Dossier 50 Anni dalla strage di piazza Fontana, l'inizio della strategia della tensione

Fu di Stato  dossier da Il manifesto


Ho letto e riletto le parole dette dal senatore Taviani in un occasionale raduno democristiano, che confessano la verità sulla prima delle stragi che hanno insanguinato questo paese: la strage di Milano, capostipite di una lunga stagione di politica criminale, prima in ordine di tempo e seconda, dopo quella di Bologna, per crudeltà e numero di vittime.
Una verità tranquilla. Quella della bomba fu messa «con la copertura dei servizi segreti». Ci fu un errore di calcolo, non c’era l’intenzione di uccidere tutta quella gente. Ma quella bomba fu messa e fatta esplodere «con la copertura dei servizi segreti», organi dello Stato e strumenti del potere politico.
Dunque ora lo si può dire con semplicità, prendendo il caffè: quella fu una strage di Stato. Quei ragazzi estremisti che allora scandivano nelle piazze questo estremo giudizio avevano ragione. Loro non erano credibili, ma il senatore Taviani è un responsabile massimo della politica italiana e lui può essere creduto.
Questa è la nostra Patria, questi sono i suoi capi, questa la nostra storia recente. Per vent’anni ogni italiano è stato preso in giro da processi contro fantasmi, un anarchico vivo e un altro morto. Ora che la memoria è spenta, e il crimine ha premiato chi l’ha commesso, i colpevoli e i beneficiari possono anche farsi riconoscere. Tra qualche anno, in qualche festa amichevole, un altro capo di governo in pensione ci dirà che anche nella stazione di Bologna, come nella banca di Milano, la bomba fu messa «con la copertura dei servizi segreti».
E chi ha «coperto» i servizi segreti? Gli assassini sono tra noi, anzi sopra di noi, e lo dicono. Non è di per sé sorprendente e neppure nuovo, sebbene nessun altro paese dell’occidente europeo possa vantare qualcosa di simile. È sorprendente la tranquillità con cui ora ci vien detto. Possono farlo perché con l’arte del delitto politico, usando quelle bombe o similmente il brigatismo, hanno piegato e trasformato la democrazia italiana in un altro regime, nutrito di un moderno fascismo, nel quale siamo così immersi che non riusciamo a comprenderlo e a definirlo. E perciò alla loro tranquillità fa riscontro la nostra.
Mostruoso è una brutta parola, ma non so definire altrimenti tutto questo. Mostruoso ma secondario e irrilevante, e mostruoso per questo più ancora che per il sangue versato. Oggi nessuno si sognerebbe di fare su questo una campagna elettorale. Hanno vinto e sotto accusa non sono loro, siamo noi, è la sinistra italiana e quanto di essa bene o male resiste.
(il manifesto 28/ 2/ ’92)

