Elezioni e Democrazia

 

Elezioni e Democrazia*

Giorgio Gallo

 

Pochi giorni fa abbiamo assistito a una sorta di crisi diplomatica fra Italia e Turchia. Nel corso di una conferenza stampa, rispondendo a una domanda, il nostro premier Mario Draghi ha affermato che il presidente turco Erdogan è un dittatore. Immediata la risposta da parte del governo turco: Erdogan è stato eletto dal popolo, mentre Draghi è un “nominato”, privo quindi di legittimità democratica. Ritorna l’equivalenza fra democrazia ed elezioni: lo svolgimento di elezioni garantisce la democrazia, e, corrispondentemente, la democrazia richiede elezioni. Ma è proprio così? Oggi non ne siamo più tanto sicuri. Che la democrazia sia in crisi è ormai un luogo comune, soprattutto dopo la crescita dei movimenti populisti. Gli esempi di paesi in cui elezioni periodiche convivono con regimi autocratici e illiberali sono diversi. “Contro le elezioni, perché votare non è più democratico” è il titolo di un libro pubblicato nel nostro paese nel 2015. Un libro che si apre con una citazione da Il contratto sociale di Rousseau: “Il popolo inglese crede di essere libero, ma si sbaglia di grosso; lo è soltanto durante l’elezione dei membri del parlamento; appena questi sono eletti, esso torna schiavo, non è più niente”.

È un argomento su cui sarebbe interessante riflettere in modo più articolato. Ma qui voglio solo prenderne lo spunto per parlare delle ultime lezioni in Israele. Elezioni, le quarte in due anni, che più che un esempio di vitalità democratica appaiono come una sorta di artificio per mantenere al potere un uomo, Bibi Netanyahu, e, soprattutto, per tenerlo al riparo da pesanti guai giudiziari.

Si sono svolte il 23 marzo e di nuovo, come le tre precedenti, non sembra siano state risolutive. Mentre scrivo Netanyahu sta ancora svolgendo trattative con i partiti di destra e destra estrema, cioè quasi tutti i partiti israeliani, in quello che in Italia chiameremmo un “mercato delle vacche”, per formare un governo. L’ultima notizia riguarda l’offerta a GideonSa’ar, un transfuga del Likud, il partito di Netanyahu, che ora guida la nuova formazione New Hope, che ha ottenuto in queste elezioni 6 seggi. Netanyahu ha offerto a Sa’ar di formare un governo in cui i due ruoterebbero nella carica di primo ministro. È vero che Saar nella campagna elettorale si era impegnato a non partecipare mai più ad un governo guidato da Netanyahu. Sembra però che sia molto tentato di accettare l’offerta, anche perché, spiega, nella campagna elettorale, “aveva solo promesso di non sedersi "sotto" Netanyahu e non "accanto" a lui”.

È probabile che le trattative non porteranno a un governo stabile e che sarà necessario il ricorso a una ulteriore tornata elettorale. Tuttavia queste elezioni hanno comunque portato a cambiamenti del panorama politico, cambiamenti che potrebbero avere conseguenze nel futuro prossimo. In particolare ci sembra di potere individuare quattro fatti nuovi che potrebbero essere rilevanti: i) un sia pur limitato riconoscimento del ruolo politico degli arabi israeliani e delle loro rappresentanze; ii) la rottura dell’unità politica degli arabi, iii) un avvicinamento tra destre religiose dei due campi; iv) il ritorno in parlamento dei razzisti e suprematisti ebraici del vecchio partito di Kahane.

