdi. Per i volatili, Marco Dinetti, responsabile ecologia urbana della Lipu, suggerisce: «Mettere a disposizione un po’ d’acqua nei periodi siccitosi serve agli uccelli non solo per bere, ma anche per tenere in ordine il piumaggio in ogni stagione. La cosa più semplice è prendere un sottovaso e tenerci due dita di acqua con un paio di sassi»; tutto fuori portata di gatti, e cambiare l’acqua per non aiutare le zanzare. Alle rondini, poi, servirebbe un po’ di fango per costruire il nido…Il Wwf lavora al progetto One million ponds (un milione di stagni): zone umide per riportare biodiversità ma che fungono anche da abbeveratoi.

IN KENYA QUALCHE ANNO FA NELLA MORSA della siccità l’attivista Patrick Kilonzo iniziò a portare acqua nel vicino parco di Tsavo, dove le pozze di approvvigionamento si erano seccate; continua tuttora, anche con progetti per migliorare la coesistenza fra fauna locale e comunità umane.

CERTO IN AFRICA, OCCUPARSI DI SELVATICI e biodiversità può sembrare un lusso. In uno scenario complesso e tormentato, spiega Isabella Pratesi che dirige il programma conservazione del Wwf, «con lo stress idrico, oltre alla sete e alla concorrenza per l’acqua fra animali domestici e selvatici, aumenta il bracconaggio a scopo di sopravvivenza umana, si acuiscono i conflitti». Ma al tempo stesso, «dove si recuperano gli ecosistemi e si conserva la biodiversità, si mantengono risorse idriche anche per le comunità umane».

OCCORRE UN APPROCCIO DI CURA: «Stiamo rinaturalizzando in tante aree: Tanzania, Kenya, bacino del Congo, Indonesia, India… La natura aiuta, perché vive di acqua e dunque fa di tutto per trattenerla. Gli ecosistemi forestali fanno un effetto spugna. Natura e persone si riappacificano. Ma occorre agire per tempo, con pazienza».

RIVITALIZZARE LE TECNICHE TRADIZIONALI di raccolta dell’acqua è un’altra paziente saggezza di cui danno prova comunità in tante zone aride. Per esempio, l’indiano Anil Agarwal auspicava «un agglomerato di democrazie ecologiche raccoglitrici di acqua piovana». A queste tecniche in ambito rurale e urbano, il Centre for Science and Environment (Cse) di New Delhi ha dedicato molti progetti e ricerche, oltre al bellissimo video-spot Rainwater harvesting.

INTANTO, NELL’ARIDO RAJASTHAN, da anni il Barefoot College, specializzato in energia solare, acqua ed educazione per i villaggi, ha piazzato sistemi di stoccaggio delle acque piovane sui tetti di oltre mille scuole.


«Non basta un po’ di pioggia per uscire dall’emergenza»

INTERVISTA. Antonello Pasini, fisico climatologo del Cnr: «La causa principale della siccità risiede nell’inverno, c’è meno neve e quindi sono minori le riserve idriche»


La differenza fra la meteorologia e la climatologia sta nel fatto che mentre la prima studia le caratteristiche «momentanee» del tempo atmosferico in una determinata area geografica, la seconda fa la «media» degli eventi che si svolgono in un arco di tempo di minimo 30 anni. Clima e meteo non vanno quindi confusi e i climatologi stessi sono sempre molto cauti nell’attribuzione degli eventi estremi, ma sono sempre i climatologi a verificare se e quando eventi come il caldo e la siccità che stanno caratterizzando l’Italia e l’Europa in questo momento abbiano dei precedenti, per trarne le relative deduzioni. Ne discutiamo con il professor Antonello Pasini, fisico climatologo del Cnr e docente di fisica del clima e sostenibilità ambientale.

Caldo e siccità, queste condizioni meteorologiche come si inseriscono nelle dinamiche climatiche attuali?