Un’azione paramilitare contro civili inermi

Senza giustizia, Piazza Fontana 1969-2019. L’attentato terroristico realizzato dai neofascisti di Ordine Nuovo rappresentò il culmine di una serie continuata di azioni eversive
Cosa sono stati la strage compiuta nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana a Milano e gli attentati di Roma, all’Altare della Patria ed al Museo del Risorgimento, del 12 dicembre 1969 che causarono nelle due principali città del Paese 17 morti e 106 feriti?
La strage di Piazza Fontana fu un’operazione paramilitare contro civili inermi in tempo di pace, non rivendicata dagli esecutori materiali (i gruppi neofascisti sostenuti, protetti e difesi dagli apparati di forza dello Stato), realizzata con l’intento di attribuire la responsabilità all’avversario politico (la sinistra politica e sindacale, parlamentare ed extraparlamentare) e finalizzata a provocare una reazione psicologica ad esso contraria nell’opinione pubblica ed una involuzione di natura autoritaria del nostro sistema costituzionale.
In un Paese come l’Italia in cui in ogni legislatura viene istituito un organo parlamentare chiamato «commissione stragi», a rappresentare visivamente la misura della drammaticità e dell’anomalia della storia della nostra Repubblica, l’annuncio del Presidente della Camera Roberto Fico di voler procedere ad una desecretazione totale delle carte e dei documenti relativi agli anni del terrorismo non può che essere accolto con favore, considerate le ancora numerose mancanze documentali ed il sostanziale silenzio mantenuto per decenni dalle classi dirigenti dell’epoca.
Tuttavia a distanza di cinquant’anni si possono affermare delle verità solide su quei fatti, nonostante manchino sul piano storico ancora molta documentazione e su quello giuridico delle sentenze più ampie rispetto ai neofascisti (oltre ai reo confessi o a quelli individuati ma non più perseguibili) e agli uomini dello Stato che ne consentirono la fuga all’estero e l’impunità.
I gruppi anarchici accusati dalla polizia del massacro erano in realtà del tutto estranei ai fatti. Innocente era il ferroviere Giuseppe Pinelli, illegalmente trattenuto e interrogato in Questura a Milano e morto dopo un «volo» dal quarto piano dell’ufficio del commissario Luigi Calabresi.
L’attentato terroristico realizzato dal gruppo neofascista di Ordine Nuovo rappresentò il culmine di una serie continuata di azioni eversive finalizzate al raggiungimento di tre obiettivi fondamentali: trasferire dal terreno politico-sociale a quello paramilitare i termini del conflitto sviluppatosi in Italia nel biennio 1968-1969; uccidere civili inermi per realizzare un’operazione psicologica di massa di segno regressivo nella società e nelle istituzioni; determinare la rottura dell’ordine pubblico attraverso la pratica del terrorismo disarticolando così il processo di ridefinizione dei rapporti tra Stato e società secondo lo sviluppo storico fisiologico della democrazia conflittuale.
