M. D’ALEMA: IL CASO ALMASRI E IL CASO OCALAN
Antonio Gramsci oggi febbraio 2025
M. D’ALEMA: IL CASO ALMASRI E IL CASO OCALAN
Le problematiche nelle quali si è dibattuto il governo per il caso libico di Almasri tornano in pista dopo una intervista a D’Alema (il Manifesto del 14 febbraio u.s.) che riguarda l’atteggiamento tenuto dall’esecutivo politico governativo per il caso Ocalan.
Storia che si perde un pó nel passato, 1998, ma che ci può rendere la differenza tra i governanti di allora e quelli di oggi. D’Alema era da poco presidente del Consiglio e nell’intervista di oggi narra del comportamento tenuto dal governo e da Ocalan che si concluse con un suo rapimento, cui lo stato italiano era del tutto estraneo, in Kenya e la consegna dello stesso, da parte dei servizi segreti israeliani, alla Turchia, Paese che ancora oggi lo vede nelle sue carceri. D’Alema rivendica l’ignoranza dell’arrivo di Ocalan da Mosca e ricorda il ruolo che svolse Ramon Mantovani, per Rifondazione Comunista, nell’affaire. In soldoni: Ocalan arriva e viene preso in carico dalla forza pubblica italiana e poi dalla magistratura che decide di rilasciarlo e lo stato di proteggerlo.
Nonostante le pressioni degli USA della Turchia e degli imprenditori italiani che avevano rapporti commerciali con Ankara, finché è in Italia la situazione sua non cambia, non viene estradato. Ocalan dopo due mesi di soggiorno protetto in Italia decide di andarsene con l’obiettivo di entrare in Sud Africa e da lì svolgere l’attività politica che desiderava e poteva svolgere.
Durante il percorso aereo viene sbarcato a Nairobi in attesa del resto del volo e lì viene preso in arresto dai servizi segreti israeliani e poi regalato alla Turchia. D’Alema rivendica, comunque, l’azione indipendente del governo italiano dicendo che, quando sono gli USA a premere “…la cosa ha un certo peso. Con garbo gli si può dire di no…
Siamo un paese libero se vogliamo fare uso della nostra libertà.” Tutta diversa la condotta attuale dell’attuale governo italiano per il caso Almasri. Lo sbracamento nei confronti della Libia, non degli USA, è stato completo e pusillanime. Certo che abbiamo interessi da difendere, ma c’erano anche allora, certo che abbiamo timori fondati verso i comportamenti criminali di quel paese, ma nulla impediva altra risoluzione. E poi la Libia neppure esiste, sussistendo almeno tre strutture pseudo statali in quella regione.
È chiaro che ritorsioni anche terroristiche, in caso di trattenimento di Almasri potevano essere messe in atto, ma se non possiamo neppure resistere verso un coriandolo di stato come la parte della Libia in cui agisce Almasri ben poco possiamo fare in altri contesti.
Sempre dalle colonne de il Manifesto (15 febbraio u.s.), Ramon Mantovani, chiamato in causa da D’Alema cerca di precisare, contraddicendo, alcuni passaggi dell’intervista dell’ex presidente del Consiglio per fare rifulgere ancora di più la figura di Ocalan e la causa del popolo curdo. In fondo non aggiungendo molto a quello che cerchiamo di mettere in luce e cioè che il comportamento della classe politica del secolo scorso, e non solo di D’Alema, è nettamente superiore a qualsiasi modo di comportarsi da parte dell’esecutivo in questo secolo.
Il senso dello stato, la capacità di lavorare in esso, cercando di non sbracare troppo, gioca a tutto favore del passato. Il nostro presente governo non riesce a trovare una bussola per un indirizzo strategico per la questioni più spinose di politica estera. Lo vediamo anche nei confronti della questione Trump (con Musk appresso).
I nostri dirigenti si trovano spiazzati da ogni comportamento che tiene l’amministrazione americana. I giochi internazionali sulla testa dell’Ucraina e dei palestinesi, tanto per citare i casi di problematiche più presenti sullo scenario. Con anche altri casi che sono da tempo ignorati dalle potenze maggiori e che perciò anche per i nostri governanti sono di poca attenzione – Sudan Congo Yemen Bangladesh/Birmania. Solo per fare alcuni esempi. Litanie ripetute sino allo sfinimento, esempio: due popoli due stati, per il caos palestinese – che non hanno più ragione di essere. E, sempre per questo ultimo esempio, l’accodarsi alle più triviali forme di commento sul tappeto internazionale da parte di altri Stati. Insomma, un pasticcio reiterato che viene comunque esaltato dai ceriferi del partito di governo e dai dioscuri di Meloni.
