Il giardino come bene comune. La prateria delle coscienze: memoria del Novecento e battaglie di oggi per il patrimonio culturale e ambientale
Il giardino come bene comune. La prateria delle coscienze: memoria del Novecento e battaglie di oggi per il patrimonio culturale e ambientale.
di Laura Tussi
Tra i simboli più potenti di questa rinascita culturale e ambientale spicca il Parco di Monza, uno dei maggiori parchi storici cintati d’Europa, nato come giardino reale nell’Ottocento ma oggi vissuto come bene comune. Il suo patrimonio botanico, architettonico e sociale viene continuamente riattualizzato da iniziative civiche, percorsi didattici, eventi culturali, progetti di riforestazione, mobilitazioni per la biodiversità, attività sportive e pratiche di cura del verde che coinvolgono cittadini, ricercatori, scuole, volontariato ambientalista e mondo culturale. La sfida contemporanea non è solo preservare, ma *trasmettere* la consapevolezza che il paesaggio non è sfondo, ma protagonista della vita comunitaria.
Nel sistema formativo inteso come ideale comunità educante, l’impegno culturale e civico assume così una dimensione militante nel senso più alto e costruttivo del termine: recupero, trasmissione e custodia della memoria storica e ambientale, intese non come reliquie del passato, ma come bussole per il futuro. La narrazione autobiografica diventa strumento di “educazione creativa”, pedagogia dell’introspezione, pratica di educazione interiore al senso dell’erranza del pensiero e dell’avventura esistenziale. È un percorso dialogico, mai definitivo, in cui l’essere al mondo viene ripensato come ricerca inesausta di significato, dentro una relazione costante tra individuo e comunità.
Il filo d’Arianna della narrazione di sé – “Conosci te stesso” – diventa allora un dispositivo culturale prima ancora che pedagogico. In ambito sociale e comunitario, la narrazione personale sostiene la riappropriazione del sentimento di terrestrità: il senso di appartenenza plurale ai territori, alle loro storie, alle loro fragilità, ai loro tesori spesso ignorati. Questo processo di rivalorizzazione del paesaggio e della memoria si oppone a quella espropriazione soggettiva della dignità che la massificazione consumistica ha prodotto: un modello educativo implicito che non educa alla cura, ma al consumo; non alla relazione, ma alla competizione; non al radicamento, ma all’usa-e-getta esistenziale.
Il recupero delle dimensioni interiori creative – rigeneranti, ricreative, ricostruttive dell’immaginario – riporta al centro l’idea del giardino come “locus amoenus”: non un’idealizzazione astratta, ma un luogo simbolico e reale in cui convivono differenze e pluriappartenenze, spazi di riflessione, sogni, aspirazioni, solitudini trasformative, pratiche di cura condivise. L’hortus conclusus, un tempo metafora teologica della meditazione, si reinventa oggi come spazio di resistenza culturale all’alienazione: un luogo dove l’anima si rifugia per poi tornare al mondo con maggiore lucidità critica e senso di responsabilità sociale.
La Lombardia – regione dei giardini per eccellenza – racchiude un patrimonio straordinario di paesaggi plasmati sotto il segno dell’elemento naturale *ordinato dall’umano*: dal giardino rinascimentale delle ville storiche, agli spazi verdi urbani moderni, ai grandi parchi storici come quello di Monza. Ogni giardino custodisce un “genius loci”: uno spirito vitale che non appartiene a un singolo, ma a una comunità intera. Qui si sedimentano e riaffiorano miti ancestrali, memorie famigliari, simboli religiosi, percorsi estetici e visivi che raccontano la lunga storia della relazione tra uomo e natura.
Sin dalle origini della storia, l’essere umano ha sviluppato l’urgenza di plasmare lo spazio circostante, trasformando il caos del “locus silvaticus” – la selva, l’informe, il disordine – in paesaggio vivibile, pensato, simbolico. Il giardino nasce da un sentire religioso legato alla creazione, ma diventa ben presto anche atto culturale, politico, estetico: la natura non viene dominata, ma *interpretata*, organizzata, resa luogo di esperienza sensibile e simbolica, immaginata dentro un cosmos dotato di ordine e armonia.
