Contributo alla ripresa del movimento contro la militarizzazione dei territori e la guerra

da Sindacato Generale di Base Pisa

Questo contributo scaturisce dal confronto con la sezione del Prc di Poggibonsi (Siena) e  l'associazione locale Indipendenza. Grazie al loro invito abbiamo riordinato le idee. Obiettivo di questo intervento non è aprire polemiche ma superare lo stallo, anzi la paralisi, in cui è piombata la Campagna di resistenza alla guerra

 Partiamo da una semplice considerazione: la campagna di Resistenza a Pisa è ferma dopo la mobilitazione di fine primevera, il prossimo avvio dei lavori della ferrovia che collegherà la base militare di Camp Darby all'aeroporto rischia di non trovare  alcuna opposizione sul territorio. La campagna si è di fatto arenata, da un mese e mezzo non ci sono riunioni e assemblee e gran parte degli aderenti parrebbe scegliere il disimpegno  senza per altro fornire pubbliche spiegazioni .

Quando parte una mobilitazione che poi si sgonfia nell'arco di poche settimane dobbiamo porci alcune domande scomode e non trovare alibi, tutti abbiamo commesso errori e ammetterli è il primo passo per andare avanti.

Evidenziamo allora degli elementi critici: una campagna si costruisce quando i suoi aderenti vogliono reciprocamente ascoltarsi superando insieme due contraddizioni: le adesioni di carattere collettivo utili solo alle singole organizzazioni politiche per rivendicare la loro presenza nella mobilitazione anche se l'apporto fornito è di scarso peso, le adesioni invidiuali come risultato della incapacità di costruire un movimento di massa attorno ad alcuni obiettivi, prodotto della ancestrale paura di farsi strumentalizzare dalle strutture piu' organizzate che per fortuna  esistono ancora. Per noi non è questione tanto di metodo ma di prospettiva, i grandi movimenti esistono perchè ci sono forze organizzate che si mettono al loro servizio, magari per pilotarne le decisioni, ma i singoli da soli, anche quando scrivono e dicono cose giuete, non vanno lontano e per capirlo non serve scomodare Lenin. Quindi se ci si divide sulle questioni di metodo vuol dire che abbiamo perso di vista la sostanza del problema.

Le contraddizioni vanno analizzate per superare i nostri limiti e costruire un metodo di lavoro adeguato a far vivere dei percorsi reali, ragione per cui la querelle tra adesioni invidiuali e collettive è fuorviante e fotografa la incapacità di costruire mobilitazioni durature sui territori e un coordinamento stabile delle realtà contro la guerra e la militarizzazione dentro cui operare tutti\e con le nostre storie e i contributi che riusciremo a portare.

Uno dei limiti da superare è dato dalla idea che le petizioni possano rappresentare un momento di crescita, saranno sicuramente adatte all'agitazione mediatica ma inutili ai fini della costruzione di movimenti di massa.

Quando leggiamo i richiami alla Costituzione, all'articolo 11  (l'Italia ripudia la guerra), agli artt. 72 e 80  che impongono la ratifica formale di cambiamenti sostanziali nei trattati internazionali già stipulati. pensiamo immediatamente ai 30 anni di conflitti nel mondo con la presenza attiva dell'esercito italiano o di reparti speciali italiani impiegati nell'addestramento in paesi non certo esemplari per la difesa dei diritti umani, civili e sociali. Una Carta Costituzionale avanzata non ha impedito all'Italia di partecipare a guerre che di umanitarie non hanno nulla ma sono dettate solo da interessi imperialistici.

Smettiamola allora di richiamarci ad una Costituzione che non abbiamo saputo nè difendere nè tanto meno attuare, basti ricordare che all'indomani del Referendum costituzionale del dicembre 2016 nessuno dei promotori ha voluto assumersi l'onere di attaccare frontalmente la Legge Del Rio e lo smantellamento delle Province, men che mai i sindacati per la Costituzione che la Del Rio hanno tacitamente avallato. Basta ricordare che in queste ore troviamo presidi contro il pessimo Rosatellum che mettono insieme chi ha votato si e chi ha votato no al Referendum di un anno fa, cosa non si fa del resto per difendere le poltrone e aspirare a un seggio parlamentare.

Il richiamo alla Carta sarà utile per guadagnarsi la simpatia di qualche costituzionalista ma sicuramente non fa crescere il movimento contro la guerra visto che i conflitti ci sono stati anche quando a governare era il centro sinistra. E non ci risulta che i Saggi costituzionalisti abbiano organizzato gli studenti dei loro atenei per contrastare lo stravolgimento Costituzionale.

La Nato non ci protegge dalle guerre che anzi crea, costringendoci poi a parteciparvi. E' ora di ripensare la nostra adesione ma per farlo non servono  solo petizioni, bisogna fare un salto di qualità di cui non siamo stati fino ad oggi capaci.