Noi climatologi stiamo osservando che gli eventi siccitosi della portata di quello che ci sta colpendo negli ultimi 10-15 anni hanno assunto una frequenza più alta, quindi sta effettivamente cambiando qualcosa. La stessa cosa riguarda le ondate di calore del Mediterraneo: eravamo abituati a una circolazione che si dirige da ovest verso est, il ben noto anticiclone delle Azzorre, ma da qualche tempo a questa parte ci troviamo alle prese con gli anticicloni africani: quindi anche la circolazione atmosferica è cambiata.

Come si correlano questi due fenomeni con l’innalzamento della temperatura globale dovuto all’intensificarsi dell’effetto serra?

I gas serra intrappolano il calore che la terra dovrebbe riemettere verso l’esterno, e quindi è facile da collegare all’aumento della temperatura media globale. Il problema è che cambiando i flussi di calore e di aria si modificano gli estremi all’interno dei quali questa temperatura varia, in particolar modo nel Mediterraneo. E’ un rapporto causa -effetto meno diretto, ma lo vediamo dai nostri modelli: la maggior immissione di anidride carbonica unito al minore assorbimento causata dalla diminuzione della copertura vegetale ha amplificato quella che è la circolazione equatoriale -tropicale verso nord: è chiaro che poi quando arriva l’anticiclone di tipo africano, fa più caldo e non piove.

E per quanto riguarda la crisi idrica?

Dal mio punto di vista la causa principale di questa siccità non risiede tanto nell’estate, ma nell’inverno. La riserva idrica per la primavera e l’estate è rappresentata dalla fusione della neve che si è accumulata in inverno. La neve cade a quote sempre più alte: se prima nevicava a 1.400 metri di altitudine ed ora nevica solo fino ai 1.600, quei duecento metri che una volta erano neve, ora sono pioggia, e li abbiamo persi, perché la pioggia si accumula meno e finisce velocemente in mare: la vera ricchezza idrica è la neve che si fonde lentamente. Questo è un fattore molto importante che ci fa anche capire come non bastano 15 giorni di pioggia, quando arriverà, per risolvere 4 mesi di siccità. Anche perché il problema di questi anticicloni è duplice: quando si ritirano, lasciano la strada aperta alle correnti fredde, che quando arrivano su un mare e un suolo surriscaldati possono provocare disastri, come le alluvioni.

Quali sono gli scenari possibili in caso di pioggia?

L’evaporazione intensa dovuta al calore determina piogge violente che quando arrivano trovano un terreno secco che assorbe pochissimo; la maggior parte dell’acqua, quindi, scivola in superficie e in poco tempo, tramite i fiumi, arriva in mare. Anche che se i millimetri di pioggia caduti fossero gli stessi di un anno non siccitoso, gli effetti sul territorio sono diversi, perché la qualità dell’acqua, diciamo così, è diversa.

Quanto è destinata a durare questa situazione anticiclonica?

Mentre in alcune parti del mondo, come l’Africa, è possibile fare previsioni stagionali accurate, sul nostro Mediterraneo è più difficile perché la circolazione a queste latitudini è più variabile e la geografia fisica più complessa; posso però dire che le previsioni stagionali della temperatura estiva formulate dal Centro Meteorologico Europeo sono sempre più affidabili: secondo gli ultimi dati forniti, il caldo estremo durerà fino ad agosto, con temperature al di sopra della media; per media mi riferisco a quella dell’ultimo periodo, non certo a quella pre-industriale, in tal caso non ci sarebbe da preoccuparsi.

C’è il rischio di un altro 2003?

Non solo, rispetto al 2003 abbiamo addirittura una situazione ancora più siccitosa; nel 2003 fu eccezionale la durata dell’onda di calore, da maggio a settembre, ecco siamo su quei livelli. E comunque in autunno quando questo anticiclone finalmente e ne andrà, rischiamo dei disastri notevolissimi: arrivano delle piogge violente, il mare è caldo e fornisce molto vapore acqueo ed energia all’atmosfera, i territori sono provati dalla siccità e dall’eccesso di calore: ci sono tutti i termini dell’Equazione dei disastri che ho utilizzato in un mio libro per descrivere gli impatti dei cambiamenti climatici: quell’interazione di fattori che incide sull’esposizione al rischio nostra e delle nostre risorse. Dobbiamo stare attenti anche da qui a 10 giorni per quanto riguarda il nord Italia, quando è possibile che l’anticiclone cominci a cedere e che arrivino dei temporali violenti.

