La socialdemocrazia ora dice...

La socialdemocrazia ora dice

di Tonino D’Orazio
Dice che un’altra globalizzazione sia possibile. I partiti socialdemocratici e socialisti di tutta Europa stanno pagando il pesante prezzo elettorale per il loro acritico abbraccio della globalizzazione sin dagli anni ’90. “La politica responsabile”, (ancora oggi), era equiparata all’adattamento alle richieste dei mercati globali. Come avevano affermato Tony Blair e Gerhard Schröder nel loro tanto citato opuscolo-bibbia La terza via / Die Neue Mitte: “I socialdemocratici devono soddisfare le crescenti richieste di flessibilità“, cedendo di fatto un secolo di storia sociale conquistata, con tanto sangue, dalle classi lavoratrici.
Questo ritornello fu accettato come “realismo pragmatico” e fu rapidamente adottato dalla maggior parte dei partiti socialdemocratici e socialisti che governarono l’Europa sin dalla fine degli anni ’90, in Italia PDS, DS e poi Pd in primis. Di fatto il centrosinistra è stato complice nell’indicare la globalizzazione in una direzione neoliberista. Fondamentalmente, i partiti socialdemocratici e socialisti dei vari governi sono stati felici di sostenere il lancio dell’euro senza mai mettere in discussione le sue regole di governance ordoliberali e di sottoscrivere un’ulteriore depoliticizzazione/privatizzazione della politica pubblica in base alla quale le istituzioni tecnocratiche e bancarie hanno acquisito il controllo su settori della politica che erano stati soggetti a scrutinio democratico.
Ma trattando la globalizzazione come una forza della natura che non poteva essere controllata, i partiti socialdemocratici hanno contribuito all’aumento della disuguaglianza, all’erosione dello stato sociale e della protezione sociale che avevano caratterizzato il modello sociale europeo, e alla creazione di una nuova classe sociale, che può confondere tranquillamente i lavoratori poveri e la borghesia decaduta. I loro programmi erano fondati sull’idea che una maggiore competizione economica fra padroni implicasse salari più bassi e una protezione sociale più debole. Alla fine, hanno contribuito alla crisi finanziaria globale del 2008 e alla successiva crisi dell’Eurozona, da cui la maggior parte delle economie europee non si sono mai  completamente riprese. L’Italia per niente.
Il declino elettorale dei partiti socialdemocratici è direttamente collegato alle conseguenze di questo abbraccio acritico della globalizzazione. Alcuni continuano imperterriti. Nell’ultimo decennio, i partiti di centro-sinistra europei sono stati eletti senza mandato sociale preciso mentre i loro sostenitori tradizionali si sentivano abbandonati. Mentre molti di questi elettori hanno smesso di partecipare alle elezioni, altri hanno iniziato a votare per i partiti della sinistra radicale, che ora hanno adottato posizioni socialdemocratiche per un possibile “recupero responsabile”, e in misura non sempre minore per i partiti populisti o di estrema destra, che non sono facilmente catalogabili come uguali.
Avendo accettato così facilmente un approfondimento dell’integrazione europea che affronta solo le richieste delle multinazionali e delle banche a scapito dei lavoratori, dei cittadini e della democrazia, hanno costruito una tale gabbia da rendere inoltre impossibile un capovolgimento progettuale futuro tanto che ci vorrà del tempo per annullare i nodi ordoliberali e neoliberisti che impediscono ormai l’adozione di eventuali politiche socialiste in tutta Europa. Non aiuta ovviamente il fatto che il centro-destra ora domini i governi della maggior parte dei paesi europei e sia l’ideologia prevalente nelle istituzioni dell’UE come il Parlamento europeo e la Commissione. Questi attori politici stanno resistendo all’adozione di riforme democratiche nella zona euro che potrebbero sfidare l’ideologia prevalente di uno stato minimo ma forte.
