IL CHIAPAS TORNA A FAR PARLARE DI SÉ

 

IL CHIAPAS TORNA A FAR PARLARE DI SÉ

di Aldo Zanchetta



Il Chiapas torna a far parlare di sé, e purtroppo per tragiche notizie. Le due guerre di Gaza e in Ucraina stanno oscurando i molti altri conflitti presenti nel mondo, ma anche in essi c’è l’escalation di violenza che i due ora citati mostrano. Sembra essere un segno del tempo in cui viviamo.

Il 18 ottobre 2024 un articolo di Luis Navarro, autorevole giornalista de La Jornada, principale quotidiano messicano, aveva per titolo «Chiapas, la guerra civile è alle porte».

Cosa sta accadendo?

La situazione è complessa e non facile da riassumere, perché ha lunghi precedenti storici risalenti ai tempi di Cristóbal Colón e al suo arrivo in quelle terre nel 1492. Ma qui vogliamo parlare dell’oggi ed esamineremo solo i fatti più recenti, quelli degli ultimi 20 giorni, che hanno riportato il Chiapas in evidenza nelle cronache. Non senza però aver ricordato in stringatissima sintesi i loro precedenti negli ultimi trent’anni, che i giovanissimi forse non conoscono: l’insurrezione nel 1994, proprio in Chiapas, degli indigeni di 7 etnie diverse, ben 5 delle quali con radici maya. Data scelta simbolicamente perché proprio in quel giorno entrava in vigore il Trattato di Libero Commercio dell’America del Nord (TLCAN).

Il simbolo unificante di queste diversità etniche fu il ricordo della rivoluzione di Villa e Zapata del 1910 al grido di “Terra e Libertà”. Qui, nel sud contadino del paese, il ricordo predominante era in realtà quello di Emiliano Zapata (sebbene la sua insurrezione avesse appena sfiorato gli Stati del Sudest) e non quello di Villa, eroe invece del nord operaio. Per questo l’insurrezione fu definita zapatista. Il giorno scelto fu quello dell’entrata in vigore del trattato di libero commercio fra Stati Uniti, Canada e Messico, che avrebbe causato la morte del vasto mondo contadino messicano. Uno dei ‘credo’ del capitalismo neoliberista è che i contadini necessari in un paese sono un piccolo % della popolazione totale. L’eccedenza della forza lavoro deve diventare la massa operaia operante nell’industria.

La speranza degli insorti era che la loro insurrezione si sarebbe estesa al resto del paese, cosa che non avvenne. Però questo resto, la grande maggioranza della popolazione, manifestò massivamente per il raggiungimento di un accordo di pace, obbligando l’oligarchia al governo ad avviare la trattativa per la pace e a sospendere la repressione selvaggia che subito era stata ordinata.

Gli accordi di Pace, elaborati nel corso di lunghe ed estenuanti trattative, non sono mai stati ratificati dal governo, e ancora oggi la situazione si regge su un fragile accordo di tregua dei combattimenti, che viene da allora rinnovato. Agli insorti venne concesso qualche riconoscimento sulle terre occupate nei primi giorni di guerra, per lo più latifondi non coltivati, preziosi per gente affamata di terra da coltivare.

I vari governi, da allora, commissionano la prosecuzione della guerra, sotto altra forma, a realtà indigene e contadine rimaste ‘fedeli’, i cosiddetti ‘paramilitari’, che hanno continuato a esercitare violenze sulle comunità zapatiste che unilateralmente avevano riconosciuto come valevoli gli accordi non ratificati, che però erano stati raggiunti e accettati dall’allora delegazione governativa, ma non dal governo che pure l’aveva nominata.

La situazione, di per sé difficile, negli ultimi anni si è fatta, se possibile, ancora peggiore per l’aggiunta di nuovi attori di violenze, i ‘cartelli’ della droga, in lotta fra loro per assicurarsi il pieno controllo della striscia di territorio confinante col Guatemala, paese di provenienza di gran parte della droga destinata agli Stati Uniti, che di lì deve passare.

Questo il quadro in cui si stanno svolgendo gli avvenimenti di questi giorni, che vedono il passaggio del potere governativo centrale (il Messico è una repubblica federale presidenziale composta da 32 entità federative) dal presidente Andrés Manuel López Obrador (AMLO) alla presidente Claudia Sheinbaum, avvenuto l’1 ottobre scorso.

 

I FATTI

LA RESISTENZA ZAPATISTA

La pressione e le violenze sulle comunità zapatiste da parte della nuova realtà che potremmo definire para-narco-militare sono state forti, con sequestro e uccisione di persone, violenze sessuali sulle donne, espulsioni forzate di interi villaggi, distruzione di raccolti.

Malgrado questo gli zapatisti, ristrutturata la loro organizzazione per fare fronte alla nuova situazione, in un comunicato dell’8 ottobre, firmato dal subcomandante Moisés, hanno annunciato la ripresa di incontri internazionali a partire dalla fine di quest’anno e per tutto il corso del 2025. Un programma denso, come sempre creativo secondo il loro stile, e assolutamente interessante.

Il primo dei sei periodi di incontri era annunciato per la seconda metà del prossimo dicembre, indicativamente nella comunità «6 de Octubre», in un territorio ancora relativamente tranquillo perché al centro di una zona circondata da comunità zapatiste.

Pochi giorni dopo però i narco sono arrivati nella zona a minacciare la comunità, utilizzando anche un drone per intimorire la gente, e hanno minacciato di morte alcune basi di appoggio zapatiste.[1] Di fronte all’aggravarsi della situazione anche in questo territorio ritenuto relativamente tranquillo, l’EZLN ha responsabilmente sospeso il programma da poco annunciato, al quale come tradizione non rinuncerà, ma che dovrà essere ripensato.

