L'architettura deterrente del programma nucleare iraniano: tra ambiguità strategica e ricerca di legittimità
L'architettura
deterrente del programma nucleare iraniano: tra ambiguità strategica e ricerca
di legittimità
Alejo Sanchez Piccat - 23 aprile 2025
Traduzione a cura del Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati
Parlare del programma nucleare iraniano significa
parlare di un processo decennale che combina ambizione geopolitica, logica di
deterrenza e risposte all'isolamento. Nato negli anni '70 con l'appoggio
occidentale sotto il regime dello Scià, riorientato dopo la rivoluzione
islamica e potenziato negli anni 2000 come parte di una strategia di autonomia
tecnologica, il progetto nucleare iraniano è mutato fino a diventare il fulcro
della sua politica estera.
La svolta è stata il 2015. Il Joint Comprehensive Plan
of Action (JCPOA), firmato con l'E3+3 (Stati Uniti, Regno Unito, Francia,
Germania, Cina e Russia), ha limitato la capacità di arricchimento dell'Iran,
ha ridotto la soglia consentita di purezza dell'uranio al 3,67%, ha stabilito
un massimo di 300 kg di riserve arricchite e ha sottoposto le sue strutture al
monitoraggio dell'AIEA con accesso giornaliero. In cambio, le sanzioni
multilaterali sono state revocate e i beni congelati sono stati sbloccati. È stato,
almeno formalmente, un esercizio di diplomazia di successo.
Questo quadro è crollato nel 2018,
quando Donald Trump ha ritirato unilateralmente gli Stati Uniti dall'accordo e
ha avviato una politica di "massima pressione" con sanzioni
finanziarie, embarghi petroliferi e isolamento diplomatico. L'obiettivo era
quello di costringere Teheran a negoziare un nuovo accordo con condizioni più
severe. Il risultato è stato esattamente l'opposto: dal 2019 l'Iran ha iniziato
a infrangere ogni impegno, aumentando il livello e il volume dell'uranio
arricchito, installando centrifughe avanzate e aumentando l'opacità sulla sua
attività nucleare.
L'uscita dall'accordo non solo ha
messo a dura prova gli equilibri diplomatici, ma ha spinto il regime iraniano
in una crisi senza precedenti. Economica, sociale e politica. Proteste interne,
calo del potere d'acquisto, erosione dell'apparato repressivo e frammentazione
della sua influenza regionale. In questo contesto, il programma nucleare ha
cessato di essere uno strumento di negoziazione per diventare una struttura
strategica di contenimento. Non si trattava più solo di proiettare potenza, ma
di evitare il collasso.
Oggi, con l'Iran che accumula uranio
arricchito al 60%, con l'AIEA senza accesso tecnico dal 2021 e con un tempo di breakout stimato in meno di una
settimana, la discussione non ruota più intorno al fatto che cerchi di
costruire un'arma. Ruota attorno a quanto margine sei disposto a rinunciare per
non perdere la capacità di farlo.
Il ritorno di Trump, l'indebolimento dei fronti
regionali e l'indebolimento dell'economia interna hanno messo l'Iran di fronte
a un'equazione familiare: pressione senza oltrepassare il limite. Ma questo
equilibrio è sempre più instabile. Il programma nucleare non è più uno
strumento tecnico. È una carta politica. Un piano che l'Iran non ha ancora
giocato, ma che mantiene visibile. E la cui sola presenza condiziona ogni
movimento nella regione.
Lo stato attuale del programma nucleare
Da quando l'Iran ha smesso di attuare il Protocollo
aggiuntivo e ha ritirato le apparecchiature di monitoraggio dell'AIEA nel
febbraio 2021, il programma nucleare è entrato in una fase di espansione
sostenuta, difficile da tracciare con precisione e sempre più complessa da
contenere. Quattro anni dopo, il risultato è chiaro: l'Iran non è più una potenziale
minaccia, ma un attore con una reale capacità tecnica di diventare una potenza
nucleare in tempi operativamente brevi.
Secondo l'ultimo rapporto dell'Agenzia internazionale
per l'energia atomica, all'8 febbraio 2025 l'Iran ha accumulato più di 8.290
chilogrammi di uranio arricchito. La cosa più importante non è solo la
quantità, ma la qualità: più di 600 kg al 20% e quasi 275 kg al 60%, un livello
appena sotto la soglia tecnica del 90% necessaria per fabbricare un'arma
nucleare. Con quel volume, e con la tecnologia disponibile, l'Iran ha
abbastanza materiale per fabbricare tra le due e le cinque armi, a seconda del
progetto.
L'arricchimento viene eseguito in tre strutture
chiave: Natanz (FEP e il suo impianto pilota PFEP) e Fordow (FFEP), dove
operano più di 80 centrifughe a cascata attive, inclusi i modelli IR-1, IR-2m,
IR-4 e IR-6. Questi ultimi, che sono significativamente più efficienti,
consentono all'Iran di elaborare volumi maggiori in meno tempo. In alcune di
queste cascate, l'esafluoruro di uranio (UF6) al 20% viene già introdotto come
materia prima per raggiungere livelli fino al 60%, il che accelera il processo
di arricchimento finale.
