La sinistra italiana tra trasformazioni e frammentazioni

 

La sinistra italiana tra trasformazioni e frammentazioni: cultura d’opposizione, realtà attuale e confronto critico.

di Laura Tussi


La storia della sinistra italiana degli ultimi decenni è segnata da trasformazioni profonde, che hanno prodotto non solo mutamenti di nomenclature e alleanze, ma anche lacerazioni interne e la progressiva difficoltà di costruire un progetto politico unitario e stabile. Un punto di riferimento simbolico e concreto di questa evoluzione è la “svolta della Bolognina”, annunciata il 12 novembre 1989 da Achille Occhetto, allora segretario del Partito Comunista Italiano (PCI). Quella decisione, che anticipava la trasformazione del PCI in Partito Democratico della Sinistra (PDS), aprì una stagione di riforme interne e ridefinizioni identitarie che condussero allo scioglimento del PCI nel 1991 e alla nascita di nuove formazioni politiche.

Gli ideali utopici e l’insegnamento del passato. Tanti errori nel passaggio dal PCI alla politica contemporanea

Quel passaggio storico ebbe conseguenze disastrose per la sinistra e le lotte per i diritti nel nostro paese. La scelta riformista non trovò unanimità: una parte significativa della dirigenza e dei militanti, tra cui Armando Cossutta e Fausto Bertinotti, si oppose alla trasformazione e contribuì alla nascita del Partito della Rifondazione Comunista, avviando una proliferazione di soggetti alternativi nel campo progressista. Nei decenni successivi, scissioni e ricomposizioni hanno continuato a costellare la rappresentanza della sinistra italiana: dal PDS ai Democratici di Sinistra (DS), fino alla nascita del moderno Partito Democratico e alle successive divisioni interne che hanno coinvolto formazioni come Articolo Uno e altre soggettività politiche.

A distanza di trent’anni dalla svolta della Bolognina, la prospettiva di un soggetto progressista unitario, in grado di guidare la trasformazione sociale e politica del Paese, appare sostituita da una pluralità di forze spesso incapaci di aggregarsi attorno a un’alternativa chiara e condivisa. In questo quadro, emergono sconfitte elettorali, difficoltà di coesione, e una crescente frammentazione culturale e politica.

Un tempo di divisioni e sconfitte

Davvero ci si chiede se la cultura d’opposizione abbia esaurito la propria funzione e se la realtà attuale non richieda più alcun confronto critico. Gli ideali utopici del passato hanno invece ancora molto da trasmettere: non come norme rigide e infallibili, ma come orientamenti capaci di ispirare una società più giusta e umana, fondata sulla dignità della persona e sulla convivenza tra i popoli.

Il Novecento dei movimenti. Il movimento delle lotte operaie e la parità dei diritti

Un fenomeno storico si impone per la sua rilevanza: i gruppi sociali esclusi dal dominio politico si sono organizzati per conquistarne l’accesso e, per la prima volta, la protesta ha prodotto istituzioni finalizzate alla rivendicazione dei diritti e alla partecipazione al potere degli esclusi e dei sottomessi.

Nelle nazioni industrializzate, quelli che oggi consideriamo diritti consolidati – il suffragio universale, la libertà di costituire partiti e sindacati, il diritto all’istruzione, le ferie pagate – sono il risultato delle rivendicazioni storiche delle organizzazioni dei lavoratori.

L’idea che le differenze razziali, culturali, religiose e di genere non debbano determinare gerarchie di diritti è il frutto di lunghe lotte emancipative. Anche in questo caso, il legame tra movimenti anticoloniali e ispirazione comunista risulta evidente: la dignità dei popoli non è stata concessa dalle élite, ma conquistata dal basso con forza politica e determinazione storica.

La differenziazione, autorealizzazione individuale e solidale

La diversificazione culturale viene spesso percepita come un’eredità irrisolta del passato. In realtà, la differenziazione può e deve agire come elemento positivo di equilibrio: non per alimentare conflitti, ma per fondare patti di pace, riconoscimento reciproco e convivenza condivisa.
La differenziazione, se portata a maturazione, conduce all’individuazione: la cura di sé non come narcisismo, ma come riconoscimento della singolarità irripetibile della persona, come emerge nelle pratiche culturali, sociali e spirituali che danno spazio al soggetto.

Il capitalismo globale

Il capitalismo globale si definisce innanzitutto come mercificazione universale: i rapporti tra individui e con la natura avvengono prevalentemente in forma di scambio di mercato. Non solo i prodotti del lavoro, ma le stesse forze produttive dipendono dai movimenti delle merci su scala mondiale. La specializzazione imposta dal mercato ha frammentato i processi lavorativi e la mondializzazione dei capitali ha ridotto la capacità degli Stati di influenzare le dinamiche economiche e sociali con politiche pubbliche autonome.

Al quadro del capitalismo globale vanno aggiunti lo sfruttamento planetario della natura, la trasformazione delle differenze sessuali in neutralità formalizzata, che tende comunque a riprodurre figure dominanti, e la progressiva riduzione delle culture a un unico mercato dell’informazione e dello spettacolo.

Le tendenze della società capitalistica

Per comprendere le costanti del capitalismo moderno, possiamo richiamare una variazione interpretativa sui temi di Max Weber e Karl Marx. Il paradigma del lavoro per il lavoro e della specializzazione frammentata produce un “sincretismo biografico”: l’identità personale e professionale fatica a ricomporsi in un’epoca di esperienze discontinue, tempo spezzato e relazioni competitive.

Una delle forme più interessanti di resistenza contemporanea nasce dal basso, tra le pieghe del territorio e della vita quotidiana. Qui, nei luoghi dove si vive e si lavora, si possono costruire alternative reali: non proclamate, ma praticate; non edificate dall’alto, ma generate dalla densità delle relazioni sociali, dal volontariato, dalle reti comunitarie e dalla prossimità con gli ultimi.

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