FEBBRAIO 2019: DRAMMATICO CROLLO DELL'INDUSTRIA ITALIANA
FEBBRAIO 2019 :
Drammatico crollo dell’industria italiana di Franco Astengo
Riprendiamo i dati dall’articolo di Claudio Conti
apparso su Contropiano.
Ogni qual volta i dati ISTAT segnaleranno il
progressivo disastro dell’industria italiana sarà il caso di rammentare ragioni
e cause di questa situazione denunciando come da molto tempo non si ravveda
volontà di affrontare la questione: errori di impostazione complessiva,
pericolosa tendenza all’assistenzialismo propagandistico, deficit tecnologico
strutturale, insostenibili squilibri territoriali.
Il peggior crollo produttivo
dell’industria italiana dal 2009, quando stramazzò “soltanto” del -5%.
“Il fatturato totale
diminuisce infatti “in termini tendenziali” (ossia considerando un anno) del
-7,3%, con un calo del -7,5% sul mercato interno e del -7,0% su quello estero.
Una conferma, oltretutto di due condizioni strutturali entrambe negative: a) il
mercato interno non è in grado di assorbire la produzione per via dei bassi
salari e dell’elevata disoccupazione, b) i mercati stranieri non “trainano”
più, e quindi paghiamo pesantemente l’aver accettato di trasformare buona parte
della nostra attività industriale in “produzione conto terzi” per le filiere
tedesche, tutte orientate all’esportazione. Filiere che oggi pagano anche loro
l’austerità imposta tramite l’Unione Europea (tutto il mercato interno
continentale soffre alla stessa maniera) e i primi danni della guerra
commerciale di tutti contro tutti aperta con il passaggio – causato da una
crisi ultradecennale – dalla “globalizzazione” alla competizione globale.
I dati Istat pubblicati
stamattina dovrebbero costringere tutti a rivedere le proprie idee – pregiudizi
indotti, in realtà – su come funziona l’economia sotto il segno
dell’ordoliberismo mercantilista di matrice teutonica. Ma non avverrà. Più
semplice prendersela con la coglionaggine del governo di turno (che in effetti
non ci sta capendo molto) o, come in modo inaudito continua a fare
Confindustria, con il “costo del lavoro troppo alto” (siamo già arrivati al
lavoro gratuito, che cavolo voglio ancora?).
Più in dettaglio. A
dicembre 2018 il fatturato
dell’industria è diminuito “in termini congiunturali” (cioè rispetto al mese
precedente) del 3,5%. Nel quarto trimestre l’indice complessivo ha registrato
un calo dell’1,6% rispetto al trimestre precedente.
Ma la situazione non è
affatto passeggera. Se guardiamo infatti agli ordinativi – la produzione dei
prossimi mesi – si registra una diminuzione sia rispetto al mese precedente
(-1,8%), sia nel complesso del quarto trimestre rispetto al precedente (-2,0%).
Anche qui, il calo
mensile del fatturato riguarda sia il mercato interno (-2,7%) sia, in misura
più accentuata, quello estero (-4,7%). Peggio ancora per l’immediato futuro: la
flessione degli ordinativi è infatti la sintesi di un incremento delle commesse
provenienti dal mercato interno (+2,5%) e di una fortissima contrazione di
quelle provenienti dall’estero (-7,4%). Chi aveva puntato solo sulle
esportazioni (tutto il sistema industriale italiano) si trova oggi sull’orlo
dell’abisso.
Non c’è peraltro un solo
settore in controtendenza. A dicembre tutti i raggruppamenti principali di
industrie segnano una variazione mensile negativa: -1,8% i beni di consumo,
-5,5% i beni strumentali, -1,7% i beni intermedi e addirittura -9,7% l’energia.
Sempre con riferimento
al fatturato annuale, tutti i principali settori di attività economica
registrano cali tendenziali drammatici. I più giganteschi riguardano i mezzi di
trasporto (-23,6%), l’industria farmaceutica (-13,0%) e l’industria chimica
(-8,5%).”
Ecco il seguito per non dimenticare: il nostro moderno
“Delenda Carthago”
.
Si è discusso molto in questi mesi d’intervento
pubblico in economia e alcuni hanno proprio accennato alla ricostituzione di un
soggetto tipo – IRI, all’interno del quale concentrare le risorse di una
rinnovata iniziativa pubblica in grado di avviare una ripresa di capacità
industriale del Paese.
Rammentato il quadro generale nel quale ci stiamo
muovendo caratterizzato dai vincoli europei, dall’enormità del debito pubblico
e dalla presenza di un governo che da un lato si muove sul terreno
dell’assistenzialismo (reddito di cittadinanza) e di una nuova ondata di
privatizzazioni (cioè in pieno regime di confusione) è il caso di riprendere
alcuni di questi temi.
