Le pensioni italiane

 Davanti ai fatti francesi, tedeschi e inglesi le reazioni possono essere molteplici: dal rimpianto per avere, in Italia, il sindacato meno combattivo e più arretrato del vecchio continente fino a reazioni opposte quali la soddisfazione di padroni e tecnocrati di non ritrovarsi tra scioperi e conflitti diffusi.



Ma sullo sfondo di un'Europa nella quale divampa il conflitto sindacale qualche riflessione ulteriore andrebbe spesa sulla presunta eccessiva tassazione dei salari, un leit motive che ha rafforzato la contrattazione di secondo livello tra deroghe al CCNL, detassazioni varie e richieste di maggiore produttività e flessibilità della forza lavoro.

La prima scelta operata dal capitalismo italiano è stata, 30 anni fa, la cancellazione delle norme previdenziali che differenziavano l'uscita dal lavoro tra uomini e donne, il capitolo pensioni è stato ripetutamente rivisitato ma nell'ottica di salvaguardare l'impianto generale con l'uscita a 67 anni di età.

La Contro riforma delle pensioni in Francia è arrivata con anni di ritardo rispetto ad altri paesi ma si è mossa nell'alveo delle compatibilità europee seguendo alla lettera le indicazioni di Bruxelles infatti hanno posto fine alle uscite anticipate per alcune categorie e lavori usuranti, hanno deciso di portare l'età pensionabile da 62 a 64 anni favorendo il proseguimento delle attività lavorative con varie penalizzazioni per chi non ha raggiunto 43 anni di contributi (che diventano 40 al compimento dei 65 anni di età).

In Italia dopo la quota 100 siano arrivati a quota 103 come sommatoria degli anni di età e dei contributi ma con penalizzazioni  ma ormai è acclarato che nel corso della vita, tra vuoti contributivi e contributi effettivi leggeri, il calcolo previdenziale costringe a posticipare l'uscita dal lavoro se non si è nella condizione economica di subire tagli consistenti alla pensione.

La scommessa delle destre è ridurre la contribuzione a carico dei datori di lavoro e in misura minore a carico dei lavoratori, gli effetti saranno assai negativi per le entrate dello Stato e il welfare ma le ricadute positive sul reale potere di acquisto saranno risibili.

Il vero e unico problema resta quello di salari bassi e pensioni altrettanto povere, la perdita del potere di acquisto non deve essere combattuta con la riduzione delle tasse ma introducendo dei sistemi di calcolo analoghi al vecchio modello retributivo.

Con la Riforma Dini passò il concetto che la pensione di domani  “restituisca” i contributi versati salvo poi scoprire che l'assegno corrisponderà al 60% dell'ultima busta paga.

Se le pensioni saranno di gran lunga inferiori alle ultime retribuzioni è lecito parlare di iniquità di un sistema che ha fatto credere vantaggioso il sistema contributivo quando in realtà accade invece l'esatto contrario.

A guidare l'operato delle riforme previdenziali è stato un altro principio ossia la riduzione di spesa da qui deriva la perdita del potere di acquisto. E pensare di scontare ai datori ulteriori tasse è una autentica beffa ai danni dei futuri pensionati indigenti sui quali graverà anche il venir meno di aliquote crescenti in base al reddito da lavoro. 

A rimetterci saranno i salari e le pensioni medio basse e in generale il welfare. Negli anni successivi al Governo Dini posero fine anche ai meccanismi che prevedevano la corresponsione di alcuni contributi figurativi e anche questa scelta, che aveva ripercussioni positive sulle pensioni, era dettata dal dogma della riduzione di spesa.

L’attuale Governo ha elevato a 3 punti il taglio per le retribuzioni fino a 25 mila euro confermando il taglio di 2 punti per le retribuzioni da 25 a 35 mila euro.  Qualche taglio maggiore, 5 punti, viene annunciato per le retribuzioni più alte e con i soldi risparmiati vorrebbero ridurre la spesa dei contributi a carico datoriale. Ma quanto guadagneremo da questi interventi? Se facciamo due considerazioni elementari non abbastanza per recuperare il potere di acquisto perduto, continueremo ad andare in pensione sempre più tardi e con un sistema di calcolo dei contributi penalizzante. 

Se si tagliano gli oneri a carico dei datori sarà lo stato sociale a rimetterci con minori servizi al cittadino come dimostrano i tagli alla sanità . 

La idea del Governo è quella di ogni buon liberista ossia ridurre i contributi e le tasse sapendo che poi mancheranno i soldi per il welfare che a sua volta sarà ridimensionato o affidato ai privati con tutti i danni che abbiamo già sperimentato nei paesi nei quali queste ricette sono state applicate. E in questi paesi non solo sono cresciute le differenze sociali e le disuguaglianze ma è anche diminuito il potere di acquisto dei salari e delle pensioni a solo vantaggio dei grandi capitali.



In Italia non si fa molto per stimolare l’occupazione dei giovani e delle donne o per riqualificare i disoccupati, eppure pensano che la soluzione del problema sia accrescere ulteriormente l'età pensionabile facendosi scudo di alcune statistiche dalle quali si evince che in alcuni paesi europei si lavora più a lungo iniziando prima e uscendo con qualche anno di anticipo rispetto al nostro. 

Ma se i giovani stentano ad entrare nel mondo del lavoro e quando lo fanno hanno contratti precari, part time con contributi miseri la colpa è della forza lavoro o piuttosto di un sistema che non funziona?



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