Ma il punto critico non è solo la quantità di uranio
che l'Iran possiede, ma cosa può fare con esso. Sia l'Associazione per il
Controllo delle Armi che Iran Watch concordano sul fatto che il paese dispone
delle infrastrutture necessarie per effettuare la conversione dell'UF6 in
uranio metallico, un passo fondamentale per realizzare il nucleo di una bomba.
Inoltre, ci sono indicazioni che potrebbe essere in grado di costruire un
sistema di detonazione multipunto, necessario per un'efficiente esplosione per
implosione.
Resta il punto più delicato: la resa. Mentre l'Iran
non ha testato pubblicamente una testata nucleare miniaturizzata, il suo
programma di missili balistici ha vettori come lo Shahab-3 o il Sejjil, che
potrebbero tecnicamente essere adattati per trasportare una testata nucleare se
ci fosse la volontà politica di muoversi in quella direzione.
Tutto questo porta a un fatto che trasforma la
percezione strategica del programma: il tempo di pausa. Prima del crollo del
JCPOA, il cosiddetto breakout time
era di circa dodici mesi. Oggi, gli analisti più prudenti lo stimano in meno di
una settimana. Ciò non significa che l'Iran abbia una bomba pronta per l'uso,
ma significa che potrebbe arricchire il materiale necessario in sette giorni.
Mettere insieme un dispositivo funzionale, anche rudimentale, richiedeva da sei
mesi a un anno. In altre parole: la soglia tecnica è già stata superata. Ciò
che resta da fare è una decisione politica.
Questo punto di svolta è ciò che definisce l'attuale
fase del programma nucleare iraniano. Non ci sono prove conclusive che il
regime voglia produrre un'arma, ma tutto indica che cerca di dimostrare che
potrebbe farlo in qualsiasi momento. E quell'ambiguità, misurata, calcolata e
sostenuta, è ciò che rende il programma uno strumento di potere, anche senza
esplodere.
Dinamiche regionali: ritirata strategica e slancio nucleare
La politica estera dell'Iran non si spiega solo
attraverso il suo programma nucleare. Negli ultimi due decenni, Teheran ha
articolato la sua influenza regionale da una rete di attori non statali,
alleati politici e posizioni strategiche che costituivano quello che molti
analisti chiamavano "l'asse della resistenza". Libano, Siria, Iraq,
Yemen, Gaza: ognuno di questi spazi ha funzionato come fronte indiretto di
confronto con Israele e, in misura minore, con gli Stati Uniti. Ma
quell'architettura del potere ha cominciato a mostrare delle crepe.
Negli ultimi due anni, l'Iran ha perso manovrabilità
in molti di questi scenari. Hezbollah, tradizionalmente il suo braccio più
consolidato nella regione, è indebolito dalla pressione economica, dalla crisi
politica libanese e da una crescente erosione sociale della sua legittimità
interna. In Siria la situazione è ancora più critica: la perdita del controllo
territoriale del regime di Bashar al-Assad, unita ai bombardamenti israeliani
sulle posizioni iraniane e all'instabilità del corridoio terrestre tra Teheran
e il Mediterraneo, hanno gravemente compromesso la proiezione logistica
dell'Iran.
In Yemen, gli attacchi guidati dagli Stati Uniti
contro gli Houthi dall'inizio dell'anno hanno interrotto una delle linee di
pressione iraniane più attive sull'Arabia Saudita e sul traffico marittimo. A
Gaza, l'offensiva israeliana dopo gli attacchi del 7 ottobre, insieme al
crescente isolamento di Hamas, ha deteriorato un altro elemento chiave di
influenza per l'Iran. Anche in Iraq, dove le milizie sciite hanno mantenuto
stretti rapporti con Teheran, il margine di azione è stato ridotto dalla
pressione sociale interna e dai cambiamenti nella leadership politica.
Questa perdita di coesione sul fronte esterno lascia
l'Iran in una posizione più reattiva che espansiva. Non si tratta di un
isolamento assoluto, ma di una concreta riduzione del loro potere contrattuale
sullo scacchiere regionale. E in questo contesto, il programma nucleare non è
più solo una carta tecnica: diventa uno strumento di stabilizzazione. Se la
capacità di proiettare il potere verso l'esterno è limitata, la capacità di
generare deterrenza dall'interno diventa cruciale.
Il segnale è chiaro: l'Iran non può avanzare
territorialmente, ma può stabilire che un passo falso può portare a conseguenze
irreversibili. È lo stesso principio che ha sostenuto la deterrenza classica
durante la Guerra Fredda, adattato a un ambiente in cui la soglia tra capacità
e volontà è sempre più sfumata. Oggi, il fatto che l'Iran sia più vicino che
mai allo sviluppo di un'arma nucleare non è solo una logica difensiva o
simbolica: risponde alla necessità di non perdere rilevanza in una regione in cui
le regole del gioco stanno cambiando.