Gli arabi, malgrado siano cittadini israeliani, sono sempre stati visti, soprattutto, ma non solo, dalle destre, come sostanzialmente estranei alla società israeliana e fonte di preoccupazione e timore. Nelle elezioni nazionali del 2015, la mattina stessa delle elezioni, per spingere i suoi sostenitori ad andare alle urne, sui social, Netanyahu aveva lanciato l’allarme: “gli arabi stanno affollando le urne in massa”. Il voto degli arabi era visto come un pericolo! Di questo nell’ultima campagna elettorale Netanyahu si è scusato, impegnandosi a maggiori investimenti nelle comunità arabe, in particolare per quel che riguarda la sicurezza. Questo perché uno dei maggiori problemi che la popolazione araba sente, è quello della violenza e della criminalità. In un incontro elettorale nella città araba di Nazareth, si è presentato, secondo un costume arabo, come “Abu Yair”, il padre di Yair (il suo primogenito), e queste sono state le parole con cui ha concluso l’incontro: "Se ebrei e arabi possono ballare insieme per le strade di Dubai, possono anche ballare insieme nello Stato di Israele. Oggi inizia una nuova era - un'era di prosperità, integrazione e sicurezza". Il riferimento è al “trumpiano” patto di Abramo fra Israele e gli stati del Golfo. Non sappiamo quanti elettori arabi si siano lasciati convincere, me è presumibile che diversi di essi, soprattutto nelle comunità più marginalizzate, quali ad esempio le comunità beduine del Negev, abbiano deciso di votare per il Likud. Un esponente di una di queste comunità, che nelle precedenti elezioni era stato un sostenitore attivo della Joint list, la coalizione dei partiti arabi, alla domanda di un giornalista se non fosse meglio votare per la sinistra piuttosto che per Netanyahu, risponde: “Al contrario. Forse ora, con il nostro sostegno, possiamo guadagnare influenza dall'interno. È chiaro che il Likud sarà al governo, quindi cos'è meglio? Essere dentro il gioco o fuori? Noi vogliamo essereinfluenti”. E in effetti, dopo le elezioni, nelle trattative ancora in corso, si vede un ruolo più rilevante dei partiti arabi, che finora, per una sorta di “conventio ad excludendum”, non erano accettati come partner in maggioranze parlamentari, neppure sotto forma di un sostegno esterno. Oggi invece i partiti arabi stanno svolgendo un ruolo attivo nelle trattative per la formazione di un governo, al punto che Mansour Abbas, leader della UnitedArab List, un partito islamico conservatore, con i suoi 4 seggi potrebbe far pendere la bilancia a favore della destra di Netanyahu oppure del centro destra di Yair Lapid. Non a caso in più articoli sui giornali israeliani è stato definito “potenziale kingmaker”. In un intervento molto seguito dalle televisioni israeliane ha aperto agli ebrei: “Ciò che abbiamo in comune è più grande di ciò che ci separa. Se non impariamo ora a ridurre l'ignoranza e a rovesciare il razzismo, lasceremo alla prossima generazione una realtà complessa, pericolosa e impossibile”.

Nel momento in cui scrivo, ancora non sono chiari gli effetti concreti della scelta di Abbas. La sua disponibilità ad appoggiare dall’esterno un governo guidato da Netanyahu si è scontrata con il veto di BezalelSmotrich, il leader del ReligiousZionism party, partito di estrema destra razzista. Senza l’apporto di Abbas, la coalizione dei partiti di destra guidata da Netanyahu si fermerebbe a 59 seggi, mentre ne servono almeno 61 per avere la maggioranza nella Knesset. È pertanto possibile che anche questa volta non si riesca a superare situazione di stallo in cui versa la democrazia israeliana e che si debba tornare a votare.

Anche se è ormai improbabile che Abbas possa entrare, anche solo sotto forma di appoggio esterno, in una coalizione di governo, certamente si è rotto un tabù. Abbas ha trattato, a pieno diritto, sia con Netanyahu che con Yair Lapid del partito di centro-destra YeshAtid, e leader del blocco anti Netanyahu. Questo è certamente un cambiamento positivo, anche se con aspetti preoccupanti.

Mansour Abbas è stato però anche all’origine di un altro cambiamento, o piccolo terremoto, nel panorama politico arabo. Nel 2015 i partiti arabi si erano uniti nella cosiddettaJoint List, una coalizione composta da tre partiti arabi (il nazionalista Balad, il ramo meridionale del Movimento Islamico, e il Movimento Arabo per il Rinnovamento, o Ta’al) e da Hadash, un partito comunista ebreo-arabo. La Joint List ha rappresentato innanzitutto lo strumento per una più ampia e più efficace partecipazione politica della minoranza araba in Israele. Per un po’ è sembrato che questa speranza potesse realizzarsi. Grazie anche a una maggiore partecipazione al voto da parte degli arabi, dai 13 seggi ottenuti nel 2015, alla sua prima uscita, la Joint list è arrivata ai 15 del 2019, il 12,5% della Knesset. Allora la Joint List si era detta disponibile a sostenere un governo guidato da Gantz, il leader del blocco anti Netanyahu. Purtroppo ancora una volta la preclusione nei riguardi degli arabi ha vinto e Gantz ha rifiutato l’offerta. Ha invece accettato di partecipare a un governo guidato da Netanyahu, tradendo tutte le sue promesse elettorali e spaccando il suo stesso partito. Ma la Joint Listha rappresentato anche una nuova possibilità per una sinistra israeliana ormai marginalizzata. Non a caso la rivista israeliana +972 Magazine, il 4 marzo 2015, dava la notizia della nascita della coalizione sono il titolo “The Joint List: L'ultima speranza della sinistra israeliana?”[1]. Ancora oggi la Joint List continua a essere vista come l’unica alternativa possibile per il voto degli ebrei della sinistra non sionista e contraria all’occupazione, come recita il titolo di un articolo di Gideon Levi, pubblicato il 10 febbraio scorso su Haaretz[2], articolo che si chiude con le parole Quindi ci rimane Tibi. Tibi o Bibi. La scelta dovrebbe essere abbastanza chiara” (Tibi è il leader arabo della Joint List e Bibi è Netanyahu).