L’anomalia italiana rispetto al resto d’Europa si configurò proprio nel rapporto torsivo tra ingresso della democrazia conflittuale nella sfera pubblica e risposta armata di organismi politici, paramilitari e militari. Milioni di ore di sciopero, manifestazioni, blocchi stradali, occupazioni di università e scuole, scioperi a «gatto selvaggio» si ebbero in tutti i Paesi europei a capitalismo maturo e democrazia liberale. In nessuno di questi Stati lo stragismo si manifestò come fenomeno di lunga durata e di opposizione diretta a tali processi.
Il 1969 rappresenta una data periodizzante della Repubblica in quanto evidenzia la divaricazione tra le istanze di trasformazione, non sempre per forza positive e naturalmente caratterizzate da limiti e contraddizioni, e le tendenze restauratrici, inclini ad ovviare alle insufficienze del tempo storico presente con l’ancoraggio al passato.
Nel frangente compreso tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta si esprime la sincronia del ’69 operaio con il ’68 studentesco; si chiude la fase espansiva del ciclo storico capitalista del ventennio post-bellico; si esaurisce la formula politica del centro-sinistra nel quadro di un sistema dei partiti bloccato e senza alternative di governo; si determinano le caratteristiche dell’anomalia italiana del decennio ’68-’78; si esplicita un diretto intervento paramilitare contro civili inermi, la strage di Piazza Fontana, che non solo si colloca all’interno del conflitto sociale di un Paese democratico ma apre una «stagione delle stragi» non limitata al fatto episodico.
L’Italia di fine anni Sessanta venne attraversata da una crisi che investì in modo diretto almeno quattro ambiti strategici della struttura istituzionale: le Forze Armate (scosse da scandali e aspri conflitti interni); il sistema politico (caratterizzato dalla rottura dell’unità della dc, dalla scissione socialista e dalla radiazione del gruppo de «Il Manifesto» dal Pci); l’ordine pubblico (rotto nel corso di tutto il 1969 dalla pratica stragista); le relazioni industriali. Quest’ultimo ambito fu caratterizzato dal più grande movimento unitario di lotta operaia e sindacale della storia della Repubblica che ebbe la forza di avviare il processo di transizione dal modello di «integrazione negativa» della classe lavoratrice, che era stato alla base del cosiddetto «boom economico», all’approdo in una più compiuta democrazia industriale sancito dall’approvazione dello Statuto dei lavoratori come espressione complessiva dei contenuti dell’«autunno caldo».
Una riforma sociale e politica di valore storico che «si proponeva di proteggere – ricorda un volume curato da Stefano Rodotà – non più il «chiunque» dei codici, non più il «cittadino», ma un ceto sociale determinato, la classe lavoratrice, contro un altro, quella dei datori di lavoro, dei capitalisti. Una legge, dunque, che spazzava via l’ideologia della neutralità».
Attraversando rotture e continuità; torsioni e trasformazioni; crisi e modernità, è questo il Paese che giunge al 12 dicembre 1969, giorno in cui il Senato approva in prima lettura lo Statuto dei lavoratori mentre a Milano si prepara la strage di Piazza Fontana. Il Giano bifronte della storia nazionale.

