il lungo riscatto delle periferie.
Le recenti prese di posizione di esponenti di governo e forze parlamentari, orientate a un inasprimento delle misure di controllo, sgombero e regolamentazione degli spazi occupati, hanno riacceso una frattura che attraversa il Paese da decenni: da una parte chi considera i centri sociali un’anomalia da normalizzare, dall’altra chi li interpreta come l’ultimo avamposto di un welfare comunitario non istituzionale, soprattutto nelle periferie urbane, dove l’associazionismo culturale e l’intervento pubblico faticano a costruire alternative strutturate. Questa contrapposizione si inserisce in un clima più ampio di compressione degli spazi di dissenso, di sospetto verso le forme di mutualismo sociale non mediate dallo Stato, e di crescente difficoltà per gli enti locali nel governare processi che spesso subiscono più che indirizzare, delegando la gestione della domanda sociale alle realtà associative o ai movimenti stessi.
La polemica di questi giorni non riguarda dunque soltanto l’occupazione di immobili o il tema dell’ordine pubblico, ma investe il nodo politico della produzione culturale dal basso, della legittimità degli spazi autogestiti, e del rapporto tra giovani e istituzioni, soprattutto nel Mezzogiorno e negli hinterland metropolitani, dove centri sociali, oratori, associazioni culturali e spazi ibridi svolgono funzioni che non dovrebbero essere supplenza, ma cooperazione riconosciuta. In questo contesto, l’analisi sul ruolo dell’ente locale e dell’associazionismo culturale nel tempo libero diventa una lente essenziale per comprendere il vero terreno dello scontro: non l’occupazione, ma l’abbandono istituzionale che l’ha resa necessaria, non la subcultura come deviazione, ma la cultura come riscatto sociale che cerca casa dove la politica non ha saputo costruirla.
A Milano lo sgombero del Leoncavallo, storico centro sociale di via Watteau, ha segnato una delle svolte più evidenti delle politiche nazionali contro le occupazioni urbane. Fondato nel 1994 e presidio significativo della cultura antagonista, anticapitalista e anarchica milanese per oltre trent’anni, il centro è stato liberato dalle forze dell’ordine su ordine giudiziario lo scorso agosto, ponendo fine a una presenza che molti consideravano patrimonio culturale locale. Lo sfratto, rinviato più volte nel corso degli anni, è stato giustificato dal Ministro dell’Interno come parte di una linea di “zero tolleranza verso le occupazioni illegali”, sostenuta anche dal governo centrale come affermazione della legalità sul territorio. Al contempo, la giunta comunale di Milano ha approvato linee guida per individuare una nuova sede in cui la comunità del Leoncavallo possa eventualmente riprendere le proprie attività, segno delle differenze di visione tra istituzioni locali e governo su come gestire la produzione culturale dal basso.
Mentre, a Torino la chiusura del centro sociale Askatasuna ha rappresentato un altro capitolo delle tensioni recenti tra movimenti sociali e apparati statali. Occupato dal 1996 e radicato nell’ambiente anarchico e anticapitalista, Askatasuna è stato sgomberato e sigillato dalle forze dell’ordine in un’operazione collegata anche alle indagini su attacchi a sedi istituzionali e grandi strutture pubbliche, secondo quanto riferito dalle autorità. L’intervento è stato presentato dalle istituzioni come risposta necessaria alle violazioni di un accordo con il Comune e all’occupazione di spazi non autorizzati, mentre per i sostenitori del centro si tratta di un’azione repressiva che colpisce un luogo storicamente impegnato in pratiche di solidarietà e azione collettiva.
Associazionismo culturale e ruolo dell’ente locale
L’interesse generale, a livello nazionale, per le politiche culturali si è intensificato negli ultimi anni, spinto dall’intreccio di fenomeni sociali, economici e istituzionali che hanno trasformato tanto la produzione quanto il consumo di cultura, ridefinendone gli attori e le modalità di accesso. Le mutazioni del sistema produttivo, insieme all’introduzione sempre più pervasiva delle tecnologie avanzate, non hanno soltanto innovato i processi economici, ma hanno inciso profondamente sulle forme dell’agire umano e collettivo, modificando i linguaggi, i tempi e le relazioni sociali attraverso cui la cultura viene oggi vissuta.
Parallelamente, la crescita del livello di istruzione ha determinato un’espansione dei consumi culturali, mentre il prolungamento dei percorsi formativi e la contrazione del tempo di lavoro hanno contribuito a ridefinire il ciclo di vita delle nuove generazioni. Ne deriva un’estensione del tempo libero, spesso coincidente con un’adolescenza prolungata, che trova nella fruizione culturale e intellettuale uno spazio privilegiato di espressione, ma non sempre un terreno di reale partecipazione sociale. Questa evoluzione, pur significativa, si scontra con un limite strutturale: il campo culturale, rispetto ad altri ambiti delle scienze sociali e delle politiche pubbliche, soffre ancora di una insufficiente elaborazione teorica e di un ritardo nelle ricerche empiriche, indispensabili per comprendere le dinamiche profonde della produzione culturale, le sue forme organizzative, le sue ricadute sociali e il suo impatto nei territori.