Se saranno utili strumenti legislativi li utilizzeremo ma sia ben chiaro che non saranno solo gli scritti a risvegliare le coscienze o il motore con cui mettere in piedi la mobilitazione.

Il tema dell'antimilitarismo e dell'antimperialismo non ha diritto di cittadinanza ormai anche in molti movimenti antagonisti e conflittuali, c'è chi pensa che la contraddizione reale sia quella dell'Europa e della Bce e ritiene inutile o comunque non dirimente il contrasto della militarizzazione dei territori. La mia personale impressione è che questo sia un campo minato dentro il quale muoversi è sempre piu' difficile e per questa ragione si devia l'attenzione verso la difesa generica  dei beni comuni, del resto la speranza di molti è ritagliarsi spazi di welfare quando il welfare viene distrutto dalla previdenza e dalla sanità integrativa, dai tagli allo stato sociale oppure far finta che dentro la militarizzazione dei territori non ci siano anche i dispositivi di controllo sociale dai migranti alla Legge Minniti.

Che fare allora?

Intanto proviamo a costruire una lettura della realtà capace di mettere insieme chi combatte lo sfruttamento nei luoghi di lavoro con quanti contrastano la devastazione dei territori e la loro militarizzazione. E' uno sforzo immane  di cui farci carico per non dividere le forze unificando invece le campagne esistenti sui territori. Pensiamo alla iniziativa contro l'aumento delle spese militari che sottrae risorse ai salari. Le spese militari aumentano anno dopo anno come cresce la ricchezza destinata al capitale e alla specualazione finanziaria a discapito dei redditi da lavoro dipendente. Il sindacato è ormai schiavo del suo corporativismo e della rappresentatività in nome della quale ha accettato la vergogna del testo unico del Gennaio 2014 o la limitazione del diritto di sciopero. Dentro questa prassi servile ci sta anche la sottovalutazione della militarizzazione del territorio, la accettazione che si possa produrre armi per rilanciare l'occupazione quando ogni giorno si accetta la chiusura delle aziende e delle fabbriche senza mai scegliere di occuparle per rilanciarne la produzione sotto il controllo operaio.Le fabbriche occupate rappresentano una contraddizione intestina al modo di produzione capitalistico ma è una contraddizione da valorizzare e sostenere.

La parola d'ordine del boicottaggio si deve palesare dentro percorsi di solidarietà attiva, per esempio verso il popolo palestinese, ma anche verso le lotte della classe operaia di alcuni paesi, è solidarietà attiva ed antimperialista

Per quanto riguarda la militarizzazione dei territori è possibile riprendere una iniziativa efficace ?

 In linea teorica si, ma solo se partiamo da due considerazioni: la militarizzazione fa male ai territori e a chi vive al loro interno, passa attraverso la contrazione delle libertà collettive e di movimento, ridisegna l'urbanistica a uso e consumo di pochi. Costruire una ferrovia per il trasporto delle armi non passa solo dalla distruzione della macchia mediterranea ma dall'utilizzo degli areoporti come terminal non di passeggeri civili ma del trasporto e commercio di armi, non crea occupazione ma solo morti e distruzioni.

Allora iniziamo a guardare alla sostanza del problema senza dividersi in accademiche distinzioni, il problema non sta nelle adesioni individuali o collettive ad una campagna ma nella capacità di far vivere la campagna stessa nella società e nei luoghi di lavoro, nel farla assumere come priorità alle organizzazioni politiche (sempre piu' interessate alle elezioni e alla loro sopravvivenza istituzionale o ancorate a un ruolo di mera testimonianza), priorità per il sindacato (nel mondo i sindacati conflittuali in difesa dei diritti dei lavoratori sono anche attivi contro la guerra mentre le centrali sindacali moderate sono subalterne ai Governi, al capitale e anche all'imperialismo accettando ogni compromesso solo per far sopravvivere -sulla nostra pelle- il  loro ceto politico sindacale), priorità per le associazioni ambientaliste (il militare devasta i territori che non si difendono solo con gli orti urbani) priorità per le realtà sociali (spendiamo i soldi delle spese militari per la sanità, la casa e l'istruzione).

Da qui allora bisogna ripartire per mettere in piedi un movimento contro la guerra capace di unire istanze, pratiche e percorsi diversi ma tutti finalizzati ad un solo obiettivo. Siamo tutti chiamati a compiere uno sforzo rinunciando anche a parte delle nostre certezze che negli anni hanno spesso prodotto risultati poco edificanti. Una proposta praticabile potrebbe essere quella di attraversare lo sciopero del 27 Ottobre dalle tematiche contro la militarizzazione del territorio. La strada è lunga e impervia, sta a noi decidere se vogliamo intraprendere il percorso o rifugiarci nelle nostre piccole certezze che negli anni ci hanno relegato a ruoli marginali e insignificanti.

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