Liberalsocialismo o berlusconismo di ritorno?

Nell’epoca della post-verità e del depistaggio linguistico-cognitivo Draghi può diventare “liberalsocialista”. Ma come è potuta correre questa leggenda? Nel 2015 l’allora presidente della BCE, assediato dalle critiche dei tedeschi per la sua politica di bassi tassi di interesse, rilasciò una lunga intervista a Die Zeit, che si trova in rete in inglese. Rievocando la sua giovinezza, in modo peraltro a tratti toccante, a proposito del periodo del ’68 raccontava di apprezzarne alcune rivendicazioni, ma con un evidente distacco rispetto allo stile di vita e ai valori della contestazione, precisando che a quei tempi si definiva un “liberalsocialista”. Draghi intendeva di fatto marcare la differenza rispetto al radicalismo dei suoi coetanei senza per questo aprire un fossato insuperabile con lo spirito di quel tempo. Si trattava dunque di una notazione autobiografica che riguardava quasi un cinquantennio prima e in nessun modo i nostri giorni.
Il liberal-socialismo e il socialismo liberale (Rosselli, Calogero, Capitini) sono dottrine che maturano nella prima metà del Novecento nella convinzione che l’attuazione del socialismo non avrebbe dovuto sacrificare i principi del costituzionalismo liberale e democratico, così come il liberalismo non avrebbe dovuto appiattirsi sul liberismo, e che a tali condizioni una reciproca confluenza fra le due prospettive non era solo possibile ma auspicabile e necessaria. In particolare per i liberalsocialisti andava imboccata una terza via fra capitalismo e socialismo sovietico, che prevedesse accanto a fette di libero mercato (soprattutto le imprese piccole e commerciali), un’importante economia di stato per i beni meno adatti ad essere prodotti con criterio di profitto, una tassazione fortemente progressiva e un ampio settore organizzato in forme autogestite e cooperative. Nel primo “Manifesto del liberalsocialismo” (1940), di cui principale estensore fu Guido Calogero (che avrebbe negli anni successivi sviluppato un’interessante critica del primato della competitività), si scriveva fra l’altro a proposito del nuovo stato, che si auspicava sorgesse dopo il fascismo: “non potrà non interferire con le colossali posizioni monopolistiche (…) In taluni casi potrà essere sufficiente l’assunzione del controllo da parte dello stato, in cui potrà occorrere l’esproprio. Quando non si tratti di istituti di vitale interesse sociale (grandi banche, società di assicurazioni, grandi imprese minerarie, ecc.) che sono già virtualmente statizzati, limitandosi in essi l’iniziativa privata al riscuotere le cedole azionarie o peggio al postulare l’appoggio dello stato, le imprese potranno di nuovo essere affidate alla responsabilità privata, e si favorirà e promuoverà in tutti i modi la costituzione, a tale scopo, di cooperative tra impiegati e gli operai di esse”. E ancora: “Ma bisognerà anche (…) adottare quelle energiche riforme del regime fiscale e del regime successorio, che d’altronde rispondono già di per sé stesse ad una stringente esigenza di giustizia sociale. Ad un regime di tassazione sostanzialmente proporzionale, andrà sostituito un regime sostanzialmente progressivo (cioè in cui aumenti proporzionalmente ai reddito anche l’aliquota dell’imposta)”. E “tale progressione dell’aliquota dovrà naturalmente essere più severa per quanto riguarda le tasse di successione; addirittura, a questo proposito, potrà essere stabilito un limite di valore, oltre il quale la successione dell’eccedenza spetti senz’altro alla comunità. In ambedue i campi, fiscale e successorio, la concreta commisurazione delle riforme dovrà, s’intende, essere compiuta tenendo presenti entrambe le opposte esigenze, di far tanto più contribuire alla ricchezza privata quanto più essa risulti esorbitante rispetto all’effettivo lavoro con cui è stata acquistata, e di non reprimere l’impulso al guadagno individuale e all’interessamento economico per la propria famiglia”.
Il libro più completo sul pensiero del socialismo liberale è quello di Serge Audier, Le socialisme libéral, La Découverte, Paris 2006, II ediz. 2014, di cui da qualche anno esiste anche una traduzione italiana, a cura di Francesco Postorino, uscita nel 2018 per la Mimesis. Il libro per la prima volta ricostruisce i vari filoni del socialismo liberale dalla Francia all’Inghilterra agli USA, dando particolare risalto al versante italiano. Ma una componente saliente del lavoro di Audier è stata proprio quella di cercare di dimostrare come questa tradizione non aveva a che fare con la Terza via di Tony Blair che aveva influenzato i vari partiti socialisti europei. Da queste pagine emergeva ad esempio con chiarezza che l’enfasi sulla società civile non è mai indirizzata, in tale filiera ideologica, contro la politica e lo stato, ma auspicata proprio per contrastare le derive anti-democratiche del mercato, diversamente dagli ultimi decenni, in cui società civile e decentramento federalistico vengono promossi spesso per sottrarre il mercato al controllo democratico, all’insegna di formule politiche populistiche e anti-politiche. Audier mostra come nella tradizione politico-culturale in questione, insomma, socialismo sia il sostantivo e liberale l’aggettivo.