A peggiorare le cose, in tutta Europa gli elettori sono giustamente molto arrabbiati. Il recente aumento del sostegno ai partiti della destra radicale suggerisce che gli elettori ne hanno avuto abbastanza con politici e partiti che sembrano più sensibili ai bisogni delle forze invisibili e inesplicabili dei mercati che ai loro propri bisogni. Come hanno dimostrato le elezioni in Italia, Ungheria, Svezia e, più recentemente, in Andalusia, così come le proteste non partigiane dei gilet francesi in Francia, gli elettori non sono dell’umore giusto per essere motivati ​​o per sentirsi dire che la politica è complicata. Hanno avuto abbastanza stasi degli standard di vita, dei crescenti livelli di debito personale e delle loro famiglie, e di sentire che le loro vite sono alla mercé di forze che non controllano. Se la loro scelta di partiti sovranisti che fanno capri espiatori i migranti e rifugiati è allarmante, è importante ricordare che la destra radicale è stata in grado di massimizzare il proprio potenziale di voto quando ha aggiunto alla sua piattaforma xenofoba la promessa di lottare contro le strutture costrittive (ossimoro: autoritarie) dell’UE, di aumentare il salario minimo, proteggere i posti di lavoro, introdurre un reddito di base e investire in servizi pubblici.
Per questo motivo, l’attuale status quo politico non può essere una scusa per la paralisi. Se i socialdemocratici europei vogliono tornare al potere hanno bisogno di (ri) scoprire e riutilizzare il vocabolario e la prassi della politica sociale. Soprattutto, hanno bisogno di spiegare agli elettori come magari sia possibile un’altra globalizzazione. Dovrebbero iniziare cambiando completamente il punto focale delle loro narrative. Invece di parlare di ciò che i governi non possono più fare (questo era il mantra sin dagli anni ’90 con Non ci sono Alternative), la sinistra, anche socialdemocratica, deve scoprire cosa può fare ormai lo Stato sulla globalizzazione, se ci riesce.
Se negli anni ’90 il centrosinistra sosteneva l’approfondimento della globalizzazione economica e finanziaria e dell’integrazione europea, nel XXI secolo possono sostenere solo una contro-globalizzazione che si distingua per i diritti dei lavoratori, per un robusto stato sociale che conferisca potere ai singoli, per la protezione dell’ambiente, per una democrazia che coinvolga i cittadini nel processo decisionale e per spazi pubblici dinamici, inclusivi e belli (il privato si è dimostrato non bello). Un federalismo responsabile e solidale.
Se i socialisti dissero ai lavoratori negli anni ’90 che dovevano adattarsi alle richieste del mercato globale, nel XXI secolo devono dire alle corporation padronali che devono trattare e pagare i loro lavoratori in modo equo (oltre a investire nelle loro capacità), riavere una “ragione e responsabilità sociale”, di pagare le tasse e considerare l’impatto ambientale delle loro attività. In breve, i socialisti devono esigere e sostenere un nuovo ruolo per lo Stato che assicuri che i cittadini e i lavoratori non siano trattati come merci e che i mercati servano il bene pubblico. Il percorso verso questa nuova “politica delle possibilità” è irto di vicoli ciechi, inclinazioni ripide, buche e tornanti, che loro stessi hanno aiutato a costruire, ma è l’unico che può portare una nuova prospettiva di vita alla socialdemocrazia e ripristinare la speranza in un progetto d’Europa sociale forte e solidale, con un’analisi critica di quello che hanno perseguito sin ora. Sbagliando hanno aiutato la destra a riportare la stessa Europa agli anni ’50 e oggi senza prospettive se non più destra.
Penso sinceramente, però, che non siano più né capaci né credibili. Potevano farlo, essere fedeli alle loro storiche idee sociali, non l’hanno fatto. Continuano a non farlo. Dai risultati elettorali di questi due ultimi anni in vari paesi europei il sole non brilla più. Lo spazio abbandonato è stato occupato da altri, nel bene e nel male. E le invettive, o “al lupo!… al lupo!”, servono a ben poco.

Commenti