RICOSTRUZIONE DELLA SINISTRA
RICOSTRUZIONE DELLA SINISTRA di Franco Astengo
Esiste ancora la suddivisione in classi, fondata sull’antica
“contraddizione principale” in una società di massa percorsa dal veleno dall’esigenza
insuperabile del consumo dell’immediatezza comunicativa?
Agnes Heller (intervista all’Espresso del 30 settembre 2018)
lo nega decisamente: l’allieva di Luckas considera la suddivisione in classi un’illusione,
e giudica i partiti politici tutti rinchiusi nel recinto del populismo perché si
rivolgono a tutto il popolo (“catch all party”) costruendo narrazioni.
Un’osservazione da tenere in conto quello della filosofa
ungherese che nella stessa intervista sostiene l’impossibilità di superare la
linea della “democrazia liberale” pur ammettendone la crisi.
Un’opinione da
discutere soprattutto se si pensa, come nel caso di chi sta elaborando questa
nota, la necessità di “ricostruire” un soggetto della sinistra politica
rimanendo convinto che, in questa fase di tumultuosa modificazione nei
parametri di riferimento, sia indispensabile un ritorno in profondità nella
ricerca teorica.
E’ cambiato radicalmente il possibile ruolo e compito degli
intellettuali; sono mutate le categorie di classificazione delle fratture
sociali; sfugge l’idea di un rapporto tra pensiero, espressione di
soggettività, organizzazione politica.
In Italia questo complesso insieme di elementi può essere
affrontato nutrendosi di una particolare visione del passato, ma ciò non è
sufficiente: deve essere ripensata, prima di tutto, la storia delle dottrine
politiche.
Si tratta di occuparsi, come si sta cercando di fare da
qualche parte con esiti ancora parziali e contradditori, di quella che è stata
definita “crisi della democrazia” cercando proprio di smentire l’assunto di
fondo sostenuto da Heller circa l’impossibilità di superare la cosiddetta “democrazia
liberale”.
In questo caso l’individuazione del permanere della
strutturazione in classi all’interno della società dell’informatica e del “messaggio
immediato” (nella sostanza dell’individualismo inteso come “forma sistemica”)
appare punto del tutto decisivo e fondamentale.
La storia delle dottrine politiche (o del pensiero politico)
si muove tradizionalmente fra la storia politica, la storia delle istituzioni,
la storia delle filosofia pratica.
La storia delle dottrine politiche è, infatti, una
disciplina che ha come proprio obiettivo l'analisi dell'incessante discorso
sulla politica, sulla sua legittimazione o sulla sua delegittimazione, che
caratterizza l'intero arco cronologico della civiltà occidentale.
Nel fare la storia delle dottrine politiche, non possiamo
però pensare di estraniarci da una funzione e da una valenza dichiaratamente
politica.
Non esiste, dunque, separatezza tra storia delle dottrine
politiche, analisi della situazione politica, azione politica diretta.
Esistono, certamente, diversi metodi di analisi che
dipendono dal tempo storico e dagli obiettivi che, di volta in volta, ci si
propongono.
Si può, infatti, privilegiare la continuità di lungo
periodo, attorno ad alcune idee- guida (il cosiddetto “percorso carsico”),
oppure tentare di rintracciare i punti di cesura epocale (“nulla sarà come
prima”).
E’ possibile tentare
l’esplorazione del “politico” nella sua
autonomia, oppure scrutare l’interno del potere nella sua essenza di forza sociale.
Si può sviluppare un tentativo di cogliere nella varietà
degli assetti istituzionali e nel rapporto tra questi e i soggetti economici,
l'urgenza della determinazione dei rapporti di forza che, alla fine
sistematizzano proprio quegli equilibri di potere cui già accennavamo.
Oppure si può esplorare l'intreccio degli eventi di vario
spessore intellettuale che fanno circolare idee, mettendo in moto quelle entità
immateriali e impersonali che formano il cosiddetto “spirito del tempo”,
formando l'opinione pubblica.
Ancora: si può cercare di oggettivizzare al massimo la
propria la riflessione e la propria azione politica, adattandola alla
contingenza immanente, facendola così
aderire a quelle che, di volta in volta, si presentano come le reali dinamiche
dei poteri.
Tutto dipende, insomma, da come si riesce a declinare il
nesso tra sapere e prassi, fra storia e progetto.
Disgiungere questi elementi e cercare la via di un
pragmatismo, apparentemente invitante ma in realtà impossibile, significa
abbandonare ogni possibilità di ricollegare concretamente politica e vita.
