La Cop 25 è fallita, l’Europa «può salvare il salvabile»

riceviamo e pubblichiamo  dal giga, gruppo autogestito di insegnanti di geografia, una interessante rassegna stampa sull'argomento

Il clima non è buono. L’Ue fa parte della High Ambition Coalition ma Climate Action Network alza la posta
Su quali alleanze di paesi potrà contare il clima e da quali dovrà guardarsi, nell’anno del giudizio 2020? L’accordo finale della Cop 25, Chile-Madrid Time for Action, non indica certo un’azione climatica all’altezza dell’urgenza.
IL MINIMO SINDACALE per la Cop era l’«ambizione» ad aumentare gli impegni nazionali di taglio delle emissioni (Ndc) rispetto a quelli insufficienti già depositati dall’accordo di Parigi (2015) a oggi. A nome dell’Alleanza Aosis (44 piccoli Stati insulari costieri), il Belize ha tirato molte orecchie criticando un’inaccettabile bozza: «Non vediamo la richiesta imperativa di rivedere al rialzo gli impegni di riduzione entro il 2020». Molto decisi anche Bhutan e Nepal, a nome dei 47 membri del gruppo Least Developed Countries (Paesi meno sviluppati) nel chiedere coraggio per «esigere nel 2020 degli Ndc corrispondenti a quanto ci dice la scienza»; «altrimenti si gioca a continui rinvii», ha ammonito il Bangladesh.
CE L’HANNO FATTA: il documento della Cop25, pur non dando indicazioni inequivocabili alle parti sugli obiettivi da centrare il prossimo anno, stabilisce che nel 2020 i paesi indichino – in modo obbligatorio – di quanto aumenteranno gli impegni per tagliare i gas serra. Figura della bambina modello per l’Unione europea, inadempiente fino al passato recente ma adesso forte dell’annunciato piano di riduzione delle emissioni e transizione energetica.
L’UE FA PARTE DELLA HIGH Ambition Coalition (comprendente vari Stati isola, Argentina, Canada, Colombia, Costa Rica, Etiopia, Messico, Nuova Zelanda fra gli altri) che si è impegnata a migliorare i piani climatici nazionali entro i primi mesi del 2020. Ma la rete Climate Action Network chiede alla ricca Europa ben di più, cominciando dalla riduzione del 65% in coerenza con l’Emission Gap Report dell’Onu. E sono un’ottantina (undici europei) i i paesi che hanno dichiarato di voler rafforzare i propri Ndc entro il 2020.
SEMPRE IN MATERIA di impegni, il gruppo degli emergenti Cina, India, Brasile e Sudafrica ha fatto sapere di aver «già proposto il massimo possibile in termini di ambizione climatica, ben oltre le responsabilità storiche»; non sono pronti a nuovi Ndc. Del resto, secondo il rapporto 2019 di Climate Transparency, India e Cina sarebbero in linea con i propri impegni. Questi due paesi, inoltre, hanno più volte denunciato alla Cop 25 l’«elefante nella stanza»: il mancato rispetto da parte dei paesi sviluppati degli obblighi pre-2020 derivanti dal Protocollo di Kyoto.
UN ALTRO PILASTRO delle discussioni è stata la revisione del sistema Wim (Warsaw International Mechanism for Loss & Damage): gli aiuti a favore delle comunità e dei paesi colpiti da disastri climatici. I paesi più ricchi non hanno preso impegni chiari (almeno 50 miliardi di dollari entro il 2022), anche se lo Stato di Palestina (per il G77+ Cina), ha ricordato ai distratti che «l’Accordo di Parigi impegna i paesi sviluppati a fornire aiuto finanziario e tecnologico». E gli Aosis hanno ricordato: «E’ dal 1991 che chiediamo un meccanismo globale relativo alle perdite e ai danni».
NESSUNA NOVITÀ POSITIVA rispetto alla richiesta di maggiore attenzione per l’adattamento da parte dei paesi in via di sviluppo e per la finanza a lungo termine, temi che, per Nicaragua, Argentina e altri «una Cop sul clima non può tenere a margine». L’Africa Group guidato dall’Egitto ha insistito fino alla fine su finanza climatica e trasferimento di tecnologia. La Malaysia come parte dei Like Minded Developing Countries on Climate Change (con Cuba, Vietnam, Bangaldesh, Cina, Venezuela ecc.) ha sottolineato che il meccanismo L&D va distinto dal sostegno ai progetti di mitigazione e adattamento perché «i nostri paesi oltre a essere i più danneggiati e vulnerabili non sono responsabili storicamente».
NIENTE DI FATTO (rinvio ai negoziati a Bonn nel 2020) sull’articolo 6 degli Accordi di Parigi: avrebbe dovuto indicare le regole di un nuovo meccanismo quadro per il futuro mercato globale del carbonio. In realtà, secondo molti osservatori, questo non dovrebbe essere parte dell’accordo di Parigi: perché non è uno strumento per la decarbonizzazione ma serve solo a ridurne il prezzo per i paesi inquinatori.
COME SPIEGA UNA valutazione della rete Italian Climate Network, a «schierarsi contro misure solide rispetto al futuro mercato globale del carbonio e a favore di un sistema debole o eufemisticamente più flessibile, i soliti «poteri fossili» (Arabia Saudita e Gruppo Arabo, Stati Uniti) da un anno sostenuti vigorosamente dal Brasile e dall’Australia. Un ulteriore punto di frizione è stata la possibilità di riconoscere sotto il nuovo regime dell’Accordo di Parigi i crediti derivanti da progetti di riduzioni delle emissioni approvati nell’ambito del Protocollo di Kyoto. Una possibilità che avrebbe indebolito i già insufficienti impegni presi nell’ambito dell’Accordo di Parigi».
IN REALTÀ L’AFRICA GROUP ha sostenuto che «per i paesi africani, la finanza per l’adattamento e la mitigazione è essenziale e l’articolo 6 può esserne un veicolo; ma le regole dei mercati di carbonio devono essere precise e evitare fallimenti come i crediti pre-Parigi». Il Costarica ha invitato al «massimo livello di salvaguardia dell’integrità ambientale e dei diritti umani e delle comunità locali, come chiedono i principi di San José». Il Belize ha ammonito che «l’ambizione è comunque quella di ridurre le emissioni, andando oltre la somma zero».
SCENA DA DAVIDE E GOLIA quando il rappresentante di Tuvalu ha denunciato gli Stati uniti: si stanno ritirando dall’Accordo di Parigi eppure hanno contestato la proposta di includere nella decisione finale il riconoscimento dell’insufficienza degli impegni e hanno a più riprese sabotato la discussione. Un’opera da «crimine contro l’umanità».
ANCHE IL BRASILE ne ha fatte di tutti i colori: si è opposto all’uso del termine «emergenza climatica» e alla menzione dei diritti umani in riferimento all’articolo 6.4, ha cercato invano di bloccare l’inclusione nel documento finale dell’importanza del territorio, parlando nientemeno che di «linea rossa».
PUNTI POSITIVI: il Messico ha insistito, appoggiato da Argentina, Corea, Costarica e paesi occidentali, sulla necessità di includere nel documento il Piano d’azione quinquennale sul genere. Importante anche l’inserimento di riferimenti ai saperi indigeni ed ai diritti dell’umanità in alcuni punti dei testi finali e il sostegno al partenariato di Marrakesh sulle azioni climatiche non statali.