Lei è un osservatore non solo dei fenomeni fisici ma anche di quelli politico-sociali: che «clima» si respira?

Come sempre si rischia di agire solo in maniera emergenziale. Se non agiamo sulla base di un ragionamento a lungo termine, almeno 30 anni, questo problema non lo risolviamo. Queste ondate di calore e siccità ce le ritroveremo anche nel futuro: con la temperatura non si torna indietro, tant’è vero che l’obiettivo degli accordi di Parigi è il contenimento dell’aumento al di sotto di 1,5 gradi. Adesso siamo attorno a 1,2, una situazione ancora gestibile: dobbiamo evitare di andare oltre, perché diventerebbe ingestibile. Il che non può succedere se andiamo avanti con lo stesso modello di sviluppo. Questa situazione ci fa vedere che la possibilità di adattamento ha dei limiti: una volta superati, non c’è più nulla da fare. La dinamica naturale è lenta, ma inesorabile. Prendiamo per esempio i ghiacciaia alpini: quello che vediamo è che la loro estensione e il loro volume non sono in equilibrio con la temperatura attuale, questo vuol dire che stanno ancora rispondendo al riscaldamento degli ultimi 30-40 anni; i nostri modelli ci mostrano che se anche la temperatura rimanesse quella di adesso, i nostri ghiacciai alpini perderebbero il 30% della superficie e del volume. Se continuiamo come se nulla fosse, dal 30% passiamo al 95 e a quel punto è chiaro che non c’è adattamento possibile. Dobbiamo agire ora per vedere i risultati fra 20 anni. Pensiamoci quando parliamo di tornare alle centrali a carbone.


Colabrodo Italia, 1 miliardo di metri cubi di sprechi

ACQUA. Da nord a sud ogni anno viene perso il 36,2% dell’«oro blu» messo in rete per uso civile, una quantità che può soddisfare le esigenze di 10 milioni di persone

Ne consumiamo tanta e ne disperdiamo troppa. Dall’acqua dipendono la vita e gli equilibri sulla Terra, ma solo in questa fase di siccità estrema ci accorgiamo della straordinaria importanza di un bene primario e comune. Perché se dovessimo scattare una fotografia al sistema idrico italiano, non sarebbe certo virtuosa. Nel 2020, secondo i più recenti dati Istat, sono andati persi 41 metri cubi di acqua potabile al giorno per ogni chilometro di rete nei capoluoghi di provincia o città metropolitana (0,9 miliardi di metri cubi in un anno sui 2,4 miliardi totali), il 36,2% dell’acqua per uso civile immessa in rete, in leggero calo rispetto al 37,3% del 2018. Si tratta di «un volume cospicuo che – specifica l’Istat – riuscirebbe a soddisfare le esigenze idriche di circa 10 milioni di persone».

LE PERDITE sono da attribuire soprattutto alla vetustà delle infrastrutture e, in minor parte, ad errori di misura o ad allacci abusivi. Le maggiori criticità sono al Sud e nelle isole: male Palermo, Cagliari e Napoli. Tra i capoluoghi di più piccola dimensione bocciati Chieti (maglia nera con perdite pari al 71,7%), Latina, Belluno, Frosinone e Siracusa. Tra le città più virtuose, invece, Macerata, Pavia, Como, Biella, Milano, Livorno e Pordenone.