 

LA RESISTENZA CIVILE

La situazione, in Chiapas e non solo, è insostenibile da tempo. Così nei mesi scorsi, di fronte all’inerzia, se non addirittura complicità del governo centrale e di quelli statali, organizzazioni indigene e contadine di 20 Stati del paese hanno formulato una denuncia documentata che hanno diffuso chiedendo che cittadini di altri paesi vi apponessero la propria firma, con l’obiettivo di generare una pressione sul governo messicano affinché esca dall’immobilità di fronte alla situazione.

Il documento con le firme venne presentato pubblicamente assieme a uno scritto dell’intellettuale indigeno Francisco López Bárcenas. Parallelamente a questo, il CNI (Consiglio Nazionale Indigeno che riunisce i rappresentanti di oltre 40 etnie indigene del paese) e il Frayba (Centro de Derechos Humanos Fray Bartolomé de Las Casas, organizzazione civile creata nel 1989 dal vescovo Samuel Ruiz)[2], hanno promosso una delegazione che in questi giorni sta visitando vari paesi europei per informare sulla reale situazione nel paese, in modo da far crescere una pressione sul governo messicano. La commissione, composta da 5 indigeni del CNI di etnie di vari Stati e un indigeno del Frayba, è stata anche in Italia tenendo incontri in 5 città.

 

LA RESISTENZA DELLA DIOCESI DI SAN CRISTÓBAL DE LAS CASAS

Da parte sua, la diocesi di San Cristóbal de Las Casas, in prima linea nella difesa delle libertà civili e dei diritti umani fin dal tempo in cui era retta dal vescovo jTatic Samuel Ruiz, nei giorni scorsi ha organizzato un incontro degli 800 catechisti indigeni della diocesi con la presenza di altre 4 centinaia di indigeni. Così l’ha descritta in un suo servizio Raúl Zibechi: «I partecipanti provengono dalle sette zone appartenenti ad altrettante culture autoctone. Nel corso di quest'anno, ogni zona ha tenuto il suo pre-congresso per condividere dolori e sofferenze, gioie e speranze. (…) Tutti gli interventi hanno denunciato la violenza generalizzata, gli sgomberi forzati e le uccisioni, l'inerzia dello Stato e la necessità di costruire la pace anche in mezzo alla violenza» (Zibechi, «Arare la pace in mezzo alla guerra»).

I cartelli della droga, cui i catechisti delle varie comunità cattoliche resistono, organizzando la resistenza nelle comunità, hanno reagito pochi giorni dopo assassinando uno dei sacerdoti più attivi in questa resistenza, padre Marcelo Pérez Pérez (si veda il comunicato del Frayba e l’articolo in Comune-info: «Marcelo vive»).

 

LA SITUAZIONE GENERALE

Questo non è un saggio, e vogliamo che sia leggibile da un comune lettore che voglia restare aggiornato sulla situazione di due fra le esperienze più importanti e innovative, ciascuna nel proprio campo, che questo trapasso di secolo di accresciuta violenza ci ha offerto. Due squarci essenziali su nuove possibilità di percorso verso un mondo nuovo.

Purtroppo quello che a breve si prospetta è una guerra civile, in Chiapas e non solo. L’ipotesi è venuta alla ribalta in questi giorni terribili, formulata nel già citato articolo Chiapas, la guerra civile è alle porte») di uno dei più autorevoli giornalisti de La Jornada, Luis Navarro, che fin dall’inizio dell’insurrezione zapatista ne aveva seguito con acutezza di analisi le vicende. Ma per essere precisi e dare a Cesare quel che è di Cesare, i primi a formulare l’ipotesi, tre anni or sono, sono stati gli stessi zapatisti, con un comunicato del 19 settembre 2021 del «Comitato Clandestino Rivoluzionario Indigeno - Comando Generale dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale», a firma dell’allora subcomandante Galeano (ex Marcos), dal titolo «Chiapas sull’orlo della guerra civile».

 

PER CONCLUDERE

Un’ultima considerazione sulla ricordata iniziativa di raccolta internazionale di firme poi presentata ufficialmente in Messico e sul giro in Europa, attualmente in corso, della Commissione CNI + Frayba. Entrambe le iniziative hanno dovuto affrontare un certo scetticismo circa i possibili effetti positivi dopo le scorpacciate di raccolta firme per le ragioni più varie fatte negli anni passati. Innanzi tutto si tratta di richieste che ci sono state fatte da persone in situazione disperata, e il non rispondere aumenta il loro senso di solitudine. In secondo luogo, di fronte a casi rimasti senza effetto, ve ne sono per fortuna altri che qualche effetto lo hanno prodotto. Quindi, non facciamo di ogni erba un fascio. Molto dipende dal loro intelligente impiego in una serie di iniziative più articolate. Pensiamo al Chiapas, al Rojava e ad altre situazioni.

A.Z.

 



[1] Le basi di appoggio sono persone non facenti parte dell’EZLN ma dichiaratesi favorevoli.

[2] Samuel Ruiz García, vescovo di San Cristóbal de las Casas dal 1960 al 2000, era chiamato dagli indigeni jTatic: «padre e protettore», e fu definito el caminante (il camminatore) non solo per il suo andare di villaggio in villaggio in una diocesi di 22.000 kmq., spostandosi a cavallo, in jeep, a dorso di mulo o a piedi, ma anche per come seppe accompagnare il cammino degli indigeni.

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