Il cambiamento strategico israeliano – attacchi
diretti alle infrastrutture militari iraniane in Siria, omicidi mirati,
operazioni di precisione – ha segnato un cambio di fase. Non si tratta più solo
di contenimento segreto o di sabotaggio, ma di imporre costi materiali
all'apparato di proiezione del regime. E in questa dinamica, Teheran ha bisogno
di recuperare una forma di pressione che compensi l'asimmetria tattica. La bomba
non ha bisogno di essere utilizzata: è sufficiente che sia abbastanza vicina da
poter rientrare nuovamente nell'equazione.
Il ritorno ai negoziati con gli USA
Dopo anni di stallo, l'Iran e gli Stati Uniti sono
tornati al tavolo dei negoziati. La sede scelta, l'Oman, non è una coincidenza:
neutrale, silenziosa e politicamente accettabile per entrambe le parti. Lo
scenario, però, è molto diverso da quello del 2015. Non c'è più alcuna
discussione su come limitare l'avanzata del programma nucleare iraniano.
Discute su come gestire la loro esistenza senza oltrepassare la soglia visibile
del conflitto aperto.
In questo nuovo ciclo, il margine per un accordo
sostanziale è più stretto che mai. Da parte iraniana, le condizioni sono
chiare: revoca delle sanzioni, garanzie di non uscita unilaterale da parte
degli Stati Uniti (come è accaduto sotto Trump) e riconoscimento del diritto a
un programma nucleare pacifico, anche con livelli di arricchimento superiori
alla soglia del JCPOA originale. Teheran non è disposta a tornare a un quadro
in cui cede capacità senza ricevere in cambio solide garanzie.
Da parte degli Stati Uniti, la posizione pubblica è
meno flessibile: smantellare i guadagni dopo il 2019, tornare ai limiti tecnici
dell'accordo originale e un nuovo regime di verifica più rigoroso. Ma il
ritorno di Trump alla Casa Bianca complica ogni aspettativa di continuità
diplomatica. La sua squadra ripete la logica della "massima
pressione", e lo stesso presidente ritiene che negoziare da una posizione
di potere sia più efficace che ripristinare complessi schemi multilaterali.
Ciò che è in gioco, alla fine, non è solo l'accordo in
sé, ma la credibilità della diplomazia come strumento per la risoluzione delle
crisi. Per questo motivo, alcuni analisti hanno già iniziato a parlare di
"rischio Singapore", alludendo all'incontro tra Trump e Kim Jong-un
nel 2018. Molta aspettativa, molta copertura mediatica e un risultato nullo. Un
accordo senza sostanza, che non ha limitato il programma nucleare della Corea
del Nord né prodotto progressi verificabili.
L'Iran conosce questo precedente. E conosce anche la
sua nuova posizione: senza solidi alleati regionali, con una crescente
pressione interna e con un'economia sull'orlo del collasso strutturale, la
diplomazia potrebbe essere la sua unica via d'uscita praticabile. Ma non a
qualsiasi prezzo. La mossa di Teheran è duplice: mantenere il programma
abbastanza attivo da essere rilevante, ma non così attivo da costringere
all'intervento. Una zona grigia gestita con cura.
La domanda è se Washington – questa volta con Trump al timone – sia
disposta a negoziare all'interno di tale ambiguità. O se, al contrario,
scommette su un accordo rapido, esteticamente funzionale, ma strutturalmente
vuoto. Il rischio è evidente: ripetere la logica di Singapore. E per
svegliarsi, mesi dopo, con un Iran che non solo ha continuato ad avanzare, ma
lo ha fatto con una legittimità negoziata.
Tra deterrenza e sopravvivenza del regime
L'Iran non ha bisogno di far esplodere una bomba per
sconvolgere l'equilibrio regionale. Gli basta essere in grado di costruirla.
Quella soglia – quella della capacità latente – è oggi la sua principale
risorsa strategica, non solo contro i suoi nemici esterni, ma anche contro la
sua stessa popolazione e le élite interne. In un regime in cui la legittimità
non si basa più solo sulla rivoluzione o sulla religione, la capacità di
resistere alle pressioni esterne diventa un argomento di sopravvivenza.
L'andamento del programma nucleare non deve essere
letto in termini puramente militari. È uno strumento di stabilizzazione interna
e un modo per mantenere l'influenza regionale in uno scenario sempre più
avverso. Con le sue alleanze indebolite, le sue rotte di rifornimento
compromesse e la sua economia in uno stato di emergenza permanente, il regime
ha bisogno di reinstallare una minaccia credibile che bilanci l'usura
strutturale che deve affrontare.
Ecco perché, piuttosto che una corsa agli armamenti,
ciò che vediamo è una strategia di pressione calibrata. L'Iran ha imparato che
un programma sufficientemente avanzato può produrre lo stesso effetto
deterrente di un'arma operativa. E la posta in gioco non è una detonazione, ma
la conservazione del suo margine d'azione in un ordine internazionale sempre
più ostile agli attori non allineati.
La bomba, in questo senso, non è un bersaglio. È una lettera. Quella che il regime custodisce con cura per non doverla giocare, ma affinché tutti sappiano che è nelle sue mani.
Commenti
Posta un commento