Il giudice Salvini: Preparavano lo stato di emergenza

Senza giustizia, Piazza Fontana 1969-2019. I rapporti tra i nostri servizi segreti e Ordine Nuovo non furono occasionali ma organici, secondo un reciproco scambio di favori contro il nemico comune, che erano il Pci e le sinistre
uido Salvini è l’uomo che più di tutti ha cercato nei tribunali la verità sulla strage di piazza Fontana. Negli anni ’70 faceva parte di un collettivo chiamato Movimento Socialista Libertario: una frangia ridottissima della sinistra extraparlamentare milanese del periodo («In sostanza eravamo in due: io e Michele Serra», dice oggi con un sorriso) di estrazione cattolica e radicale. Tempo dopo, a metà anni ‘90, da giudice istruttore del tribunale di Milano, Salvini avrebbe rimesso le mani sulla bomba di piazza Fontana, arrivando a processare i neofascisti Maggi e Zorzi, condannati all’ergastolo in primo grado e poi assolti in Appello e in Cassazione. La maledizione di piazza Fontana è l’ultima opera del magistrato, da poche settimane in libreria per Chiarelettere. Una storia amara di depistaggi e misteri, ma i segreti rivelati non sono più segreti e, a distanza di mezzo secolo dalla bomba, la verità è qualcosa in più della somma dei dubbi e dei sospetti accumulati.
Lei dice che la strage ormai non è più un mistero. Perché?
Anche se la sentenza della Cassazione del 2005 ha assolto Maggi e Zorzi, ha confermato che responsabili della strage siano state le cellule venete di Ordine Nuovo, come avevano già visto negli anni ‘70 i magistrati Stiz e Calogero.
C’è stato però il ribaltamento totale del verdetto in Appello.
È un problema di valutazione delle prove raccolte. Le sentenze vanno rispettate ma ritengo discutibile la logica della frammentazione degli indizi, ognuno dei quali viene valutato singolarmente e non concatenato a quelli successivi. Un modo di procedere che finisce per sottovalutare contesto storico e moventi, portando inevitabilmente all’assoluzione degli imputati per insufficienza di prove.
Era già avvenuto con Freda e Ventura.
Sì, anche in quel caso nel processo di appello. Comunque la sentenza del 2005 ha stabilito esplicitamente la responsabilità di Digilio, prescritto perché aveva collaborato, e la colpevolezza di Freda e Ventura, che non erano però più processabili in quanto definitivamente assolti nel precedente processo: il risultato sul piano giuridico è stato parziale ma su quello storico si è fatta invece definitiva chiarezza.
Cosa doveva succedere dopo quel 12 dicembre?
Quel giorno ci furono tra Milano e Roma cinque attentati. Due giorni dopo avrebbe dovuto tenersi a Roma un grande raduno della destra, manifestazione che venne sospesa all’ultimo momento dal ministero dell’Interno. Ci sarebbero stati gravi incidenti che avrebbero reso inevitabile la dichiarazione dello stato di emergenza. Probabilmente fu anche il fatto che l’attentato alla Bnl di Roma fallì a non dare la forza sufficiente agli eversori per far precipitare la situazione.
Piazza Fontana e le altre stragi chiamano in causa la connivenza di parte dei nostri apparati di sicurezza.I rapporti tra i nostri servizi e Ordine Nuovo non furono occasionali ma organici, secondo un reciproco scambio di favori contro il nemico comune, costituito dal Pci e dalle sinistre con la tutela poi dell’inconfessabile segreto su quanto avvenuto. In molti casi uomini delle istituzioni ostacolarono il lavoro dei magistrati, fabbricando false piste, occultando reperti, agevolando l’espatrio di ricercati. Non si trattò di singole mele marce.
Il «lasciamoli fare» era la logica dei vertici della politica di allora?
Sono esistiti livelli di collusione della politica sottili, una disponibilità a beneficiare di una strategia terroristica che avrebbe giovato al rafforzamento degli assetti di potere e allontanato il pericolo comunista. Qualche bomba dimostrativa come avvenuto nei mesi precedenti, non certo una strage come quella di piazza Fontana. È probabile che Ordine Nuovo andò oltre quelli che erano i taciti accordi.
A livello umano che impressione ha avuto degli esponenti di Ordine Nuovo?
Erano autentici fanatici imbevuti di un’ideologia mitica, spesso esoterica e comunque del tutto antistorica. I loro piani, in un paese con una democrazia radicata come l’Italia, non potevano che fallire.
Nella sua indagine ha avuto degli ostacoli?
Sì, e dall’interno del mio mondo purtroppo. Se il Csm non mi avesse reso le indagini e la vita impossibili con la minaccia del trasferimento d’ufficio e con i procedimenti disciplinari, finiti nel nulla ma durati sei anni, non sarebbero andate perse quelle energie che servivano per raggiungere l’intera verità. Chi ha voluto quegli attacchi contro di me porta addosso una grande responsabilità.