Balbettanti posizioni che non servono a molto, ma continuamente ripetute, dimostrano che di idee ve ne sono poche e così pure i comportamenti politici internazionali viaggiano in questo senso. Almeno la classe politica del secolo scorso qualche idea e qualche scelta, non sempre, la faceva.■
Storia e Attualità
LUDOVICO GEYMONAT, UN RICORDO.
di Tiziano Tussi
Un ricordo di Ludovico Geymonat (1908-1991) ora che non scade nessun anniversario che lo riguardi, ora che si ricordano invece gli ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale e della lotta di liberazione italiana, contemporaneamente, assieme ad altri fenomeni tragici, come la liberazione del campo di sterminio di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa di Stalin. Ricordare ancora una volta Geymonat lo possiamo fare in quanto lo stesso agì da partigiano in quegli anni. Quindi siamo motivati a farlo.
Prendo spunto da due miei scritti di due diversi convegni: il primo si intitola Filosofia, scienza e vita civile nel pensero di Ludovico Geymonat, del 2001, a dieci anni dalla morte (libro del 2003, La città del Sole, Napoli); Il secondo dopo qualche anno, nel 2008, Ludovico Geymonat. Un maestro del Novecento. Il filosofo, il partigiano e il docente (libro del 2009, Unicopli, Milano.) Entrambe i convegni ed i libri a cura di Fabio Minazzi.
Inizio da ciò che scrissi nel primo degli Atti del primo convegno.
La partenza non può che essere la conferma che la scienza non posa essere staccata dalla storia e dalla politica ad essa intrecciate, sono stringenti i nessi filosofia e storia, pensiero e azione, riflessione teorica e mondo della prassi. * Non è possibile, per Geymonat che “la scienza possa venire separata dalla concezione razionalistica del mondo in essa implicita [e che] i risultati della scientificità possano venire considerati come filosoficamente neutrali.”* Una sottolineatura che Mario Vegetti rimarcherà poi su Liberazione del 7 dicembre 1991: ...ma il Geymonat filosofo non può in alcun modo essere separato dal Geymonat comunista.” Ma quale tipo di comunista era? A Ludovico era particolarmente simpatico Mao Zedong. Su Stalin aveva delle preclusioni pur riconoscendo i suoi meriti, soprattutto durante la Seconda guerra mondiale. “Compresi abbastanza presto che lo sviluppo dell’umanità sarebbe stato dominato dal realismo e questa constatazione mi permetteva di comprendere adeguatamente anche il governo tirannico dell’Unione Sovietica attuato da Stalin.” Ma anche questa presa d relativa distanza da Stalin non bastava agli intellettuali di altra collocazione politica, lontana da quella di Ludovico. I nomi sono quelli di Popper e dei suoi difensori nazionali come Dario Antiseri. Due interventi sul Corriere della Seta del 9 luglio 1996, di critica a Ludovico e di esaltazione del mondo liberale: “…abbiamo la più piccola quantità di tortura le punizioni meno crudeli, non conosciamo la povertà di massa…” Elenchi di ritardi sociopolitico e di tragedie internazionali che potevano essere fatte allora, dimostrando l’ottimismo ubriaco anche in quel tempo, ma che alla luce della situazione internazionale contemporanea appaiono ancor più risibili le parole riportate sopra.
Un altro problema politico lo vide partecipe: il 68. “Confesso che in un primo momento stentai a capre l’importanza della rivolta degli studenti… devo ammettere di non aver compreso che sotto quelle caotiche apparenze si celava qualcosa di serio, anzi di molto serio. Credo che uno dei fattori che inizialmente mi rese difficile la comprensione dell’importanza della rivolta fu l’accettazione entusiastica …della filosofia di Marcuse che ritenevo e ritengo irrazionalistica e sostanzialmente reazionaria…però avrei dovuto riuscire a vedere la situazione più a fondo… Quando con il trascorrere degli anni, le cose cominciarono a chiarirsi ….corressi a poco a poco la mia primitiva posizione…in questa revisione…fui aiutato dal colloquio franco e risoluto per esempio, con Mario Capanna…Il nuovo slancio che il marxismo-leninismo conobbe in quegli anni mi incoraggiò a proseguire su quella linea…”
Mondato da tali incrostazioni anti-ribelliste Ludovico affronta anche la figura di Gramsci: “Attualmente (1979, ndr) non mi pare che il pensiero di Gramsci eserciti un’influenza notevole sulla società italiana. Ciò perché esso è stato presentato…come frutto dell’evoluzione del pensiero crociano. [Considerata] l’inadeguatezza di Benedetto Croce ad affrontare e risolvere i problemi della nostra società, ecco che facendo discender Gramsci da Croce [lo si fa risultare] invecchiato ed inidoneo. Bisogna invece impostare una battaglia per recuperare il Gramsci combattente, rivoluzionario che ha dato un’impronta alla politica italiana.”
In questa critica ad un’analisi parziale di Gramsci, Geymonat evidenza una sorta di catena di Sant’Antonio che mette assieme Croce, Gentile, Gramsci e Togliatti, tutti lontani dal pensiero scientifico. Soprattutto Togliatti era aspramente criticato. “credo che il tentativo [rivoluzionario alla fine della Resistenza] andasse fatto. Almeno sarebbe rimasto nella coscienza collettiva. In fondo Togliatti si adoperò molto per impedirlo.” “Il PCI si oppose [dopo la Seconda guerra mondiale] alle nuove correnti artistiche, alle ricerche di logica formale, agli indirizzi di filosofia positivistica, allo spirito critico che stava penetrando nella scienza, ecc. Molte furono le manifestazioni di questa chiusura, ma la più clamorosa fu senza dubbio la condanna ad opera di Togliatti del Politecnico di Vittorini.”