La coalizione fossile che ha sabotato l’accordo di Parigi

La Conferenza delle Parti cilena, ospitata a Madrid, doveva discutere per lo più argomenti tecnici legati al «mercato delle emissioni di Carbonio» previsto all’art. 6 degli Accordi e, dunque, condividere regole per consentire una «cooperazione climatica» trasparente.
La discussione sull’aumento degli obiettivi di riduzione delle emissioni, infatti, era ed è prevista – secondo il meccanismo di revisione quinquennale deciso nel 2015 a Parigi – l’anno prossimo. Il «fallimento« della Cop25 sta nel non essere riusciti a chiudere gli aspetti tecnici che, come in ogni negoziato di questa complessità, sono decisivi: il diavolo sta sempre nei dettagli. Regole non chiare per le transazioni nel commercio delle emissioni, infatti, avrebbero significato elevati rischi di doppi conteggi o di misure non sufficientemente contabilizzate, un «riciclaggio« di crediti già emessi sotto il Protocollo di Kyoto che avrebbero – queste le stime – annacquato del 25% ogni ambizione decisa sul piano formale e, dunque, reso carta straccia gli Accordi di Parigi.
La «coalizione fossile» ha cercato, attraverso la discussione sugli aspetti tecnici, di sabotare e di fatto affondare gli Accordi di Parigi. A guidare un vero e proprio sabotaggio del negoziato, sull’articolo 6, è stato il Brasile Paese guidato da quel Bolsonaro promuovendo la distruzione dell’Amazzonia e dei popoli che ci vivono.
Cosa rimane dunque dopo il fallimento della Cop a Madrid? Sul tema «tecnico» – l’articolo 6 – un gruppo di Paesi, di cui fanno parte i Paesi europei, i paesi più vulnerabili come le piccole isole, ha stabilito i principi inderogabili per regolare il mercato delle emissioni di Co2, che verranno ripresi il prossimo giugno a Bonn.
L’Accordo di Parigi ne esce assai malconcio certo, ma è ancora in piedi. E il 2020 diventa dunque l’anno cruciale per vincere le resistenze del fronte fossile: la partita finale si gioca tra Bonn in giugno, la «pre-Cop dei giovani» in Italia e quella a Glasgow di fine anno.
In assenza di iniziative dei grandi emettitori, sarà difficile vedere progressi sul piano politico. La «coalizione fossile» vede oltre al Brasile, l’Australia, Stati Uniti, Russia, Arabia Saudita, India e Cina.
Va ricordato che l’Accordo di Parigi fu preceduto da diverse iniziative tra le quali un accordo di cooperazione tecnologica tra Stati Uniti e Cina, promosso dall’amministrazione Obama.
Oggi, come sappiamo, il contesto internazionale è profondamente cambiato: la “guerra dei dazi” promossa da Trump sta di fatto ridisegnando – o cercando di ridisegnare – gli equilibri e, in un certo senso, a ridefinire la globalizzazione o ciò che ne rimane. Mentre per affrontare la questione globale più grave – il riscaldamento del pianeta – serve un alto grado di cooperazione internazionale.
A breve l’unica possibilità, in attesa di sapere come andranno le prossime elezioni americane, sembra quella di stabilire un asse di cooperazione tra l’Ue e la Cina: il prossimo settembre è previsto a Lipsia in Germania un vertice in vista della Cop26 di Glasgow. Si tratterà di capire se la spinta alla trasformazione industriale delineata – in modo, però, claudicante – dal Green New Deal europeo e la revisione degli obiettivi di riduzione delle emissioni, da definire prima dell’estate, potranno essere la base anche di accordi tecnologici con la Cina. Che però, assieme a Brasile, India e Sudafrica, chiede che i Paesi sviluppati mantengano la promessa di finanziare i Paesi più poveri. E, in effetti, sarebbe ora di mantenere quella promessa.