Il giardino, dagli albori della storia, è stato paradigma di teogonie e cosmogonie: immagine del paradiso, luogo del divino che si riflette nella cura del particolare, nel dialogo tra umano e naturale, nella tensione verso l’armonia. Oggi, quella stessa tensione non si esprime più nelle allegorie della corte, ma nelle pratiche civiche della cittadinanza attiva: non più il giardino del re, ma il giardino della comunità; non più il mito come racconto, ma come mandato etico alla cura, alla difesa, alla trasmissione.
E se i miti primigeni collegavano ogni giardino all’Eden, oggi quel mito sopravvive come imperativo di responsabilità: i giardini non sono solo cornici di ville splendide, ma territori da conoscere, proteggere, vivere, risignificare. La prateria da incendiare non è quella del fuoco, ma quella della coscienza: una scintilla che non distrugge, ma rigenera. Perché la memoria storica e il patrimonio ambientale non sono un lusso culturale: sono autodifesa della dignità umana contro l’impero della merce.
Laura Tussi
NOTA: il Parco di Monza, nato come giardino della Villa Reale, ha una storia che intreccia potere, paesaggio e trasformazioni sociali.
Viene creato tra il 1805 e il 1808 per volere di Eugenio di Beauharnais, viceré del Regno d’Italia napoleonico, come tenuta di rappresentanza della corte. Il progetto è affidato all’architetto Luigi Canonica, che disegna un vasto giardino all’inglese, con viali scenografici, boschetti, prati e corsi d’acqua modellati sul fiume **Lambro**, che attraversa l’area e ne diventa l’asse paesaggistico.
Nel 1815, dopo la caduta di Napoleone, il parco passa agli Asburgo. L’imperatore Francesco I d’Austria lo amplia ulteriormente, facendone una riserva agricola e venatoria recintata: nasce così uno dei parchi storici cintati più grandi d’Europa.
Con l’Unità d’Italia (1861) diventa proprietà dei Savoia e mantiene il ruolo di tenuta reale. Dopo l’assassinio di Umberto I nel 1900, avvenuto proprio a Monza, la corte si allontana dalla villa e il parco perde gradualmente la funzione di residenza dinastica.
Nel Novecento, pur subendo modifiche, conserva l’impianto romantico originario. Dal 1945, con la nascita della Repubblica, il parco si apre definitivamente al pubblico e diventa patrimonio collettivo, luogo di natura, cultura e socialità. Oggi tutela ecosistemi fluviali, prati, alberi secolari e architetture storiche come ponti, mulini e cascine, restando un simbolo unico di paesaggio storico lombardo.
Nel 1922 ospita per la prima volta l’Autodromo Nazionale, che ne occupa una porzione interna ma diventa parte della sua identità contemporanea, pur rappresentando oggettivamente un fattore di deterioramento ambientale. L’Autodromo di Monza, inaugurato nel 1922 all’interno del Parco, ha rappresentato da subito un intervento di forte artificializzazione del paesaggio. La costruzione delle piste e delle infrastrutture ha comportato il disboscamento di ampie superfici, la frammentazione degli habitat e l’impermeabilizzazione del suolo, con conseguenze dirette sul naturale deflusso delle acque del Lambro e sull’equilibrio idrogeologico dell’area. Nel corso dei decenni, l’espansione di tribune, parcheggi e strade di servizio ha accentuato l’effetto barriera, isolando popolazioni di fauna, riducendo la biodiversità e alterando la continuità ecologica di uno dei polmoni verdi più preziosi della Lombardia.
L’attività motoristica, soprattutto durante i grandi eventi come il Gran Premio di Formula 1, amplifica ulteriormente il carico ambientale. Inquinamento acustico, vibrazioni e traffico veicolare intenso producono stress cronico sulla fauna selvatica, modificandone comportamenti riproduttivi e rotte di spostamento. A ciò si aggiungono emissioni di gas di scarico, polveri sottili, micro-particelle generate dall’usura degli pneumatici e la produzione massiva di rifiuti, spesso difficili da gestire in un’area a vocazione naturalistica. L’Autodromo, pur essendo un simbolo storico dello sport automobilistico, resta dunque un fattore di pressione costante che, senza rigorosi limiti e interventi di mitigazione, contribuisce al progressivo deterioramento ambientale del Parco di Monza.
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