In questo quadro di riferimento metodologico si pongono
così, per quanti cercano di riflettere sulla realtà politica di oggi, almeno
due campi di iniziativa:
a) definire i termini reali in cui si è consumata
definitivamente la “modernità” costruita tra '800 e '900.
Una “modernità” fondata sul cosmopolitismo di Kant e sul
lavoro e la nozione di Hegel.
Quei due punti, cioè, sui quali la modernità ha voluto farsi
concreta (lo Stato e la legge morale dell'individuo, che ne ha regolato il
funzionamento effettivo) e, al contempo, aprirsi alle proprie contraddizioni
(le grandi utopie: tragiche utopie?).
Questa fase si è esaurita nell'esaurirsi di un’idea di
rapporti plurale, di effettivo dualismo, con quel grande “tracciato della
storia” rappresentato dalla “rifondazione marxiana”.
Dopo aver rischiato il collasso totalitario (Heidegger,
Schmitt, Gentile) ci si è arrestati sul riproporsi di un unico orizzonte della
politica: in questo si ritorna alle affermazioni di Heller;
b) Inquadrato il punto precedente, da qualche parte
descritto come approdo al “pensiero unico” cui appunto Heller sembra proprio
arrendersi, il nostro compito diventa, allora, quello di pensare e praticare la
politica, oltre le rovine del moderno.
Per avviare un discorso di questo tipo, mi pare ci sia una
sola strada: tentare di spezzare, o almeno di articolare l'ottica occidentale
della lettura della storia, così come questa si è misurata attorno a punti
“classici” del conflitto, che hanno generato le cosiddette “fratture” su cui si
sono collocati i soggetti politici del ‘900: individuo/stato;
società/sovranità; libertà/disciplinamento; soggettività/potere;
democrazia/élite.
Globalizzazione, sovranazionalità, estensione del conflitto
sociale, mutamento nella narrazione morale.
Attorno a questi
fattori, parzialmente inediti sulla scena della nostra azione politica la lettura
occidentale della storia ha tentato, nel post – caduta del socialismo reale, di
rispondere (fallendo) contrabbandando la riduzione delle “fratture” quale sola
risposta esaustiva alla legittimità del “comando politico”.
Deve, invece, andare in discussione,al fondo questo tipo di
formalizzazione data per universalmente acquisita.
Occorre recuperare la capacità dell'intellettuale di
presentarsi come portare di un pensiero concreto della pluralità, del
conflitto, dell'immanenza, del materialismo, non cedendo all'idea che soltanto
una religione potrà salvarci dalla caduta della modernità (Habermas).
Si tratta, prima di tutto, di chiamare a raccolta quelle
forze che si sottraggono, oggi, alla politica, ma non possono tirarsi fuori dal
procedere, inesorabile, dalle dialettica della storia.
Una dialettica che non può risolversi semplicemente
presentando la propria coscienza individuale al cospetto dell’immutabilità di
funzione del potere costituito. Non è sufficiente “la legge morale dentro di
sé” e la competizione politica ridotta all’“individualismo competitivo”.
Il ritorno alla rappresentazione politica della “contraddizione
principale”appare, in questo senso, come il fondamento della ricostruzione
della sinistra.
Beninteso
comprendendo appieno come la contraddizione risulti allargata a un insieme di “fratture”
(il cui catalogo andrebbe aggiornato rapidamente) a partire dall’apparentemente
insuperabile doppia condizione di sfruttamento nella diversità di genere e l’evidente
conflitto tra condizione del territorio e sviluppo tecnico, scientifico, della
produzione di merci.
Sotto quest’aspetto va ricordato il tema de rapporto tra
politica e tecnica al riguardo del quale correnti filosofiche considerano ormai
come avvenuta la riunificazione tra scienze, tecnica e politica all’interno
dell’acquisita egemonia della tecnica.
La sinistra è così
chiamata al compito di ritrovare i termini della ribellione collettiva verso
l’idea della “fine della storia”, della semplificazione delle contraddizioni
sociali, della tecnica come espressione diretta dell’azione politica e, nella
sostanza, del predominio dell’io come soggetto esaustivo dell’essere che si
esprime ormai esclusivamente attraverso il web.
Soprattutto questo dovrebbe essere il compito di quegli
intellettuali che non intendono ridurre il loro ruolo a quello di “maitre a
penser” del potere.
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