Gli ultimi duecento metri del percorso della bomba

Senza giustizia, Piazza Fontana 1969-2019. Sappiamo moltissimo, quasi tutto, di questa tragica vicenda. Non ci si lasci ingannare dalle sentenze. Quel giorno l’ordigno seguì questa strada...
Si è soliti dire che persista più di un mistero riguardo alla strage del 12 dicembre 1969 in piazza Fontana. Nulla di più falso. Sappiamo moltissimo, quasi tutto, di questa tragica vicenda. Non ci si lasci ingannare dalle sentenze. Nelle attività di indagine sono state acclarate le ragioni che ispirarono la strage in funzione di un salto di qualità nel percorso della «strategia della tensione» e messo a fuoco il complesso dei mandanti, tra vertici militari e ambienti Nato, complici ampi settori delle classi dirigenti e imprenditoriali, tentati da avventure eversive. Sono anche stati individuati gli esecutori materiali, ovvero gli uomini di Ordine nuovo, con il riconoscimento delle responsabilità personali di Franco Freda, Giovanni Ventura e Carlo Digilio.
Sulla base delle carte che si sono accumulate, interrogatori, confessioni, incrocio di indizi, sarebbe addirittura possibile ricostruire il percorso compiuto dalla bomba collocata all’interno della Banca nazionale dell’agricoltura. Ne riassumiamo i passaggi fondamentali, omettendo doverosamente alcuni nomi che pur sono emersi. Sono mancati, infatti, quei riscontri inoppugnabili che altrimenti avrebbero determinato dei rinvii a giudizio. Personaggi comunque ad oggi non tutti più processabili, dato il venir meno delle loro esistenze negli anni precedenti le indagini.
Dalla Germania in Italia
Sulla provenienza dell’esplosivo siamo in possesso di due versioni diverse. La prima è stata fornita dal generale Gianadelio Maletti, ex capo dell’Ufficio D del Sid, che in più occasioni (sia nel 2001 a Milano nel corso del dibattimento di primo grado nell’ultimo processo e sia in una lunga intervista nel 2010) ha sostenuto che fosse «esplosivo di tipo militare» e provenisse da una base Nato della Germania, poi transitato con un tir dal Brennero per essere alla fine consegnato a una «cellula» di neofascisti del Veneto. Questa versione è stata in parte ribadita dall’allora vice presidente del Consiglio Paolo Emilio Taviani che nelle sue memorie scrisse testualmente «un americano portò dell’esplosivo dalla Germania in Italia».
La seconda versione la fornì Carlo Digilio, l’armiere di Ordine nuovo, che parlò di un esplosivo prodotto in Jugoslavia, il Vitezit 30. Come noto un foglio di istruzioni per l’utilizzo di questo esplosivo fu rinvenuto nell’abitazione di Giovanni Ventura.
Da Mestre a Milano
L’esplosivo che sarà alla fine rinchiuso in una cassetta metallica Juwel (poco meno di tre chili), trasportato da due esponenti di Ordine nuovo nel bagagliaio di una vecchia 1100, venne periziato qualche giorno prima del 12 dicembre in un luogo tranquillo ai bordi di un canale a Mestre dall’esperto in armi della stessa organizzazione, Carlo Digilio. Il timore era che potesse deflagrare lungo il tragitto verso Milano. L’esperto li rassicurò a patto che venisse utilizzata un’altra vettura, con sospensioni adeguate. I due gli fecero presente che già si era pensato a una Mercedes di proprietà di un camerata di Padova. Una figura nota nell’ambiente, protagonista di azioni squadriste, con anche un ruolo pubblico nella federazione del maggior partito cittadino di estrema destra. La notte prima del viaggio, destinazione Milano, la Mercedes, di color verde bottiglia, venne posteggiata sotto la casa di un ancor più noto dirigente ordinovista.
Le bombe vengono assemblate
L’esplosivo doveva essere consegnato in un luogo sicuro, un ufficio in corso Vittorio Emanuele II con un’insegna posta all’esterno che all’imbrunire si accendeva di un color rosso. Qui la bomba, meglio le bombe (una era destinata alla Banca Commerciale Italiana di piazza Della Scala), vennero assemblate. I temporizzatori che dovevano innescarle, acquistati da una ditta di Bologna, davano un margine di un’ora. Gli uffici in questione offrivano un riparo sicuro, bisognava percorrere solo qualche centinaio di metri per raggiungere i posti prescelti per gli attentati. Nel caso di un qualche intoppo o contrattempo si poteva tornare velocemente sui propri passi e disinnescare gli ordigni. Un’operazione di questo genere non poteva essere certo affidata all’improvvisazione. Non si poteva neanche lontanamente pensare alla toilette di un bar o l’interno di una vettura posteggiata. Troppo rischioso.
Da corso Vittorio alla Banca
La bomba per la Banca Nazionale dell’Agricoltura venne portata a mano. Chi la trasportava non era solo. Uno di loro se ne sarebbe in seguito anche vantato in una festicciola tra camerati e con l’armiere del gruppo.
Provenienti da corso Vittorio Emanuele II, attraversata la Galleria del Corso, in piazza Beccaria, al posteggio dei Taxi, uno degli attentatori metterà in opera una delle più grossolane operazioni di depistaggio per incastrare gli anarchici. Rassomigliante a Pietro Valpreda farà di tutto per farsi riconoscere dal tassista Cornelio Rolandi. Si farà portare per 252 metri fino in via Santa Tecla, distante 117 metri a piedi dalla banca, per poi tornare al taxi, percorrendo in totale 234 metri a piedi, per non farne 135, ovvero la distanza da piazza Beccaria all’ingresso della Banca Nazionale dell’Agricoltura. Si farà infine scaricare in via Albricci, dopo soli 600 metri, a soli 465 metri dalla banca.
Forse sappiamo tutto, anche cosa accadde negli ultimi duecento metri o poco più. Sarebbe possibile anche fare i nomi, ma siamo costretti a far finta di non saperli e a raccontare le mosse e gli atti di costoro come in un film o in un romanzo.

