Brasile nero

Francesco Bilotta, da il manifesto del 30 gennaio 2019

BRASILE NERO • Jair Bolsonaro si presenta al paese: liste di proscrizione nelle università, una riforma agraria contro i senza terra, riduzione del salario minimo. Ma la sinistra si riorganizza. Raccolte già 500mila firme da tutto il mondo per la candidatura di Lula al Noberl per la pace

Gli ultimi tornano ultimi

Francesco Bilotta

BRASILIA
Tutto viene messo in discussione nel nuovo ciclo che si è aperto in Brasile con l’avvento di Bolsonaro: diritti umani, conquiste civili, tutela dell’ambiente. Siamo di fronte a un ritorno al passato. E la domanda che risuona negli ambienti democratici è sempre la stessa: «Come è potuto accadere?».

COME È STATO POSSIBILE che un fanatico di estrema destra e un manipolo di neofascisti abbiano messo le mani sul Brasile? Perché fino a 6 mesi fa Bolsonaro era considerato un personaggio folcloristico, nonostante il suo linguaggio violento, le posizioni razziste e omofobe, l’esaltazione della dittatura militare. Si cerca di mettere in ordine il susseguirsi degli eventi, percorrendo a ritroso le tappe di un cammino doloroso: la crisi economica e il forte aumento della disoccupazione, la destituzione di Dilma, l’insediamento del governo Temer, l’arresto di Lula.

E poi ancora: le sistematiche campagne di disinformazione attraverso internet e le reti sociali, le prese di posizione dei militari, il ruolo svolto dalla chiesa evangelica, l’attentato all’ex capitano e il conseguente «effetto martire». Un insieme di elementi che hanno favorito il «sonno della ragione» che ha generato Bolsonaro.

Nella sterminata Spianata dei Ministeri riecheggiano ancora le grida di entusiasmo dei sostenitori di Bolsonaro nel giorno dell’insediamento. Ma il popolo brasiliano non era in questa piazza. Il cuore e la mente di milioni di persone erano a Curitiba, dove Lula è detenuto. E appariva come un’ingiustizia incommensurabile la tracotante passerella del nuovo presidente.

Degli amici brasiliani ci dicono che alla festa ha partecipato meno di un decimo delle 500mila persone sbandierate dal clan Bolsonaro e ricordano, con commozione, che la Spianata dei Ministeri ha accolto mezzo milione di persone solo in occasione del concerto che celebrava la fine della dittatura militare, con Chico Buarque, Gilberto Gil, Caetano Veloso. Anche i loquaci tassisti brasiliani sono un termometro della nuova situazione. In altri tempi non avrebbero perso l’occasione per celebrare la pizza e il calcio italiano; ora mostrano tutto il loro entusiasmo per il nuovo presidente che «metterà le cose a posto».

NELLE UNIVERSITÀ si respira uno strano clima. Ci si muove con circospezione. Le violente campagne contro la «scuola marxista» e gli inviti a denunciare gli insegnanti hanno lasciato il segno. Alcuni dei numerosi docenti che avevano firmato nelle settimane scorse gli appelli contro Bolsonaro sono stati oggetto di attacchi e intimidazioni sui social. Se non siamo alle liste di proscrizione, poco ci manca.

Durante la campagna elettorale il governo Temer aveva varato decreti ingiuntivi contro venti università, con l’intervento della polizia, per l’eliminazione di scritte, striscioni e manifesti contro Bolsonaro, con la motivazione che si violava la legge elettorale e si influenzava il voto. Tuttavia, il movimento di protesta degli studenti non si è arrestato, scritte e manifesti sono ricomparsi numerosi e sono molte le iniziative per contrastare il clima di restaurazione culturale che si vuole imporre nel paese.

Temer nel suo ultimo discorso ha affermato che lasciava la presidenza con «alma leve e tranquila» e Bolsonaro, a sua volta, dichiarava di prendere in mano il paese con lo stesso spirito, rilanciando il suo slogan: «Il Brasile sopra tutto, Dio al di sopra di tutti». In realtà, Temer lascia in eredità al suo successore i drastici tagli nei programmi sociali come la bolsa familia, nel sistema di salute pubblica, nell’educazione.