La storia dell’IRI nelle sue tre fasi: dal 1933
l’istituzione voluta dal fascismo (affidandone però le sorti a un manager
socialista come Beneduce) per reazione alla grande crisi del ’29 e per salvare
le banche nazionali; nell’immediato dopoguerra quando l’ente fu mantenuto in
vita e non sciolto (com’era stato deciso anche all’ENI e al CONI,prima posti in
liquidazione e poi ricostituiti) per realizzare le infrastrutture
indispensabili per uscire dal disastro della guerra. Così l’IRI gestì autostrade,
telecomunicazioni, mezzi di trasporto terrestri, aerei e navali, sistemi di
difesa, materiali da costruzione (cemento, acciaio) e credito (banche).
Poi dagli anni’70 la fase dello “scambio politico”,
attraverso l’acquisizione d’imprese private realizzate in funzione clientelare
rispetto alla politica.
Negli anni’80 le compensazioni delle perdite avvennero
a spese dei contribuenti (ricordate i BOT a 3 mesi?) con la relativa esplosione
del debito pubblico e all’inizio degli anni’90, finiti i soldi dello Stato,
dichiarati incostituzionali i prestiti, l’UE imposte di trasformare l’IRI in
s.p.a.
Fin qui il Bignami ma è necessario toccare il punto di
maggior interesse al riguardo del quale proprio oggi è necessario recuperare
non soltanto una capacità riflessione ma anche di proposta e d’iniziativa
politica.
La fase dello “scambio politico” infatti, si attuò in
una condizione di totale assenza di un piano industriale per il Paese, mentre
stavano verificandosi almeno quattro fenomeni concomitanti:
1)
L’imporsi di uno squilibrio nel rapporto
tra finanza ed economia verificatosi al di fuori di qualsiasi regola e
sfuggendo a qualsiasi ipotesi di programmazione;
2)
La perdita da parte dell’Italia dei settori
nevralgici dal punto di vista della produzione industriale: siderurgia,
chimica, elettromeccanica, elettronica. Quei settori dei quali a Genova si
diceva con orgoglio “ produciamo cose che l’indomani non si trovano al
supermercato”;
3)
A fianco della crescita esponenziale del
debito pubblico si collocava nel tempo il mancato aggancio dell’industria
italiana ai processi più avanzati d’innovazione tecnologica. Anzi si sono persi
settori nevralgici in quella dimensione dove pure, si pensi all’elettronica, ci
si era collocati all’avanguardia. Determinante sotto quest’aspetto la
defaillance progressiva dell’Università con la conseguente “fuga dei cervelli”
a livello strategico. Un fattore questo della progressiva incapacità
dell’Università italiana di fornire un contributo all’evoluzione tecnologica
del Paese assolutamente decisivo per leggere correttamente la crisi;
4)
Si segnalano infine due elementi tra loro
intrecciati: la progressiva obsolescenza delle principali infrastrutture, in
particolare le ferrovie ma anche autostrade e porti e un utilizzo del suolo
avvenuto soltanto in funzione speculativa, in molti casi scambiando la
deindustrializzazione con la speculazione edilizia e incidendo moltissimo sulla
fragilità strutturale del territorio. Un discorso di programmazione affatto
diverso, beninteso, dal semplicistico “sblocco delle grandi opere”.
Sono questi riassunti in una dimensione molto
schematica i punti che dovrebbero essere affrontati all’interno di quell’idea
di riprogrammazione e intervento pubblico in economia completamente abbandonata
dai tempi della “Milano da Bere” fino ad oggi.
Sarà soltanto misurandoci
su di un’idea di progetto complessivo che si potrà tornare a parlare d’intervento
e gestione pubblica dell’economia: obiettivo, però, che una sinistra rinnovata
dovrebbe porre all’attenzione generale senza tema di apparire “controcorrente”.
La stessa questione del “deficit spending” andrebbe affrontata in questa
dimensione.
Nel quadro di una resa ai meccanismi perversi di quella
che è stata definita “globalizzazione” e dei processi dirompenti di
finanziarizzazione dell’economia, “scambio politico” e assenza di una visione
industriale è avvenuto il tracollo della presenza industriale in Italia.
Come abbiamo
ricordato e qui ripetiamo:
Oggi ancora una volta ci si sta muovendo in direzione
osticamente contraria, recuperando il “peggio” degli anni passati: dall’assistenzialismo,
alla subordinazione delle scelte al clientelismo elettorale arrivato, proprio
in occasione delle elezioni del 4 marzo 2018, a codificare su scala di massa il
“voto di scambio”,come pure era già avvenuto su scala numericamente più modesta
negli anni scorsi:ricordando “meno tasse per Totti” e il solito “milione di
posti di lavoro” oltre all’elargizione degli 80 euro.
Forse, da questo punto di vista, ci trovavamo
ancor in una fase artigianale.
Oggi verrebbe da scrivere che siamo ben infilati dentro
il tunnel.
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