Piazza Fontana, la cronologia



12 dicembre 1969 Alle 16 e 37 esplode una bomba nella Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana, a Milano: alla fine si conteranno17 morti e 88 feriti;
15 dicembre 1969 Fermato subito dopo la strage, l’anarchico Giuseppe Pinelli precipita dal quarto piano della questura di Milano, della quale il commissario Calabresi è vice capo dell’Ufficio politico;
16 dicembre 1969 Vengono arrestati gli anarchici Pietro Valpreda e Mario Merlino (che poi si scoprirà essere un neofascista infiltrato);
23 febbraio 1972 A Roma si apre il processo sulla Strage. Successivamente verrà trasferito a Milano e poi, per motivi di ordine pubblico, a Catanzaro;
3 marzo 1972 Vengono arrestati i neofascisti Franco Freda, Giovanni Ventura e Pino Rauti. Le indagini evidenziano legami tra l’estrema destra eversiva e i servizi segreti italiani;
7 maggio 1972 Elezioni anticipate. Il neofascista Rauti viene eletto in parlamento con l’Msi. Il manifesto candida Valpreda, che non viene eletto;
17 maggio 1972 Il commissario Luigi Calabresi viene ucciso a Milano;
29 dicembre 1972 Valpreda viene scarcerato; 27 ottobre 1975 Il giudice D’Ambrosio chiude le indagini sulla morte di Pinelli. Tutti prosciolti gli agenti della polizia. La caduta dalla finestra della questura sarebbe avvenuta per un «malore attivo»;
18 gennaio 1977  Si apre a Catanzaro il processo per la Strage. Andreotti depone sul coinvolgimento dei servizi segreti e, davanti ai giudici, dice per trentatré volte «non ricordo»;
4 ottobre 1978 La polizia accerta la scomparsa di Freda; 16 gennaio 1979 Ventura fugge all’estero;
23 febbraio 1979 Sentenza di Catanzaro: ergastolo per Freda, Ventura e per l’altro neofascista Giannettini; 4 anni e 6 mesi per Valpreda e Merlino, condannati per associazione a delinquere. Pene minori per alcuni membri dei servizi segreti;
12 agosto 1979 A Buenos Aires viene arrestato Ventura; 23 agosto 1979 Freda viene arrestato in Costa Rica; 22 maggio 1980 A Catanzaro comincia il processo d’Appello;
20 marzo 1981 Sentenza del processo d’appello: tutti assolti per la strage di Piazza Fontana. Freda e Ventura condannati a 15 anni per le bombe di Padova e Milano del 1969. Confermate le condanne per Valpreda e Merlino;
19 giugno 1982 La Cassazione annulla la sentenza d’Appello di Catanzaro; 23 dicembre 1982 Nell’ambito di una nuova indagine sulla strage, la procura di Catanzaro ordina l’arresto del neofascista Stefano Delle Chiaie; 13 dicembre 1984 a Bari comincia il nuovo processo d’Appello;
1 agosto 1985 Tutti assolti nel processo di Bari. Condanne per reati minori per esponenti dei servizi segreti; 27 marzo 1987 A Caracas viene arrestato Delle Chiaie; 26 ottobre 1987 A Catanzaro comincia un nuovo processo. Imputati i neofascisti Massimiliano Fachini e Delle Chiaie; 20 febbraio 1989 Tutti assolti a Catanzaro. La procura aveva chiesto l’ergastolo per gli imputati; il 5 luglio 1991 La Cassazione conferma la sentenza di Catanzaro;
Primavera/estate 1995 Il giudice Guido Salvini indaga sul mondo della destra neofascistia A luglio Delfo Zorzi e Carlo Maria Maggi vengono indagati per la strage; 14 giugno 1997 Ordine di carcerazione per Zorzi e Maggi;
8 giugno 1999 Viene disposto il processo per Zorzi, Maggi e altri neofascisti; 30 giugno 2001 Zorzi e Maggi vengono condannati all’ergastolo;
6 luglio 2002 A 69 anni muore Pietro Valpreda;
12 marzo 2004 La Corte d’Appello di Milano assolve Zorzi, Maggi e gli altri neofascisti; 3 maggio 2005 La Cassazione conferma la sentenza. I familiari delle vittime della strage dovranno pagare le spese processuali.

