Perché i dazi avvicinano la guerra fra superpotenze?
Perché i dazi avvicinano la guerra fra superpotenze?
E. Gentili e F. Giusti
Nei
mesi scorsi abbiamo commentato a più riprese l’apertura del Governo Meloni a
Musk sulla questione dei satelliti prodotti da Starlink. Questi, avvalendosi di
tecnologie all’avanguardia, possono volare in orbita bassa e, con ciò, fornire
un servizio di connettività con la stessa resilienza (difficoltà a essere
attaccato e distrutto in caso di attacco militare) di quello a orbita alta, ma
con tempi di latenza dimezzati e maggiore rapidità di connessione.
In barba ai progetti di sviluppo
militare europei – che prevedevano per i prossimi anni la creazione e
diffusione in-house delle medesime tecnologie – il Governo ha cercato un
accordo separato di fornitura satellitare con Starlink, aprendo così le porte
della Ue a un diretto concorrente e indebolendo gli sforzi intrapresi (con
fondi comunitari e nazionali) per costruire un polo tecnologico, di ricerca e
produttivo nel campo satellitare. Non per caso si cerca di occultare
l’obiettivo di Musk di mettere in difficoltà i Paesi europei più impegnati in
questo campo (a partire dalla Francia) e le aziende europee del settore. Il
tutto, alla fine, va a scompaginare i già fragili equilibri tra esercito,
industria militare e istituzioni.
Piuttosto
significativo, dunque, è stato l’arrivo di «un niet inaspettato [all’accordo
con Musk], quello del VI Reparto della Difesa, che si occupa di informatica,
cyber e tlc [telecomunicazioni]: il sì a Starlink affosserebbe un nuovo
progetto di costellazione satellitare made in Italy, da realizzare dopo uno
studio di fattibilità affidato a due società, una siciliana e una pugliese»[1]. Proprio
per questo, nonché per il rischio di affossamento dell’accordo di fornitura di
componentistica avanzata stipulato fra Telespazio e Starlink e dei progetti di
sviluppo transnazionali (Iris 2), in un articolo di alcuni mesi fa rilevavamo
come il “caso Musk” fosse «esploso per l’esistenza di una (grossa) cordata
contraria all’investimento, quando invece di norma sono tutti d’accordo e i
contratti con le multinazionali possono passare inosservati sotto il naso
dell’opinione pubblica»[2].
Industria militare e industria tecnologica
La
nascita e lo sviluppo delle nuove tecnologie è influenzata e sostenuta dall’aumento
delle tensioni fra Paesi, ma allo stesso tempo è parzialmente ostacolata
dall’incedere di operazioni belliche sempre più profonde e sviluppate nei
teatri di guerra vecchi e nuovi: lo sviluppo tecnologico è sostenuto dalla
spesa bellica in quanto è parzialmente trainato dal settore militare
(applicazione delle nuove tecnologie ai sistemi d’arma e di difesa), ma allo
stesso tempo la crescita delle tensioni, tanto militari quanto commerciali
(dazi), implica il rallentamento delle catene di fornitura, maggiori difficoltà
di approvvigionamento della componentistica avanzata e, pertanto, un oggettivo
freno sia per la produzione che per la
ricerca e sviluppo.
Come dice l’economista Andrea Pannone,
le
condizioni generali necessarie per la diffusione, l’imposizione e
l’apprezzamento inflazionistico dei diritti di proprietà intellettuale sono
opposte a quelle favorevoli alla crescita dei prezzi indotta dalle armi e dal
petrolio. Non richiedono, cioè, instabilità, forza pura e violenza, ma
piuttosto un’apparente stabilità interna e internazionale, apertura agli
scambi, fiducia nell’innovazione e un certo ottimismo per il futuro. (…) Questo
contribuisce a spiegare quello che appare ondivago, incerto o inerte nelle
strategie diplomatiche occidentali[3].
In tale contesto, la cosiddetta “proxy war”
– la “guerra per procura”, combattuta per conto di una o più superpotenze «per
interposta nazione e per interposto popolo» – rappresenta un possibile
compromesso fra il settore dell’innovazione tecnologica e quello militare. Non
è un caso che entrambi continuino a crescere in maniera esponenziale, com’è
noto.
L’impennata dell’industria bellica avvenuta
nell’ultimo anno è stata notevole. Se si guarda al valore dei titoli azionari
delle principali aziende europee si apprende di grandi guadagni: Rheinmetall
(Germania) + 160%; Bae Systems (Regno Unito) + 26%; Thales (Francia) + 54%;
Leonardo (Italia) + 107%[4].
Chiaramente una forte componente di questa crescita è dovuta all’aumento degli
ordinativi: Leonardo stima 118 miliardi di € di commesse fino al 2029 (per dare
un’idea, l’ultimo anno di Reddito di Cittadinanza è costato all’incirca 8,5
miliardi).
Questo comporta, fra le varie cose, la
necessità di riconvertire parte delle infrastrutture industriali nazionali alla
produzione militare e in questa ottica la Germania si sta portando decisamente
avanti, pensando al riutilizzo in chiave bellica di alcuni impianti legate alla
produzioni di auto e di componentistica meccanica. In Italia invece, nella Regione
Veneto la fabbrica metallurgica Faber sta iniziando a produrre bossoli e ogive,
mentre la componente militare del fatturato di alcune grosse aziende
“multifunzionali”, come la Iveco, è in decisa crescita; i sindacati
confederali, laddove possono, chiedono la riconversione militare degli impianti
per salvaguardare la produzione e i posti di lavoro (come nel caso della Berco
– che di norma produce componentistica per i settori edilizio, agricolo e di mining
– o dei Cantieri Navali Fincantieri di Palermo), e questo non depone certo a
loro favore. Secondo indiscrezioni riportate nell’ottimo articolo di Renato Franzitta
su Sicilia Libertaria (aprile 2025), infine, sembrerebbe che anche la
Stellantis di Termini Imerese possa essere alle porte di una riconversione
bellica degli impianti.
