Contratti in arrivo sotto il nefasto influsso della produttività

Ci siamo piu’ volti occupati della produttività dimostrandone la natura contraddittoria perché un parametro di giudizio oggettivo e univoco non puo’ esistere soprattutto per alcune professioni. Se guardiamo ad un medico o una infermiera, a un’ insegnante o un’ impiegata, il metro di valutazione puo’ essere lo stesso? Pensiamo di no, a meno di non misurare la produttività di un lavoratore in base a parametri aziendali, in tal caso sarà premiato chi garantisce risparmi di risorse ma non necessariamente il piu’ valido e meritevole. Ma, se un vostro figlio dovesse essere operato, vi affidereste a un medico capace o a chi viene giudicato più meritevole perché effettua un numero maggiore di interventi o riduce la ospedalizzazione ai minimi termini? E per l’educazione dei figli vi affidereste a una brava insegnante che si preoccupa dell’apprendimento del gruppo classe e stimola ogni giorno gli alunni o preferireste una docente che privilegia invece attività collaterali, di mera immagine dell’istituto comprensivo? Sono solo piccoli esempi sui quali riflettere perché la produttività non si poggia su parametri oggettivi e soprattutto su un unico parametro di valutazione, piuttosto la produttività viene disciplinata da criteri aziendali miranti ad aumentare i carichi e le mansioni esigibili, le prestazioni effettuate, a ridurre i costi della forza lavoro, a garantire una disponibilità che va ben oltre gli orari contrattuali a discapito di quella separazione tra tempi di lavoro e di vita che dovrebbe essere la base di un benessere psicofisico sempre piu’ minacciato dalla dittatura del profitto. I salari non sono una variabile dipendente dai profitti, era uno slogan degli anni settanta ancora oggi valido, le varie qualifiche e categorie venivano giudicate come strumento per dividere gli operai e spremerli all’inverosimile. Ma la dinamica contrattuale nel pubblico impiego ha seguito altre strade, le stesse del lavoro privato per altro, ad esempio una parte importante del salario di primo livello è stato trasferito alla contrattazione decentrata. Si è trattata di una conquista o di una rimessa?A distanza di anni possiamo asserire senza timori di smentita che si è trattata di una disfatta, le rsu hanno abdicato ad ogni ruolo conflittuale per cogestire con gli Enti accordi di secondo livello con crescenti disuguaglianze. Il ruolo delle Rsu, oltre 20 anni fa, era funzionale a costruire trattative sulla gestione del salario accessorio ma nel corso degli anni alla contrattazione è subentrata la concertazione, soppiantata a sua volta dal solo e ridicolo diritto alla informazione sindacale. Il fondo della produttività è costituito da una parte fissa ed una variabile e disciplinata da istituti contrattuali. Per incrementare la parte variabile, al sindacato viene chiesto di lasciare campo libero alle amministrazioni per impegnare parti sempre piu’ grandi della parte fissa, cosi’ si finanziano le posizioni organizzative e altre responsabilità. Non c’è stato fino ad oggi bisogno di costruire un’area quadri perché a pagarla è il salario accessorio dei lavoratori e delle lavoratrici, non a caso la richiesta sindacale di tanti anni fa era che le posizioni organizzative fossero invece a carico del bilancio di Ente e non del fondo della produttività. In questo modo il sindacato si è rinchiuso in un ambito angusto, quello di una contrattazione a perdere sul salario accessorio quando una parte sempre più rilevante dello stesso viene ipotecato da decisioni politiche. La contrattazione di secondo livello ha rappresentato un modello con cui sottrarre al sindacato il diritto di veto su importanti materie, poi, progressivamente, sono arrivati i cambiamenti legislativi che hanno ridotto ai minimi termini la contrattazione stessa, anzi a nostro modesto avviso l’hanno definitivamente ipotecata. I lavoratori e le lavoratrici della Pa non capiscono che il salario decentrato è salario di tutti\e che dovrebbe essere erogato con una sorta di quattordicesima, l’illusione che il sindacato e le rsu possano trattare sulla erogazione del fondo stride con l’assenza di potere decisionale effettivo e una discussione generica su criteri astratti che non incidono sull’effettiva distribuzione salariale e men che mai sulla macchina organizzativa degli enti. La cultura della performance ha scavato per anni un solco tra una pratica sindacale conflittuale e la cultura dominante nella società e nel mondo del lavoro, non è facile spiegare come questi pochi soldi spetterebbero di diritto a tutti\e e non dovrebbero essere affidati alla ruota della fortuna ribattezzata performance. Questa lunga premessa è necessaria e utile per capire cosa potrà accadere con i prossimi rinnovi contrattuali nel pubblico impiego. Le trattative sono avvolte nel mistero, si sa comunque che gli aumenti saranno per pochi e in parte erogati attraverso il secondo livello di contrattazione. Nell’arco di un anno siamo arrivati alla cifra lorda di 85 euro, una cifra ondivaga perché a detta del governo si tratta di aumenti medi mentre per il sindacato dovrebbero essere minimi, cioè da 85 euro in su. Ma per recuperare potere di acquisto servirebbero non meno di 250 euro, una cifra per altro confermata dagli stessi sindacati concertativi. E’ risaputo che i rinnovi contrattuali pubblici siano finanziati dalla legge di stabilità, tra cifre già erogate ed altre in corso di erogazione si capisce che dopo 7 anni di blocco contrattuale non ci sarà alcun recupero del potere di acquisto perduto. Negli stanziamenti governativi (maxi-fondo da 1,48 miliardi nel 2017 e 1,93 dal 2018) sono compresi gli 80 euro per le forze dell’ordine, i soldi per le assunzioni in sanità , niente a che vedere con la rimozione di ogni blocco al turn over piu’ volte promesso dal Governo Il rinnovo dei contratti, al di là delle cifre irrisorie ribattezzate aumenti e dei criteri di erogazione che potrebbero favorire la fase decentrata rendendo i sindacati complici di disuguaglianze redistributive, si annuncia come l’inizio di una revisione anche della parte normativa, non solo quella contrattuale perché stiamo pensando al nuovo testo unico del pubblico impiego e ai decreti attuativi Madia Il Governo vuole chiudere il contratto prima del 4 dicembre, sarebbe uno spot elettorale in vista del Referendum con la speranza che i 3 milioni di dipendenti pubblici possano indirizzarsi verso il Si. Gli aumenti medi lordi di 85 euro sono la cifra già erogata per altri contratti, pochissimi soldi in cambio per altro di aumenti della settimana lavorativa (vedi igiene ambientale) e sotto inquadramenti . Con il prossimo contratto nazionale sarà applicata anche la Riforma Brunetta con le famigerate 4 fasce; è possibile che una piccola revisione della Brunetta possa anche essere concessa ma l’impianto e la filosofia di questa legge, che a priori esclude il 25% della forza lavoro (800 mila unità) da ogni forma di salario accessorio, non sarà messo in discussione. Ricordiamo infine quanto dichiarato in piu’ occasione dalla ministra Madia , è intenzione del Governo privilegiare negli aumenti i redditi più bassi: un meccanismo inconciliabile con un tetto minimo agli aumenti, difficile anche da coprire finanziariamente e destinato anche a creare ulteriori divisioni nella forza lavoro. Aumenti che potrebbero escludere a loro volta una parte degli aventi diritto (si era parlato della soglia di 25\6 mila euro), un po’ come accade con la legge Brunetta. Se questi sono gli scenari, chi potrà cantare vittoria al prossimo rinnovo contrattuale?

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