«Pinelli, una storia». Elogio di una vita libera e irregolare

Scaffale. Nel libro di Paolo Pasi per Elèuthera, il ferroviere anarchico sa che si può scartare dai percorsi obbligati e orientarsi in altra direzione. Per questo si sente vicino ai giovani che cercano uno stile di vita «disallineato». È un militante che sfrutta la libertà di viaggiare in treno per estendere la sua rete di relazioni, che si spende instancabilmente per i compagni incarcerati e, allo stesso tempo, a casa condivide i compiti con la moglie
Era il 1962 quando Luciano Bianciardi raccontò il lato oscuro «di un fenomeno che i più chiamano miracoloso, scordando, pare, che i miracoli veri sono quando si moltiplicano pani e pesci e pile di vino, e la gente mangia gratis tutta insieme, e beve». La Milano del «miracolo balordo» di Bianciardi – dove crescono il Pil i consumi e i bisogni purché tutti «siano pronti a scarpinare» e dove la vita, per molti, è agra – è la stessa di Giuseppe Pinelli. La racconta in modo delicato il libro di Paolo Pasi, Pinelli. Una storia, (Elèuthera, pp. 184, euro 16), pubblicato a 50 anni esatti dalla morte del «ferroviere anarchico» come il saggio di Paolo Brogi, Pinelli. L’innocente che cadde giù (Castelvecchi, pp. 160, euro 15). Se la ricerca di Brogi è un ulteriore tassello nella ricerca della verità sul caso Pinelli, il libro di Pasi si pone un obiettivo diverso: «ricostruire la vita di un uomo di cui si è scritto molto, ma solo per raccontare le circostanze della sua morte».
DALLE PAGINE emergono le istantanee della Milano in cui Pinelli si spostava con il suo inseparabile motorino Benelli rosso fra la casa popolare di via Preneste 2, lo scalo ferroviario di Porta Garibaldi, il circolo anarchico Ponte della Ghisolfa, la Casa dello studente e del lavoratore in piazza Fontana, proprio di fronte alla banca teatro dell’attentato del 12 dicembre. È in questo spazio-tempo vivo e cupo che Pinelli contamina lo slancio giovanile antifascista (staffetta partigiana con la brigata Franco) e la formazione anarchica, acquisita attraverso il lavoro e l’incontro con lavoratori libertari, con la curiosità verso le controculture che sorgevano alla fine degli anni ’60: i beat di Brera e della «Cava», i provos antimilitaristi e anticlericali.
Pinelli è un anarchico pacifista, ha studiato l’esperanto in cerca di un alfabeto cosmopolita, all’amico in carcere scrive: «l’anarchismo non è violenza, è ragionamento e responsabilità». È un lettore autodidatta, ha la quinta elementare ma Fernanda Pivano, che lo conosce, lo definisce «troppo lungimirante». È un proletario con la passione per la letteratura e la musica, che non crede nella separazione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, ma rispetta il suo mestiere di caposquadra manovratore perché consente autogestione, responsabilità e solidarietà, al contrario della claustrofobica alienazione della fabbrica.
QUELLA CUI PASI cerca di restituire «il respiro del racconto» è soprattutto una vita condotta nel segno della «deviazione»: Pinelli, il ferroviere, sa che si può scartare dai percorsi obbligati e orientarsi in altra direzione. Per questo si sente vicino ai giovani che cercano uno stile di vita «disallineato». È un militante che sfrutta la libertà di viaggiare in treno per estendere la sua rete di relazioni, che si spende instancabilmente per i compagni incarcerati e, allo stesso tempo, a casa condivide i compiti con la moglie.
Ecco, un libro come questo ci aiuta forse a capire – e oggi ne abbiamo bisogno – che la caduta di Pinelli dal quarto piano della questura di Milano, la notte del 15 dicembre 1969, non solo «ha oscurato il sogno di una rivoluzione umanista e libertaria», ma ha spento una vita irregolare, refrattaria ai dogmi e all’ordine. Una vita preziosa perché rara.







Commenti