L’ITALIA CON 9,2 MILIARDI DI METRI cubi (Istat, 2018) è in testa ai Paesi dell’Unione europea per prelievo d’acqua (l’84,8% viene prelevato da acque sotterranee, che sono la nostra risorsa più preziosa). Ed è seconda, dopo la Grecia, in termini pro capite. L’uso civile è solo il 18% dei circa 26 miliardi di metri cubi di acqua all’anno consumati (dati Ispra): il 55%, è legato agli usi agricoli, mentre il 27% a quelli industriali. L’Oms ci ritiene un Paese con un livello di stress idrico medio-alto, considerando che utilizziamo tra il 30 e il 35% delle risorse idriche rinnovabili. Tutti elementi che, visti anche gli effetti del cambiamento climatico, non possono non invocare un cambio di paradigma.

LEGAMBIENTE DEDICA ANNUALMENTE dossier all’acqua: alla gestione della risorsa idrica (2021) e alle acque sotterranee (2022). «La siccità e la conseguente emergenza idrica sono fenomeni – sottolinea Andrea Minutolo, responsabile scientifico di Legambiente – con cui dobbiamo imparare a convivere e, per questo, dobbiamo gestire in maniera sostenibile i prelievi (civili, agricoli, industriali), efficientando la rete e riducendo i consumi. Mi domando che cosa si sia fatto in questi mesi per evitare una crisi acuta come quella attuale? Si parla solo di come possiamo avere più acqua a disposizione, tipo con i grandi invasi. Ma non ci serve nuovo cemento, bisogna cambiare il modello. L’agricoltura è abituata all’irrigazione a cannone, esistono invece tecniche più puntuali e capillari. L’industria dovrebbe fare proprio un approccio circolare all’uso dell’acqua. Ed è ancora alto il pregiudizio dei cittadini nei confronti dell’acqua del rubinetto, che è di qualità».

OLTRE A INTERVENIRE AL PIU’ PRESTO sulle perdite, è necessario completare e riqualificare la rete fognaria. Questo cronico ritardo è, infatti, costato all’Italia multe salate, infrazioni e anche una condanna da parte della Corte Ue sulle inadempienze nella depurazione. Le maggiori irregolarità, riporta il dossier di Legambiente, si registrano nel Mezzogiorno, in Calabria, che presenta l’89% degli agglomerati regionali in stato di infrazione, in Campania (con il 77%) e la Sicilia (il 75%). In base ai dati Istat, sono 605 mila i residenti nei comuni capoluogo di regione e provincia non collegati al servizio pubblico di depurazione.

SU TUTTO il sistema servirebbero investimenti strutturali e urgenti. I fondi del Pnrr (4,38 miliardi: 900 milioni di euro per gli acquedotti e la digitalizzazione delle reti; 600 milioni per fognature e depuratori; 2,36 miliardi per infrastrutture idriche di approvvigionamento, tipo grandi invasi; 520 milioni per l’utilizzo in agricoltura) non sono sufficienti, se si pensa che la ricognizione di Arera, l’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente, prevede 10 miliardi.

UN ULTERIORE ASPETTO CHE MINACCIA la disponibilità di acqua è – denuncia Legambiente – l’inquinamento delle falde, dovuto a scarichi o sversamenti che raggiungono le acque sotterranee. «Sono per natura rinnovabili e di buona qualità, ma hanno tempi di ricarica molto lunghi e risultano essere sempre di più sotto pressione a causa delle attività antropiche». Quattro vertenze dell’associazione ambientalista testimoniano i pericoli: la contaminazione da Pfas (sostanze perfluoro alchiliche riconosciute come interferenti endocrini) nelle acque di diversi territori del Veneto, dove le concentrazioni più elevate di contaminanti sono riferibili al depuratore di Trissino e, in particolare, alla società Miteni, contro la quale si è arrivati finalmente a un processo. Altro caso di contaminazione da Pfas è in provincia di Alessandria, ad opera della Solvay, dove – nonostante la presenza di questo inquinante accertata nei fiumi Po e Bormida e nella falda esterna alla fabbrica – la società ha chiesto e ottenuto dalla provincia di Alessandria l’estensione dell’Aia (Autorizzazione integrata ambientale) per l’uso e la produzione. E, poi, c’è il caso della Val Basento, in Basilicata, in cui sono risultati presenti nel suolo e nelle acque di falda metalli pesanti e solventi clorurati dovuti agli scarichi degli stabilimenti Anic/Enichem e Materit. Infine, il caso del profondo acquifero del Gran Sasso, che serve molte aree dell’Abruzzo ed è risultato contaminato di sostanze inquinanti quali cloroformio e diclorometano, a causa dei laboratori nazionali dell’Istituto di Fisica Nucleare e del traforo dell’A2.

