Piccolo omaggio di un miscredente rispettoso a Jorge Bergoglio, primo capo non europeo di una istituzione eurocentrica
Piccolo omaggio di un miscredente rispettoso a Jorge Bergoglio, primo capo non europeo di una istituzione eurocentrica
di Rodrigo Rivas
Francesco non era un mollusco.
Sentiva gli altri e sentiva sé stesso.
Sentiva gli indios che difendono l'Amazzonia, i bambini congolesi sfiniti in miniera, i palestinesi massacrati da massacratori seriali, i sudanesi affamati abbandonati nel deserto, gli ucraini bombardati in una triste guerra per procura, gli iraniani schiacciati da una teocrazia che odia le donne e la poesia...
Sentendo sé stesso, Francesco proclamava apertamente il suo essere figlio di emigranti poveri che, anche per questo, amava emigranti e poveri e sentiva proprie le loro sofferenze.
Francesco aveva tanta fiducia sulle pratiche di alcuni suoi confratelli da non aver mai voluto vivere nelle stanze vaticane.
Francesco era antipatico, quando e quanto ci voleva, ai potenti e ai loro lacchè.
Francesco non era un teologo come Ratzinger, un amante dei regimi autoritari come Wojtyla, un intellettuale dal sangue freddo come Paolo VI, un buon pastore come Giovanni XXIII.
Non era neppure parente lontano di quel Pio XII che, secondo un grande cantautore romano, "sembrava proprio un angelo con gli occhiali (mentre) cadevano le bombe come neve a San Lorenzo".
Non ne era neppure parente perché mai fu ambiguo verso le bombe dei governi bombaroli e criminali, e mai si fece fotografare su balconi e palcoscenici insieme a qualche gorilla con le stellette.
Francesco non era un tartufo né un angelo sbieco e ambiguo. E nemmeno etereo quanto una scorreggia.
Francesco era un uomo che, amando il suo Dio, cercava di praticare quel "Sermone della montagna" che indusse Gandhi a definire Gesù "il seminatore della semente della filosofia non-violenta".
Certo, mi perdonerà se osservo che ci vuole tanta buona volontà per prescindere della violenza concreta, creata e protetta per un paio di millenni, finora, dalla sua chiesa.
Francesco è stato un profeta che non ha fatto ricorso alla paura per affermare le sue idee.
Come ogni profeta, lo dico con estremo riguardo e somma ignoranza in materia, era in parte un eretico.
Penso che l'eresia sia una qualità propria dei profeti perché questi puntano sempre oltre l'orizzonte e camminano dietro un'utopia.
Per conferme, restando nello stesso ambito, suggerisco di verificare le pazzie di San Francesco su frate sole e sora luna, sugli uccelli che chiacchierano, sui lupi convertiti e, soprattutto, sulla stramba idea di una chiesa povera e non prepotentemente potente.
Potendo scegliere, in questo caso un privilegio proprio dei miscredenti, sono sempre stato per gli eretici, pur sapendo che sono scomodi.
Per verifica, fuori e dentro il perimetro di riferimento, suggerisco Salvador Allende, Amilcar Cabral, don Helder Camera, Aldo Capitini, Ernesto Guevara, Hugo Gutiérrez, Patrick Lumumba, Nelson Mandela, la Comune di Parigi, Oscar Arnulfo Romero ..., tutti colpevoli colpiti da eresie molteplici.
Quando muore un profeta come Francesco, alcuni potenti prepotenti ordinano di far suonare le campane 88 volte, come gli anni di Bergoglio.
Qualche altro potente prepotente si sente con le mani più libere per scatenare guerre, vere e commerciali, comunque mortali e abusive.
Molti altri piangono in diretta per ogni TV, come facevano in privato le vecchie professioniste del pianto immortalate da Kazantzakis in "Zorba il greco".
Presumo che nella santa fratellanza cattolica sia ormai aperta la corsa ad affilare i coltelli e ad acquistare stricnina per correggere i caffè.
Se fossi un cardinale con diritto a voto nella corporazione, mi dichiararei subito ulceroso e astemio.
Un profeta fa al massimo una primavera. Poi, ci tocca sempre ripartire, un po' più soli.
Mi consola un ricordo di molti anni fa.
Essendo a San Salvador, andai al cimitero a salutare Romero.
Ritrovai un vecchio, povero e malandato impegnato a pulire la sua tomba.
Lo faccio, mi raccontò, perché è ciò che fanno i figli. Lui si reputava figlio di Romero perché l'arcivescovo lo trattava come tale.
E si reputava figlio di Romero perché l'arcivescovo era stato ucciso, durante un suo sermone domenicale, mentre ordinava ai soldati di non uccidere il suo popolo, di rispettare la loro vita e la loro dignità.
Come acerteranno i tribunali salvadoregni, gli assassini agivano agli ordini di colui che Wojtila aveva definito "il cattolicissimo generale Mena".
Pensai allora, penso ancora, che essendo pazza, la speranza appartiene agli ultimi.
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