Il silenzio dell’Occidente su Gaza segna la fine della coscienza democratica
Nelle ultime ore, le notizie che giungono dalla Striscia parlano di bombardamenti incessanti e di un numero di vittime civili che cresce drammaticamente. Ospedali distrutti, bambini sepolti sotto le rovine, intere famiglie cancellate. La fame, la sete e le malattie dilagano tra i sopravvissuti, ormai confinati in zone sempre più ristrette e invivibili. Le organizzazioni umanitarie denunciano l’impossibilità di intervenire, mentre le agenzie dell’ONU ripetono, ormai quasi con rassegnazione, l’appello a un cessate il fuoco immediato.
La Corte internazionale di giustizia, nel gennaio scorso, ha riconosciuto come plausibili le accuse di genocidio contro Israele, imponendo misure provvisorie per prevenire ulteriori atti di sterminio. Eppure, di fronte a questa constatazione giuridica di enorme portata, la reazione occidentale è rimasta flebile. Nessuna sanzione, nessuna sospensione di aiuti militari, nessun passo concreto verso la tutela di un popolo sotto assedio.
Il dibattito resta aperto: per alcuni giuristi e attivisti per i diritti umani, quanto sta accadendo a Gaza rientra pienamente nella definizione di genocidio contenuta nella Convenzione del 1948, che parla della “distruzione, totale o parziale, di un gruppo nazionale, etnico o religioso, con l’intenzione di annientarlo”. La sproporzione dell’offensiva israeliana, la sistematica distruzione di infrastrutture civili e la negazione di beni essenziali come acqua, cibo e cure mediche, sembrano andare oltre la difesa e configurare una punizione collettiva.
Altri osservatori, invece, insistono sul diritto di Israele a difendersi dagli attacchi di Hamas e dalle minacce terroristiche, ricordando i massacri del 7 ottobre 2023 come un trauma nazionale ancora vivo. Tuttavia, anche chi invoca la legittima difesa non può ignorare che nessuna guerra può giustificare crimini efferati contro civili indifesi, né l’annientamento di un intero popolo che da decenni vive sotto occupazione e blocco.
Nel frattempo, il mondo occidentale – che si è costruito sull’eredità dell’Illuminismo, sulla centralità dei diritti umani e sul principio della dignità universale – appare oggi muto. Un silenzio che pesa più delle parole, un silenzio che, come sottolinea Musilli, segna forse la crisi irreversibile della coscienza democratica. Dove sono finite le voci che un tempo invocavano libertà, giustizia, uguaglianza? Dove si nasconde oggi la solidarietà che dovrebbe unire l’umanità di fronte alla sofferenza?
Il dramma di Gaza non è solo una questione geopolitica o militare: è la misura del fallimento etico dell’Occidente. La mancata reazione, o la sua timidezza diplomatica, testimonia un arretramento culturale e morale. Non si tratta soltanto di difendere il popolo palestinese, ma di salvare l’idea stessa di civiltà, quella che l’Europa e l’America amano rivendicare come propria.
Certo, la situazione è complessa e la soluzione non può essere che politica e diplomatica, fondata sul riconoscimento reciproco e sul rispetto del diritto internazionale. Ma ogni processo di pace dovrà partire da una verità elementare: il popolo palestinese non può essere lasciato morire nell’indifferenza. Senza giustizia per Gaza, nessuna pace sarà possibile, e nessuna democrazia potrà dirsi davvero viva.
Oggi più che mai, il mondo ha bisogno di una voce che rompa il silenzio. Perché tacere di fronte all’ingiustizia non è neutralità: è complicità.
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