IN QUESTO INIZIO DI ESTATE SECCO e bollente, la cura per una risorsa inestimabile come l’acqua deve diventare una priorità. Il tempo sta scadendo. O si pianifica e si inverte la rotta in chiave sostenibile oppure andrà sempre peggio. E la nostra rete colabrodo sarà solo uno dei tanti problemi.


Campi secchi e acqua razionata, la fine del sogno californiano

STATI UNITI. Il governatore Gavin Newsom ha annunciato misure di razionamento sull’uso privato: vietato innaffiare più di due giorni a settimana, durata massima della doccia cinque minuti. Ma il vero problema sono gli allevamenti intensivi


In un mondo che arde, la California rischia di trovarsi in una poco invidiabile avanguardia, vittima di un circolo vizioso ambientale fra aridità, incendi boschivi, emissioni maggiorate e progressivo riscaldamento. Frontiera per definizione, lo stato rappresenta anche un territorio di estremi, economici e ambientali, un luogo topico della scarsità di acqua alle prese da decenni coi problemi drammatici che si stanno palesando in questi giorni in Italia ed altrove. Lo stato più popoloso degli Usa comprende le grandi foreste pluviali del nord, le catene montagnose della Sierra, la pianura centrale – e l’arido terzo inferiore, in cui si concentra più della metà degli abitanti. In questa regione para-desertica vivono 25 milioni di persone, insediate in una zona che dal deserto del Mojave si estende alla macchia mediterranea di una fascia costiera che potrebbe scambiarsi per il meridione italiano o la Sardegna. Con la colonizzazione bianca a metà ottocento è iniziato un boom demografico mai veramente allentato in 180 anni e reso possibile solo da massicci interventi di ingegneria ambientale. In particolare la «bonifica idrica» gestita dal Bureau of Reclamation ha avuto il compito di rifornire di acqua il nuovo territorio incanalandola dal Colorado River, il fiume che dalle montagne rocciose raggiunge il golfo di California, in Messico.

Il grande corso d’acqua che gli indiani chiamavano Lapay’ha – «acqua rossa» – è scorso indisturbato per milioni di anni dalle Montagne Rocciose fino al Golfo di Cortez, scavando nel tragitto il solco del Grand Canyon. Oggi è dirottato in centinaia di acquedotti e prese d’acqua che lo hanno ridotto a poco più di una conduttura di irrigazione. Le grandi opere come le dighe Hoover e Glen Canyon sono simboli stessi della potenza economica americana capace di piegare la stessa geografia alla volontà dello sviluppo.