Bomba climatica e bomba demografica


La ristrutturazione tardo capitalista dell’ultimo quarantennio ha portato all’esasperazione la logica utilitaria e contingente del capitalismo. Il risultato è l’affermazione incontrastata di un neo-dispotismo.
Il risultato è un sistema che, da un lato, si dispiega in maniera pressoché incontrastata, affermando una sorta di neo-dispotismo. Dall’altro ha aggravato squilibri ecologici, demografici e sociali al punto da rendere non più sostenibile il suo stesso modo di funzionare.
Milioni di persone, soprattutto giovani, di tutto il mondo manifestano la necessità vitale di sostituire completamente e in pochi anni le fonti energetiche fossili perché senza un’urgente e drastica inversione di tendenza il riscaldamento del pianeta raggiungerà nel 2050 la soglia fatale di 2 gradi. A quel punto, il 35% della superficie terrestre dove vive il 55% della popolazione mondiale sarebbe investita da fenomeni metereologici esiziali. Due miliardi di persone patirebbero una crisi idrica irreversibile. La crisi agricola costringerebbe almeno un miliardo di persone a migrare. Le condizioni di sussistenza della specie sarebbero assai diverse da quelle finora conosciute.
Sempre più evidenti sono anche gli effetti dello squilibrio demografico. Da un lato assistiamo ad un crescente invecchiamento della popolazione e calo della natalità specie negli Usa ed Europa occidentale. Nei paesi dell’Unione europea, entro 12 anni, una persona troppo giovane o anziana per lavorare graverebbe su 1,5 in età lavorativa, determinando una situazione insostenibile. A tale calo demografico corrisponde un andamento opposto in molti paesi del Sud del mondo, vale a dire in quelli che non hanno ancora spezzato il circolo vizioso tra maggiore povertà e maggiore popolazione. Ne consegue che la straordinaria crescita della popolazione mondiale, prevista in un aumento di 2,3 miliardi nel 2050, riguarderà per il 97,2% i paesi meno sviluppati, una vera e propria “bomba” demografica.
Contemporaneamente aumenta la distanza tra i paesi più ricchi e quelli più poveri, mentre crescono le diseguaglianze all’interno sia dei primi che dei secondi. Se paragoniamo il Pil pro capite a parità di potere d’acquisto e, per un confronto più rigoroso, consideriamo solo i paesi con più di 30 milioni di abitanti, riscontriamo che negli 8 paesi più ricchi il Pil pro capite va dai 39.675 dollari in Italia ai 62.869 negli Usa; mentre negli 8 paesi più poveri esso varia da 824 dollari nella Repubblica Democratica del Congo a 6.851 in Angola. Quanto alle diseguaglianze interne, il 10% più ricco della popolazione possiede il 47% della ricchezza nell’America del Nord e il 55% nell’Africa sub-sahariana.
Le dimensioni limite di questi ed altri squilibri impongono un mutamento radicale, un nuovo paradigma, un’ardua sfida che richiede un corrispondente rinnovamento delle forme di conflittualità sociale ed espressione politica. Forme che possono maturare solo interpretando le istanze più profonde dei grandi movimenti collettivi che, non a caso oggi e in diverse parti del mondo, sono portatori di valori, concezioni sociali e modelli di cultura affatto reattivi al vecchio paradigma e agli squilibri ultimativi che ne indicano la crisi.

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