Contratti a tempo determinato e precarietà in tempo di Covid La precarietà del lavoro non crea occupazione La “flessibilità” comporta depressione dei salari e deflazione

Contratti a tempo determinato e precarietà  in tempo di Covid
 
La precarietà del lavoro non crea occupazione
 
La “flessibilità” comporta depressione dei salari e deflazione
 
 
Nonostante diminuisca l’aspettativa di vita, l'età pensionabile continua a crescere e con i nuovi coefficienti di calcolo della pensione contributiva andremo a perdere altri soldi, allo stesso tempo i nostri salari perdono potere di acquisto e sovente gli aumenti contrattuali vengono barattati con servizi sanitari e previdenziali integrativi, il che poi induce a riflettere sul ruolo dei sindacati concertativi nella delegittimazione degli strumenti pubblici in materia di salute e pensione. E per quanto riguarda la precarietà contrattuale è di cattivo auspicio la decisione Governativa di rimuovere le causali per i contratti a tempo determinato. Torna in auge una vecchia e fallimentare politica economica  che giudica la riduzione del costo del lavoro e i contratti sfavorevoli trainanti per l'occupazione e l'economia. La precarietà  dilagante in Italia negli ultimi 20 anni  alla lunga è stata deleteria anche per lo stesso sistema economico accompagnata da mancata formazione, dal disinvestimento pubblico in materia di ricerca e innovazione  per soddisfare gli appetiti padronali che chiedevano solo di pagare meno tasse, meno contributi, meno salari beneficiando di regole in materia di salute e sicurezza fin troppo blande come dimostrano infortuni e morti sul lavoro tra i piu' alti della Ue-
 
In questi giorni stanno venendo a galla due verità ossia che i posti di lavoro persi per il Covid sono per lo piu' a tempo determinato (quelli indeterminati saranno probabilmente tagliati dopo la fine del divieto imposto per il Covid) e che le imprese premono per rimuovere ogni limite all'uso di questa tiplogia contrattuale. La seconda verità è data dal fatto che ancora una volta prevalgono le ragioni dell'impresa che ripropone flessibilità e precarietà come soluzioni per il rilancio del paese.
 
 
 
Confindustria vorrebbe fronteggiare la crisi con dosi ulteriori di precarizzazione del lavoro, ma la ricerca scientifica ha dimostrato che questa ricetta non favorisce l’occupazione e alimenta solo le disuguaglianze. Nei Paesi OCSE dal 1990 abbiamo assistito a un crollo medio degli indici di protezione dei lavoratori di oltre il 20% e a una riduzione della loro variabilità internazionale di quasi il 60%. Questa politica è stata sempre giustificata con lo stesso slogan: la precarizzazione dei contratti di lavoro non è piacevole ma è necessaria per stimolare le imprese ad assumere e ridurre così la disoccupazione, slogan poi smentito dai fatti. Il 72% delle analisi pubblicate tra il 1990 e il 2019 smentisce l'idea che la flessibilità crei occupazione, percentuale in salita fino all’88% se prendiamo in esame le ricerche dell'ultimo decennio.
 
Perfino il Fondo monetario internazionale, nel 2016, è giunto alla conclusione che le deregolamentazioni del lavoro “non hanno, in media, effetti statisticamente significativi sull’occupazione” e l’OCSE, nello stesso anno, ha ammesso come “la maggior parte degli studi empirici che analizzano gli effetti a medio-lungo termine delle riforme di flessibilizzazione del lavoro, suggeriscano che esse hanno un impatto nullo o limitato sui livelli di occupazione nel lungo periodo”.  Insomma, le stesse istituzioni per anni fautrici della flessibilità e della precarietà hanno cambiato idea e giudicano queste politiche inadeguate a creare posti di lavoro. L’evidenza mostra che i contratti precari rendono i lavoratori più docili,alimentano le disuguaglianze e spingono verso il basso le dinamiche salariali.
 
L’idea liberista che siano proprio le tutele dei lavoratori la causa della crisi economica non è supportata dai fatti, la verità è invece un'altra ossia che disinvestendo in formazione, pubblica amministrazione, ricerca e occupazione si assecondano solo gli interessi di breve periodo dei padroni e delle politiche di austerità miranti a contenere i costi .La causa della crisi sono proprio le politiche liberiste e la ricerca forsennata di recuperare margini di profitto ad ogni costo, anche tagliando fondi alla istruzione , alla sanità e alla manutenzione del territorio o mantenendo aperti fabbriche e magazzini anche quando le autorità sanitarie consigliavano la chiusura per evitare i contagi.
 

 

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