SIN DAI PRIMI ATTI il nuovo governo ha manifestato il suo carattere anti-popolare. Il decreto con cui ha esordito ha prodotto una diminuzione del salario minimo, portato a 998 reais, 8 in meno rispetto a quanto stabilito dalla legge di bilancio 2019. In Brasile 20 milioni di lavoratori vivono con il salario minimo, utilizzato come riferimento per i benefici previdenziali e di sicurezza sociale.

Si è trattato di un primo passo, in attesa di varare quella riforma della Previdenza che Temer non è riuscito ad attuare e che produrrà ulteriore povertà e diseguaglianze.


Jair Bolsonaro il giorno dell’investitura (Foto: Afp)
Un altro decreto ha preso di mira il mondo rurale. L’Istituto nazionale di riforma agraria (Incra) ha ricevuto una direttiva che impone di sospendere tutte le attività di acquisizione, espropriazione e assegnazione delle terre. L’Istituto, passato sotto il ministero dell’agricoltura guidato da Tereza Cristina, leader della bancada ruralista, viene subito svuotato della sua funzione.

L’agricoltura familiare non interessa al nuovo governo e l’interruzione dei progetti di riforma va a colpire i 23 milioni di lavoratori rurali, agricoltori familiari e senza terra. L’intento è quello di interrompere tutti i progetti legati a quella riforma agraria che in Brasile viene invocata e attesa da decenni e che neanche i governi Lula e Dilma hanno avuto la forza di attuare fino in fondo.

LA BORSA BRASILIANA, intanto, festeggia e ha toccato nel fine settimana il punto più alto degli indici storici, rassicurata dalle politiche ultraliberiste e dai progetti di privatizzazione annunciati dal ministro dell’economia Paulo Guedes.

Ma ci si interroga sullo stato di salute della democrazia brasiliana, di fronte a un governo che ha sette ministeri su 22 occupati da figure provenienti dai ranghi militari, oltre al presidente e al suo vice. Movimenti sociali, organizzazioni ambientaliste, associazioni dei diritti umani, comunità indigene si stanno organizzando per fronteggiare l’onda che sta per abbattersi sul paese. Appare sempre più chiaro che è stata condotta un’operazione politico-giudiziaria che ha cambiato la storia del Brasile.

Bolsonaro si trova a essere presidente perché a Lula è stato impedito di partecipare alle elezioni e il giudice Moro, che ha costruito i capi d’accusa, ora guida il ministero della giustizia. Milioni di brasiliani si chiedono quando, nel paese, sarà la democrazia a essere al di sopra di tutto.

Il 10 aprile, dopo un anno di detenzione, ci sarà il pronunciamento del Supremo tribunale federale sulla libertà dell’ex presidente e tutte le forze della sinistra brasiliana stanno organizzando iniziative di mobilitazione. Ma cresce e prende sempre più forza anche il movimento per la candidatura di Lula al Nobel per la pace. Il primo a lanciare la proposta era stato, nei mesi scorsi, Adolfo Perez Esquivel, pacifista argentino insignito del premio nel 1980 e per anni presidente della Lega internazionale per i diritti dei popoli.

DA TUTTO IL MONDO è arrivato un sostegno alla candidatura che verrà formalizzata a fine gennaio. Sono già 500mila le adesioni perché venga assegnato a Lula un riconoscimento per le sue politiche sociali che hanno consentito a 30 milioni di brasiliani di uscire da una condizione di estrema povertà.

Il suo governo dal 2003 al 2010 ha svolto un’azione importante per combattere fame e diseguaglianze con i programmi sociali Fame zero e Bolsa familia, un esempio da seguire per gli altri paesi del Sud del mondo. Partendo dall’esperienza brasiliana, nel 2004 era stata lanciata la campagna «fame zero internazionale», sostenuta dal segretario generale dell’Onu e decine di capi di Stato. La lotta alla fame in Brasile e nel mondo e la promozione della pace sono un lascito di Lula che non può essere cancellato.

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