1 Maggio: per o contro il lavoro?
PRIMO MAGGIO: PER IL LAVORO, CONTRO IL LAVORO di Franco Astengo
In
principio del ragionamento che s’intende sostenere con questo
intervento ecco un breve riassunto del discorso marxiano sul lavoro:
“Marx
coglie da una parte il lavoro come “essenza dell’uomo”, come ricambio
organico “uomo – natura”, mezzo per la realizzazione dei bisogni
dell’uomo e perciò dimensione universale del rapporto stesso tra uomo e
natura.
Dall’altra
parte individua nel lavoro salariato, la forma storica e determinata
del lavoro produttivo nella realtà dei rapporti di produzione
capitalistici, il vero centro, perno della produzione all’interno di
questi rapporti.
Superando
la teoria del valore degli economisti classici, Marx afferma che alla
radice della determinazione del valore c’è non una quantità fisica – in
termini di orario – di lavoro, ma una quantità storica e sociale di
valore, che la concretezza del doppio carattere della merce (attraverso
il mercato) – valore d’uso e valore di scambio – e del lavoro che vi
mette capo manifesta, ma allo stesso tempo nasconde e mistifica (in
quanto i valori quantitativi non rispondono).
Lavori
produttivi (e all’opposto improduttivi), nei rapporti sociali di
produzione capitalistici, sono quelli che mettono capo non alla
produzione di merci, fisicamente riscontrabili, ma alla formazione di
valore e plusvalore.
Non
è il lavoro concreto, che realizza il valore d’uso della merce, a
determinare il lavoro produttivo, bensì la determinazione formale,
puramente quantitativa: il lavoro astratto.
E’
la sussunzione formale del lavoro, la sottomissione completa della
forza lavoro al capitale, a rendere il lavoro completamente produttivo.
Questo
caratterizza anche l’appartenenza di classe: la collocazione del
rapporto sociale di produzione determina la condizione oggettiva di
appartenenza alla classe subalterna.”.
Fino
a qualche tempo fa sulla base di quest’assunto si sarebbe commentato in
questo modo: la condizione soggettiva, la coscienza di classe e lo
schieramento nel conflitto con la classe borghese, e quindi con
l’espressione politica di questa, determinava lo spazio della politica e
della lotta per il potere.
Fini
qui la valutazione di carattere generale ma si sarebbe constatato anche
che: oggi è andato definitivamente in crisi il tentativo che ha segnato
i decenni centrali del XX secolo di attenuare la contraddizione di
classe attraverso uno sviluppo delle politiche sociali rivolte
all’estensione dei diritti (welfare state) e dello sviluppo del “pieno
impiego” attraverso politiche attive del lavoro sostenute
dall’intervento statale.
Aggiungendo
inoltre: la crisi acuta di queste politiche ha aperto una fase di
pesante ristrutturazione rivolta prima di tutto al ristabilimento dei
rapporti di forza dalla parte del capitale.
La “politica” è così apparsa impotente a contrastare questa tendenza che sta determinando una fase di paurosa regressione.
La “politica” è così apparsa impotente a contrastare questa tendenza che sta determinando una fase di paurosa regressione.
Sorge,
a questo punto, un interrogativo di fondo sulla validità di queste
risposte che – appunto – avremmo formulato fino a qualche tempo fa.
Un
interrogativo generato essenzialmente dall’ingresso sulla scena della
storia di un processo d’innovazione tecnologica fortemente accelerato,
mai immaginabile in precedenza.
Un
processo d’innovazione tecnologica che sta sottraendo quote molto ampie
di quello che poteva essere classicamente considerato come “lavoro
vivo” pur in una fase di arretramento di quella che – impropriamente –
nel decennio appena trascorso era stata definita come “globalizzazione”.