Perché i dazi avvicinano la guerra fra superpotenze
Alla luce di quanto detto finora la
“guerra dei dazi” iniziata da Trump, che ha anche – o soprattutto – la
funzione di riportare in patria le filiere produttive strategiche (cd.
“industrializzazione di ritorno” o “rilocalizzazione”), iniziando da quelle
tecnologiche e militari, potrebbe essere letta come un mezzo per appianare
le contraddizioni tra il complesso dell’industria bellica e quello dell’hi-tech.
Rimpatriare la produzione vuol dire ridurre le possibilità di rallentamenti
delle catene di fornitura dovuti al deterioramento delle relazioni diplomatiche
o militari coi Paesi in cui è localizzata parte dei passaggi produttivi. Del
resto questo era l’obiettivo sbandierato in piena pandemia dinanzi alla crisi
di forniture dei chip, indispensabili sia per l’industria statunitense
che per quella europea, ma prodotti in prevalenza in Asia.
Secondo Howard Lutnick, segretario al
commercio statunitense, «i dazi sui semiconduttori arriveranno in uno o due
mesi. (…) Abbiamo bisogno che le nostre medicine, i nostri semiconduttori e i
nostri dispositivi elettronici siano prodotti in America»[5]. I
semiconduttori (i chip) sono la base di ogni tecnologia informatica e
militare, anche di quelle satellitari, nonché una delle filiere economicamente
più importanti per l’intero globo.
Era ben chiaro che le sconclusionate
aperture del Governo Meloni a Musk per una gestione diretta del sistema di
connessione satellitare a orbita bassa – nonché, secondo le originarie
dichiarazioni di Crosetto, per un intervento corposo nel sistema di difesa
missilistico – non fossero alla fine pienamente sostenibili, vuoi per ragioni
politiche (nei rapporti con la Ue), vuoi anche per ragioni specificamente
industriali. Le legge che consente a Starlink di investire è pronta[6] (manca
solo l’approvazione del Senato[7]), ma la
possibilità che l’azienda statunitense fornisca all’Italia l’intero corpus
tecnologico, danneggiando gravemente il processo di sviluppo europeo nel
settore satellitare per consentire al nostro Paese di scavalcare gerarchie e
rapporti di forza esistenti fra Stati (e imprese) comunitari, non si
concretizzerà: è la stessa Leonardo a «lanciare una nuova costellazione di
satelliti in orbita bassa che consiste in 18 satelliti militari finanziati
principalmente dal Ministero della Difesa: 12 saranno di tipo standard e 6 a
infrarossi. Il lancio è previsto tra il 2027 e il 2028. A questi satelliti si
aggiungeranno anche 20 satelliti multi-sensore Eo Leo civil»[8].
Il rimpatrio delle produzioni
strategiche, favorito dalla guerra commerciale dei dazi, non è positivo per i
lavoratori: che siano italiani, statunitensi, cinesi o russi, in ogni caso il
risultato sarà la possibilità di abbandonare la proxy war – che è relegata
a territori periferici (dal punto di vista economico e politico) del globo
terrestre – in favore di una guerra aperta fra superpotenze, senza che questo
comporti shock economici generali per l’interruzione delle filiere
produttive più importanti. È inquietante che l’acquisizione di maggiore
indipendenza economica venga inquadrata dai governanti come un incremento del
grado di sicurezza nazionale, quando per i lavoratori vuol dire esattamente
l’opposto. Dunque, piuttosto, per quel che abbiamo analizzato in questo
articolo i dazi servono a ridurre i costi della guerra per il capitale, a
salvaguardarne almeno in parte i meccanismi di accumulazione.
[1] P. G. Cardone,
G. Pipitone, Lo scontro alla Difesa e il no del Colle
bloccano Starlink, «il Fatto Quotidiano», 12 Gennaio 2025.
[2] E. Gentili,
F. Giusti, Accordo Starlink. Giù la MUSKera, 18 Gennaio 2025, https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-accordo_starlink_gi_la_muskera/42819_58720/.
[3] A. Pannone,
La porta delle lacrime, le risa del capitale e l'inflazione. Riflessioni
amare sulla crisi del Mar Rosso, «Machina», 19 Febbraio 2024.
[4] R. Franzitta,
L’industria bellica al tempo di Trump, «Sicilia Libertaria», n. 458,
Aprile 2025, Anno XLIX.
[5] Cfr. Serena
Di Ronza, Trump: valutiamo dazi sui chip per la sicurezza nazionale,
dobbiamo produrre negli Usa, «Ansa», 13 Aprile 2025. Negli Usa si associa
con facilità la “sicurezza nazionale” ai chip e alle nuove tecnologie in
generale perché la gestione delle supply chain, ossia delle catene di
fornitura, è diventata materia di competenza degli apparati che si occupano di
sicurezza nazionale fin dagli anni ’90.
[6] DdL
2026, art. 25, c. 1.
[7] Codice
per seguire l’iter di approvazione: S. 1415.
[8] R. Franzitta,
op. cit.
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