Un tessuto culturale molto denso che non tralascia lo sfondo di compartecipazione tra teoria e prassi che però deve essere ben chiarificato alla luce della ricerca scientifica: “Ciò non significa che sia la prassi a dettarci i principi delle teorie; ossia non significa che il materialismo dialettico si riduca a una forma di pragmatismo…” Anche nel Contemporaneo, supplemento della rivista “Rinascita” Geymonat spinge sul pedale dell’Illuminismo: “ Il pensiero marxista…non è soltanto l’erede di Hegel ma anche di Galileo e dell’illuminismo.” Insomma una continua interlocuzione tra piani diversi ma che si debbono confrontare necessariamente. Per Geymonat la lotta di classe è l’unico movimento dialettico che serve per conoscere. Ancora Mao: “Secondo Mao il mondo esterno esiste oggettivamente e noi possiamo trasformalo solo in quanto le nostre idee si conformano alle sue leggi…. Se l’uomo fallisce ne trarrà insegnamento e correggerà le sue idee e le conformerà alle leggi del mondo esterno, trasformando così la sconfitta in vittoria.” Una chiusura, momentanea, di un discorso circolare, dialettico, che vede i campi delle teorie e della politica dialogare, questo si può dedurre nell’insegnamento di Geymonat.
Così come appare anche negli studi del secondo convegno da cui riporto, dal mio scritto, alcune, poche, sue enunciazioni. Mi piace ricordare la posizione di Geymonat sui “sofisti”. Considerazioni che sembrerebbero essere come una curiosità di poco conto, in effetti hanno importanza. La rivalutazione di questa scuola lo porta a metterla in relazione con il lavoro dell’operaio. I “sofisti” erano famosi per, si direbbe ora, spaccare un capello in quattro. La loro insistenza sulla terminologia era proverbiale, raggiungeva stranezze terminologiche e teoretiche che lasciavano stupefatti. Dimostrando però anche una profonda conoscenza dei tranelli della lingua e delle parole. “Il bravo operaio moderno sa che c’è un solo mezzo onde conoscere a fondo una macchina: quello di imparare a smontarla e rimontarla per scoprine i guasti e riparali. In modo analogo il greco del V secolo apprese a conoscere la difficilissima macchina della lingua.”
Oltre alla sottolineatura sofistica Geymonat si indirizza anche alla presa in carico del sentimento dell’amore. Questo in un libro pubblicato nel 1989 da Rusconi, I sentimenti, parte di un testo più corposo, del 1945. Riguardo della discussione sull’amore possiamo pensare ad un frammento di Hegel, “nell’amore ciò che è diviso è come unificato”. All’interpretazione dell’amore da parte dei filosofi che Marx accomuna nella “critica critica”: “…amore come divinità crudele” ed Engels annota che in queto caso si trasforma “…l’uomo che ama nell’amore dell’uomo, separando dall’uomo l’amore come essenza particolare.” Questo nella Sacra famiglia. Ovvero Critica della Critica critica. Contro Bruno Bauer e soci (Varie edizioni) Geymonat lo rileva proprio nel periodo della lotta di Resistenza. Durante la quale l’amore si palesava come un obiettivo troppo lontano da raggiungere, come lui dice “esasperato”. Ma assolutamente reale. Mettendosi perciò, anche in questa considerazione nella scia di Marx ed Engels.
Chiudiamo con l’interpretazione da dare al termine ideologia, per cercare così di svecchiare il pensiero politico dalle scorie che troppi cantori del liberalismo vi vogliono incollare. “Certamente il termine ideologia può venire inteso in senso deteriore e allora significa chiusura, dogmatismo, astrattismo, ma può anche venire inteso in senso diverso, come esplicita ed attenta elencazione di alcuni temi da ritenersi fondamentali …. Così interpretata l’ideologia disturba soltanto chi non ama la chiarezza, né le prese di posizioni nette.”■
BOX
La verità.
Cercando per caso un articolo de La verità, Mi è bastato andare a Bangkok per capire che Milano è fuori strada di Francesco Bertolini che loda la purezza dell’aria di quella città. Sempre in rete poi un piccolo filmato sulla coltre di smog che aleggia su Bangkok. Ma allora? Mi chiedo se sui giornali di destra debba sempre esserci una interpretazione critica totale per ogni aspetto che riguardi il mondo della “sinistra”, qualunque cosa il termine possa significare. Sino ad arrivare al ridicolo. Ho cercato anche sull’elenco delle città più inquinate del mondo (dati del 2023), e le prime sono tutte indiane, pauroso. Bangkok occupa il posto 1052, mentre Milano il posto 1269. Insomma, perché sparare palle per il gusto di stupire. ■
Tiziano Tussi
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