Purtroppo questa unità è stata rotta in occasione di queste elezioni proprio dalla componente islamica conservatrice di Mansour Abbas, che è uscita dalla coalizione formando la UnitedArab List. Il risultato è stato che si è ridotta la partecipazione araba al voto e i seggi complessivi ottenuti dai partiti arabi sono passati da 15 a 10. Si è trattato della rottura di una politica basata sulla cittadinanza a favore di una politica basata su una appartenenza tribale. In questo La UnitedArab List è certamente più affine ai partiti israeliani religiosi ultraortodossi che agli altri partiti arabi. Hanno in comune la religione come elemento identitario, una concezione patriarcale della società, e la disponibilità a qualsiasi alleanza in funzione di ciò che si riesce a ottenere per il proprio gruppo.

Come osserva AmeerFakhoury, esponente della comunità di Nevé Shalom, “L’entrata di Abbas in questo gioco è più o meno l'accettazione della logica delle tribù in Israele. Per la prima volta, gli arabi palestinesi diventano chiaramente una tribù, completando l'ordine delle tribù come denotato dal presidente ReuvenRivlin. Non è più una politica nazionale che divide la mappa in maggioranza e minoranza, ma una politica tribale tra quattro tribù, con i palestinesi che dicono: 'Ok, non abbiamo niente in comune, ognuno si occupa della propria comunità', e sono costretti ad accettare la perdita del principio di cittadinanza”.[3][4]

Ultimo elemento di, sia pur limitata, discontinuità che risulta da queste elezioni è la presenza nel nuovo parlamento di una coalizione, chiamata ReligiousZionism, di razzisti e suprematisti ebraici, fra i quali Itamar Ben-Gvir, un discepolo del defunto Rabbino Meir Kahane, il cui partito Kach è stato messo fuori legge negli anni '90 ed è considerato un'organizzazione terroristica dalla maggior parte degli stati occidentali. A questo ha corrisposto una recrudescenza delle manifestazioni di odio anti arabo. Ad esempio, il 22 aprile, per lunghe ore, centinaia di adolescenti arrabbiati hanno imperversato nel centro di Gerusalemme, attaccando passanti e giornalisti, lanciando pietre e bottiglie contro gli agenti di polizia e cantando “Morte agli arabi” e altri slogan razzisti. Una manifestazione promossa dall’organizzazione razzista Lehava, e incitata proprio dalla propaganda dei politici del partito del ReligiousZionism.[5] Un ulteriore spostamento a destra della politica israeliana, in cui la presenza della sinistra è ormai quasi unicamente simbolica!



* Questo articolo apparirà nel n.132, giugno 2021, di In Dialogo, Notiziario della Rete Radiè Resch.

 

[1] https://www.972mag.com/the-joint-list-the-israeli-lefts-last-hope/

[2] https://www.haaretz.com/opinion/.premium-the-only-alternative-is-the-joint-list-the-rest-are-pale-imitations-of-bibi-1.9529244

[3]Moran Sharir,“There is an attempt to change the Jewish monopoly on power in Israel. Intervista a AmeerFakhoury”, Haaretz, Apr. 19, 2021

[4]Si fa qui riferimento a un importante discorso del presidente israeliano Rivlin, in cui si riconosce come la democrazia israeliana non sia più fondata su un comune senso di appartenenza/cittadinanza, ma piuttosto articolata in quattro tribù, comparabili come dimensione:la secolare, la religiosa nazionalista, l’ultra-ortodossa ("Haredi"), el'araba. (https://www.idc.ac.il/he/research/ips/documents/publication/4/fourtribessteiner2016c(1).pdf)

[5] https://www.haaretz.com/opinion/editorial/.premium-racism-and-incitement-in-jerusalem-1.9743492

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