PER RIPARTIRE QUOTE DI ACQUA PROVENIENTI da nevi e ghiacciai secondo il fabbisogno di ognuno è stato sottoscritto nel 1922 il Colorado River Compact, un trattato fra California, Wyoming, Nevada, Arizona, Colorado e Nuovo Messico che assegna ancora oggi oltre il 70% dell’acqua all’agricoltura industriale che ha trasformato aride distese in serre intensive per al produzione di raccolti, spesso di varietà particolarmente assetate e lucrose come le mandorle, i meloni e l’erba medica per il bestiame. Per produrre il 98% dei broccoli, il 97% delle mandorle, il 89% delle prugne e quasi la metà della frutta e ortaggi per il resto della nazione (per un fatturato di oltre 50 miliardi di dollari) il paniere californiano consuma l’80% dell’acqua dello stato. Oggi, dopo oltre un secolo di sviluppo che ha ignorato le caratteristiche del territorio, sull’illimitato ottimismo del sogno californiano si allunga un’ombra. Non sono più solo le avverse caratteristiche morfologiche a limitare la crescita ma il fatto che queste stanno rapidamente cambiando per il peggio. Un rapporto stilato dalla University of California di Los Angeles ha individuato l’attuale periodo di siccità che perdura da 22 anni come il più drastico da quello verificatosi fra il 1571 e il 1593. L’equipe della Ucla ha studiato gli anelli di 30 mila alberi secolari per misurare i livelli storici di umidità del suolo. «A causa del mutamento climatico stiamo attualmente sopravanzando quelli che sono sempre stati considerati scenari più negativi in assoluto», afferma il professor Park Williams, autore dello studio che definisce la situazione attuale una «megadrought». E le conseguenze sono proporzionali. Questa settimana il Bureau of Reclamation, a un secolo dalla sua firma, ha convocato i sette stati del Colorado Compact in vista di quelli che saranno le maggiori riduzioni nelle rispettive quote della sua storia.

GLI SCORSI CENTO ANNI POTREBBERO ESSERE RICORDATI come una felice anomalia. La situazione nel sudovest degli Stati Uniti sta rapidamente raggiungendo livelli di guardia. I principali bacini regionali sono da mesi al minimo storico, simili ormai a grandi pozzanghere nel deserto. In California settentrionale gli invasi di Shasta Lake e Lake Oroville registrano livelli rispettivamente del 36% e del 47% sotto la norma. Il Grande Lago Salato si è ridotto del 40% e una sua definitiva evaporazione potrebbe dar luogo a pericolose nuvole di polveri sottili che minaccerebbero la vicina capitale dello Utah. La riserva regionale di acqua, congelata in forma di neve sulle pendici della Sierra Nevada, è ormai praticamente anch’essa esaurita.

QUESTO MESE IL GOVERNATORE CALIFORNIANO Gavin Newsom ha annunciato misure di razionamento sull’uso privato di acqua. Dal primo giugno è vietato innaffiare più di due giorni a settimana, non oltre otto minuti alla volta. Vietato altresì lavare le auto con acqua del rubinetto, chi ha la piscina deve obbligatoriamente coprirla per ridurre l’evaporazione. L’adempienza verrà monitorata dalle agenzia dell’acqua e le infrazioni sanzionate dopo un primo avvertimento; per i recidivi è prevista perfino una riduzione del volume di erogazione mediante apposito dispositivo apposto alle tubature. Accanto agli obblighi e divieti è stata messa in campo una massiccia campagna di informazione e persuasione per massimizzare la conservazione. La durata consigliata per le docce è di non oltre 5 minuti e si consiglia di farla muniti di recipienti per raccogliere acqua con cui annaffiare le piante, è incoraggiata la sostituzione dei prati con vegetazione autoctona, adattata alla scarsità. Si tratta, ha precisato il governatore di misure di prima fascia, che potrebbero essere ulteriormente inasprite. Passi necessari, ma non sufficienti, ha aggiunto, a risolvere un problema destinato in futuro solo a peggiorare.

Di più difficile soluzione invece la questione agricola. Come suggerisce il numero sempre maggiore di campi abbandonati nella Central Valley per esaurimento dei pozzi, questa dovrà forzatamente comprendere un ricalibro del tipo di prodotti coltivati in base al fabbisogno di acqua e nel rispetto delle condizioni locali, ad esempio un ridimensionamento dell’allevamento intensivo di manzo e della sua sete smisurata e sempre meno sostenibile. Nelle parole di Chris Field, direttore del Woods Institute for the Environment di Stanford, «qui le siccità fanno parte del ciclo storico, ma il trend è chiaramente negativo. Dovremo trovare modi per vivere entro i parametri sempre più stretti del mondo in cui viviamo». In quel mondo le temperature medie sono salite di quasi un grado e mezzo

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