Una recensione su Volantini Militanti

 

di Tiziano Tussi

In piena era DDL Zan, Gay Pride, Gender e transgender, LGBT+ fa bene leggere alcune considerazioni di Daniela Danna, sociologa, docente all’Università Statale di Milano. Patiamo da un opuscolo nella collana volantini militanti (Asterios, Trieste, 2020). Qui la trattazione riguarda la questione, ormai molto dibattuta, tra sesso e genere. Parrebbe che ricordare che i sessi sono solo due porti necessariamente a posizioni omofobe e similari. Ma la confusione che viene fatta tra il sentirsi in un certo modo in un corpo, appartenente necessariamente a uno dei due sessi, e l’ovvia naturalità di essi, non esclude successivi interventi chirurgici; mettere un po’ d’ordine in queste faccende non ne fa derivare obbligatoriamente comportamenti di chiusura mentale, con conseguenze disastrose ed un pensiero discriminatorio. 

Ma la vischiosità tra i due ambiti, ordine sessuale e repressione/denigrazione sociale, e l’egemonia che ora, anche con il decreto Zan si vuole porre in atto, in definitiva con l’egemonia del genere sul sesso, può portare ad assurdità quali un pene femminile o una vagina maschile. Conseguenze possibili con la supremazia che abbiamo indicato. Con ovvie e complicate conseguenze e confusioni sociali di grande imbarazzo. Nell’opuscolo vengono citati aspetti quanto meno paradossali di questo sentirsi diversamente dal sesso di appartenenza. Certo, nella vita degli umani accadono grumi di problematiche complessi, ma elevare una difficoltà di riconoscimento stabile a stile di vita da estendere all’universale è quanto meno pretestuoso. La vita si mostra sovente già così difficile, piena di problemi. Pretendere poi un’assoluta indeterminatezza, quale modo di vivere, serve veramente a nulla. 

Anche nel modo di scrivere, nella lingua, ogni volta specificare il maschile e femminile - ma quale indicare prima poi? -, e cercare di risolvere tutto con asterischi è più la confessione di una difficoltà che un modo per risolverla. Così come la cancel culture, mostra la sua pochezza quando si vuole distruggere una statua che ricorda un avvenimento o una persona di secoli fa, senza fare riferimento al tempo storico. Ecco al fine si dovrebbe considerare ogni tentativo di azzeramento di ogni differenza, linguistico-sociale-fisico-culturale, come una negazione storica.  Volere elevare qualsiasi richiesta politico-sociale all’assoluto non nasconde né cambia le problematiche aborrite, le fa solo apparire inutilmente insidiose per la naturalità della condizione di vita. A meno che non si voglia proporre la negazione del concetto stesso di naturalità. Il discorso si farebbe perciò molto specifico e tendente alla singolarità. 

Non si tratta di contestare la liceità di una vita quale che sia per ognuno, quale che sia il suo modo di sentirsi, ma questo non deve trascendere in richieste universali. Già è difficile vivere come il nostro equilibrio psico-fisico ci richiede, assurdo pretendere un comportamento simile per ogni umano sulla terra. 

Pretendere una sensibilità uguale alla nostra, di ognuno di noi, non è assolutamente possibile. In fondo ogni uomo è un’isola. Perciò maggiore considerazione degli aspetti macro-sociali sarebbe necessari. La lettura di questo scritto di Danna, ci può dare qualche strumento in più per posizionarsi meglio in un ginepraio di considerazioni non sempre facili a districarsi chiaramente e definitivamente.

L’altro scritto, sempre di Danna, di pochi anni fa (Laterza, Bari-Roma, 2017) si situa nel campo della gestazione surrogata (Gpa). Anche queste considerazioni rientrano in quel mondo, che oramai, sulla scorta della felice istantanea di Zygmunt Bauman, definiamo tranquillamente come liquida. Ma anche in questo caso la maternità- mater sempre certa est – rientra nella naturalità di un rapporto ben individuabile. La madre è sempre certa, è colei che mette al mondo, prima non lo era, al mondo, nella socialità del mondo, una vita che poi si stacca da lei per entrare a fare parte della società allargata, ma, ed è questo che è inoppugnabile, mantiene con chi l’ha messa al mondo una relazione particolare, speciale, indimenticabile ed insuperabile. 

Pensiamo a tutte le problematiche che si innescano quando un nuovo nato non riesce a sapere chi è il padre, e pensiamo che ancora più sconvolgenti diventano tali richieste psicologiche quando la nuova vita non riesce a sapere, vien staccata, da chi l’ha tenuta con sé nove mesi circa, in un rapporto simbiotico in cui scambi di vita, sangue, alimenti, sensazioni, suoni, voci, movimenti hanno costruito il momento unico della maternità. 

Unico e ripetibile ma ognuno unico in sé. Anche per questo passaggio di vite, pensare sia giusto chiedere ai componenti di questo rapporto essenziale una rottura definitiva e concepirla come una comune possibilità di comportamento umano, magari definito da regole, rapporti giuridici, leggi o altro, significa proprio passare sopra la naturalità ed unicità del rapporto stesso. 

Ma se la surrogazione diventa poi la chiave d’accesso alla possibilità, per coppie omosessuali, quasi sempre maschili, di avere figli, ecco che possiamo capire come sia possibile, sempre per quel mondo della liquidità ad ogni costo, reclamare un diritto che la natura impedisce. Due maschi non possono produrre figli, e questo è inequivocabile. Ci si dovrebbe astenere da questa richiesta non naturale ed accettare che esistono limitazioni ad un rapporto, anche d’amore, omosessuale maschile. 

Per le donne evidentemente il tutto appare con qualche difficoltà in meno, ma similmente alcune considerazioni definitive possono farsi anche per coppie di omosessuali femmine. E se andiamo come riferimento all’Antica Grecia, ecco che i ben nati maschi ateniesi, potevano avere un comportamento sessuale che oggi definiremmo bisessuale, con figli che nascevano anche grazie a padri che praticavano anche rapporti omosessuali, ed anche pederastici. La differenza era che i padri avevano questi figli in famiglia, in qualche modo, o da concubine, che rientravano nell’ambito famigliare. 

Ma la gestazione surrogata prevede la rottura del rapporto madre figlio/a. Non è la stessa cosa. Insomma, un po’ più di chiarezza anche su questo punto e il rifiuto per una pretesa di possibilità commerciale, di scambio, tra una maternità come servizio per altri, un figlio    da cui staccarsi appena nato contro un corrispettivo in denaro: che questo libero scambio sia giusto appare poi anche cinicamente moderno, una libera contrattazione sulla pelle di più persone. 

Non si può, in nome della liquidità di pensiero e di ricchezza, accettare ogni rapporto sociale squilibrato: sono sempre i ricchi a potere usufruire di servizi di tal fatta, mentre sono le povere che surrogano e si fanno togliere i figli per denaro. Non è possibile, in nome della disponibilità di beni, di ricchezza, pensare sia lecito comprare in modo indifferenziato: oggetti e/o persone. Già esiste tale possibilità, ma che rimanga una vergogna per chi compra, non si abbia anche la pretesa di considerarlo come uno scambio lecito, naturale, al pari di altri tipi di rapporti commerciali. È possibile in ogni caso rifiutare l’accettazione di tanta protervia. La vita reale non dovrebbe essere confusa con un video gioco à la Squid game.

 

Daniela Danna, Sesso e genere, Asterios, Trieste, 2020, p. 46, € 3,90.

Daniela Danna, Fare un figlio per altri è giusto. Falso, Laterza, Bari-Roma, 2017, p. 150, € 12.   

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