Un esempio eclatante di distorsione della storia è come la figura di Rosselli sia stata recuperata ad un certo momento dal nuovismo di Veltroni all’interno dell’operazione di fuoriuscita dell’ex PCI da suoi insediamenti ideologici e sociali tradizionali, inserendosi nel solco di una consolidata tradizione esegetica che ne trasformava le critiche al comunismo coevo in anticomunismo. Già il cugino Alessandro Levi, a proposito di Rosselli, aveva parlato di “neo-marxismo da lui propugnato” (A. Levi, Ricordi dei fratelli Rosselli (1947), CET, Firenze 2002, p. 132). Audier mette in rilievo come il pensiero di Rosselli non possa essere assimilato all’anti-marxismo. Senza qui indugiare sulle note critiche del “fiorentino” a Marx, non si può infatti dimenticare il suo apprezzamento per l’analisi sociale del filosofo di Treviri, oltre che, aggiungiamo noi, il suo progressivo spostamento politico a sinistra man mano che l’Europa borghese, nel corso degli anni trenta, virava in senso reazionario.
Con il new labour di Tony Blair si è invece imposta l’idea di una Terza via non più tra capitalismo e socialismo, ma fra neo-liberismo e socialdemocrazia. Importata anche in Italia, essa fu proiettata all’indietro alla ricerca di padri nobili al di fuori della tradizione marxista, sfigurando, appunto, l’eredità socialista liberale e deprivandola di tutta la sua carica critica. Il liberal-socialismo diventava cioè un liberalismo capitalistico mitigato dall’attenzione per il sociale, secondo una visione che è propria, piuttosto, dei democratici americani, estranei per questo alla sinistra europea.
Come è noto infatti, non solo il new labour e i suoi alleati continentali sono stati del tutto sussunti dal neo-capitalismo del nuovo millennio, ma se si continua a leggere l’intervista di Draghi a Die Zeit, a cui si accennava all’inizio, non emerge alcun tipo di riferimento a elementi politico-economici e politico-sociali di tipo socialista, bensì un architrave di pensiero del tutto inserita in una visione del mondo neo-liberista. Draghi propone il duro lavoro come programma di vita dei giovani e ricorda le giornate del suo apprendistato all’MIT negli Stati Uniti in cui per riuscire a far fronte a tutte le incombenze di studio e di lavoro era impegnato per 18 ore. Gli incentivi possono fare miracoli – sosteneva pensando alla precarietà del suo status di allora – sia per il buon funzionamento del mercato che per la lezione etica del sapersi guadagnarsi il posto giorno per giorno, senza paracaduti di sicurezza. Insomma la presenza di Giavazzi, della Gelmini e di Brunetta nel suo governo, alla luce di queste note, non appare così casuale e forse neppure la consulenza alla Mc Kinsley. Passando ai primi anni di docenza universitaria a Trento, Draghi dichiara di non aver insegnato altro che quanto aveva imparato in America del capitalismo e dei suoi vantaggi. La sua visione è un’economia sociale di mercato di stampo ordoliberista in cui i privilegi e la coesione sociale sono principalmente ricercati attraverso giuste regole per la concorrenza. Ovviamente, al di là della difesa di una politica monetaria espansiva, nessun accenno a possibili investimenti pubblici, nazionalizzazioni o men che mai a prospettive mutualistiche.
Va detto che in effetti i discorsi di Draghi degli ultimissimi anni presentano, rispetto al 2015, accenti sicuramente diversi e lontani anche dallo spirito della celeberrima lettera con cui, assieme a Trichet, chiedeva drastici provvedimenti al governo italiano senza escludere il taglio degli stipendi pubblici. In un clima prima gravato dall’ombra cupa del sovranismo e poi dall’emergenza sanitaria che hanno spazzato via la “naturalità” austeritaria, l’ex presidente della BCE accenna volentieri a Keynes e Galbraith, alla riapertura delle diseguaglianze, ai diritti sociali, al fatto che l’Unione europea preservi la sovranità dei singoli stati, anziché comprimerla, anche con l’effetto di mantenere un buon livello di protezione sociale tramite il welfare. Ma non si va al di là di accenni privi di alcuna prospettiva critica verso il modello dominante di sviluppo e senza alcuna – vale la pena ripeterlo – suggestione di tipo socialista e, quindi, neppure, liberalsocialista.

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