Un
fenomeno, questo dell’accelerazione nell’innovazione tecnologica
accompagnato dallo spostamento secco verso l’ingigantirsi dello
spostamento verso la finanziarizzazione dell’economia, di vastissime
proporzioni che si sta imponendo al punto da porre il tema di una
chiusura della dimensione lavorativa così come questa l’avevamo compresa
tra il XIX e il XX secolo.
Siamo
al punto in cui questo fenomeno, assieme a quello delle guerre, pare
provocare una vera e propria situazione di sopravvivenza per intere
fasce di popolazione in varie parti del mondo, cui rispondono imponenti
fenomeni migratori rivolti in varie direzioni e non semplicemente verso
quello che è stato definito “Occidente sviluppato”.
Il quadro complessivo è quindi segnato da una crescita disperante delle disuguaglianze, ben rilevato da molti economisti.
La sottrazione di “lavoro vivo” riguarda sia il lavoro manuale sia il lavoro intellettuale.
Emerge
una vera e propria “crisi del lavoro” che, dalle nostre parti in
Occidente, ha posto una questione(in questi termini inedita) che può
essere riassunta sotto la voce “reddito di cittadinanza” ma che
contempla anche tanti altri elementi sui quali riflettere.
Ci troviamo così stretti tra domande molto stringenti che di seguito si riducono in un’assoluta semplificazione.
Dobbiamo
essere “contro” questo lavoro del soggiacere ai voleri di questo
capitalismo dell’ipersfruttamento, dell’allargamento della materialità
della contraddizione di classe ben oltre a quella che abbiamo sempre
considerato la “frattura” principale, del precariato assunto come quasi
forma esclusiva dello stare (in bilico) nel mondo del lavoro, della
crescita degli infortuni e delle morti definite “bianche”, della
crescita della sopraffazione di genere, dell’adattamento dei ritmi di
lavoro ai modelli insensati della società consumistica.
Nello
stesso tempo esiste la necessità di proporci di essere “per” il lavoro
non solo come elemento fondamentale di sopravvivenza soggettiva ma anche
come punto di crescita della dignità umana, del concorso di tutti a una
maggiore capacità non solo operativa ma cultural.
Sono
tanti i motivi che ci riportano, non tanto paradossalmente in questa
fase di “arretramento storico”, al momento storico nel quale attraverso
l’aggregazione sociale realizzata attraverso la comunanza del lavoro e
la consapevolezza della lotta contro lo sfruttamento si realizzò la
presenza politica del movimento operaio.
E’
questo il motivo di fondo per il quale dobbiamo ritrovare la strada per
stare dalla parte del lavoro ridefinendo anche idee e modelli di
progresso.
“Per il lavoro” nella nostra progettualità alternativa a quella dei padroni.
Siamo
di fronte quindi a un bivio, a una contraddizione storica al riguardo
della quale emerge la necessità di una sintesi, di una riunificazione di
senso e di proposizione per obiettivi di riscatto in forme cui la
riflessione collettiva non è ancora arrivata a determinare.
Il
punto di partenza per riprendere il cammino perduto potrebbe essere
allora quello di essere consapevoli di tutto ciò, delle difficoltà
inedite che ci troviamo di fronte e del tentativo in atto di ricacciare
il lavoro esclusivamente dentro la categoria dello sfruttamento
indiscriminato costringendo a un ritorno alla condizione di “plebe”: una
folla indistinta in una condizione di ricerca di mera sopravvivenza
materiale.
In
tempi di ricerca sul lasciato marxiano forse si potrebbe affermare che
la ripresa del Marx del lavoro come “essenza dell’uomo” potrebbe
rappresentare, a questo punto, l’appoggio ideale non meramente teorico,
al fine di recuperare una visione pienamente politica dell’oggi e del
futuro.
Sull’idea
del lavoro come “essenza dell’uomo” si può far riprendere la lotta per
il riscatto sociale su tutti i fronti, ponendoci al riparo dall’angoscia
di questa presunta avvilente“modernità”.
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