L’offerta culturale dei grandi comuni – da Roma a Torino, da Milano a Venezia – ha registrato un dinamismo crescente, con investimenti significativi destinati non solo alla tutela dei tradizionali presidi del sapere, come musei, biblioteche e archivi storici, ma anche alla sperimentazione di nuovi modelli di intervento pubblico, capaci di intercettare bisogni emergenti e inedite pratiche culturali. Un processo favorito, in parte, dal trasferimento di competenze alle Regioni, che ha permesso alle amministrazioni locali più strutturate di innovare i servizi, ampliare l’accesso e agire come motore culturale per aree sempre più estese del Paese.
Allo stesso tempo, il ruolo del settore privato – grandi imprese, fondazioni bancarie, istituti di credito – ha superato la logica della sponsorizzazione episodica, traducendosi in interventi diretti nel restauro, nella conservazione e nella valorizzazione dei beni culturali, assumendo di fatto una funzione pubblica, spesso sussidiaria o compensativa rispetto alle carenze della pianificazione istituzionale. Questo fenomeno, se da un lato dimostra che la cultura è ormai considerata un investimento strategico, dall’altro rivela quanto il tessuto associativo e culturale di base resti spesso privo di un reale coordinamento pubblico, soprattutto nei contesti periferici e di hinterland, dove l’ente locale si limita a intervenire su richiesta, tramite sovvenzioni erogate a domanda, senza un disegno programmatico strutturale che valorizzi la cultura come processo continuativo di crescita sociale.
In questi territori si osserva una contraddizione evidente: mentre la domanda culturale cresce e si fa sempre più qualificata, soprattutto tra i giovani, le istituzioni pubbliche non sembrano in grado di elaborare una risposta di ampio respiro, che non sia solo redistribuzione di contributi, ma costruzione di reti, luoghi di cooperazione, strumenti di mediazione generazionale e infrastrutture sociali per la produzione culturale. La conseguenza è duplice: da una parte si registra uno spreco sistematico di potenzialità intellettuali, dall’altra il tempo libero assume spesso un valore compensativo o evasivo, privo di sbocchi reali nella sfera della partecipazione pubblica, aggravando il senso di frustrazione individuale e collettiva che accompagna l’accesso al sapere quando esso non trova riconoscimento, inclusione sociale o prospettive lavorative.
La questione giovanile rappresenta oggi il banco di prova più significativo. Per i giovani, il tema del tempo libero, della formazione e della cultura non è più separabile dal nodo dell’inserimento nel processo lavorativo: la precarietà, la disoccupazione, l’assenza di opportunità producono un rifiuto della vita pubblica, una crisi di partecipazione civica e una distanza crescente dagli apparati istituzionali. Per questo la richiesta culturale giovanile non è soltanto più forte: è più drammatica, perché chiede un riconoscimento che non sia paternalistico né generazionale, ma politico e sociale.
In questo quadro, incrementare il contrasto tra mondo adulto e nuove generazioni sarebbe un errore strategico e culturale. L’ente locale dovrebbe invece assumere una funzione di mediazione attiva, favorendo il confronto tra visioni del mondo differenti, evitando forme di ghettizzazione o isolamento delle iniziative giovanili, e promuovendo pratiche che valorizzino l’associazionismo come elemento di coesione sociale, vettore di scambio interpersonale, strumento di crescita interiore e non di mera esibizione estetica o spettacolarizzazione. L’associazionismo culturale non deve riprodurre la logica consumistica dei mass media, orientata all’audience e al dato quantitativo, ma recuperare il valore originario e militante della cultura come esercizio delle facoltà interiori dell’individuo, che si realizza nella relazione, nel confronto e nella trasformazione dell’ambiente di vita.
La cultura, dal latino colere, non è soltanto accumulo di conoscenze o affinamento estetico, ma pratica di coltivazione delle capacità umane, strumento di emancipazione sociale e trasformazione del rapporto dell’uomo con il suo ambiente. Per questo non può ridursi a consumo, a spettacolo o a iniziativa isolata, ma deve tornare a essere processo condiviso, programma politico territoriale, pratica comunitaria di riscatto sociale e motore di cambiamento: un terreno in cui pubblico e privato cooperino secondo un disegno globale e coordinato, capace di liberare energie già presenti nelle città e nelle province, e di restituire alla cultura la sua funzione primaria, che non è intrattenere, ma includere, formare ed emancipare.
Nota: a Roma, tra i principali luoghi che oggi si trovano al centro della controversia sugli spazi occupati utilizzati come centri culturali c’è Spin Time, un edificio occupato nel quartiere Esquilino sin dal 2013 da parte della rete *Action per il diritto all’abitare*. Originariamente sede dell’Inpdap, lo stabile di dieci piani è diventato uno spazio polifunzionale in cui vivono oltre 150 famiglie, con molti bambini, e si svolgono attività di doposcuola, iniziative culturali e progetti sociali aperti alla città. La sua presenza è stata più volte al centro del dibattito nazionale, soprattutto dopo l’intervento del cardinale Konrad Krajewski nel 2019 per riattaccare la corrente elettrica allo stabile, un gesto simbolico di disobbedienza civile che ha marcato l’attenzione pubblica sul tema del diritto all’abitare e della solidarietà attiva. Oggi Spin Time è indicato tra le occupazioni che il Viminale potrebbe voler affrontare dopo il periodo natalizi, con tensioni tra governo, istituzioni locali e reti associative che lo difendono come “polo di concreta solidarietà e innovazione sociale” capace di rispondere ai bisogni del territorio.
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