Dissero no. I pochissimi politici occidentali che dal 1991 si dimisero contro la guerra
Dissero no. I pochissimi politici occidentali che dal 1991 si dimisero contro la guerra
di Marinella Correggia
Le dimissioni forzate, il 16 gennaio di Christine Lambrecht, ministra della difesa nel governo tedesco fanno tornare in mente per assonanza i «no» di politici europei che nei decenni scorsi si dimisero da incarichi governativi non volendo avallare operazioni belliche. Certo il caso Lambrecht è un po’ diverso: non si tratta di dimissioni per pacifismo, anche se dal governo tedesco è stata accusata, oltre che di molte gaffe, di boicottare l’impegno militare della Germania sul fronte ucraino.
Comunque nella storia recente delle guerre per mano occidentale, i politici governativi che dissero no sono stati pochi, troppo pochi. Mai italiani. Lo Stivale si è sempre prestato a tutte le operazioni militari dirette e per procura e se qualche membro del governo ha avuto da ridire, non ha comunque rinunciato al posto.
A maggior ragione dunque vanno ricordati i pochi che hanno avuto coraggio.
Francia, gennaio 1991: il socialista Jean-Pierre Chevènement, ministro della difesa, si dimette in segno di protesta per la partecipazione francese alla cosiddetta «operazione di polizia internazionale», contro l’Iraq. Nei mesi precedenti il ministro ha cercato di mettersi di traverso rispetto alla linea del presidente François Mitterrand, schierato con George Bush e con i paesi del Golfo. Davanti alle bombe sull’Iraq, alla fine la lealtà al partito viene meno e il ministro sbatte la porta. Nella lettera di dimissioni scrive fra l’altro: «La natura di questa guerra minaccia ogni giorno di spingersi più lontano dagli obiettivi delle Nazioni unite».
Mitterrand lo sostituisce volentieri con il ministro dell’interno Pierre Joxe, già ufficiale francese in Algeria. Alcuni anni fa, intervistato da France Inter a proposito del terrorismo islamista, Chevènement spiega: «Quando si fa a pezzi uno Stato come l’Iraq, i frutti che si raccolgono sono al Qaeda e Isis». Critica anche la bellicosa scelta francese in Libia nel 2011 e nella guerra per procura in Siria.
Il 17 marzo 2003 è il britannico Robin Cook a dimettersi, rifiutando l’imminente operazione militare in Iraq, decisa da George W. Bush e da Tony Blair (ribattezzato di pacifisti Tony B-liar per via delle menzogne che «legittimano» l’attacco al paese mediorientale). Cook, ex ministro degli esteri, all’epoca è fra l’altro leader of the House of commons (ministro dei rapporti con il Parlamento). Nel suo discorso di dimissioni spiega: «Non posso accettare la responsabilità collettiva per la decisione di impegnare il nostro paese in un’azione militare in Iraq senza accordo internazionale e senza sostegno in patria».
Nel maggio 2003 si dimette Clare Short, segretaria (ministra) per lo sviluppo internazionale; nella lettera a Blair lo accusa di aver tradito le promesse di coinvolgere l’Onu e giustifica così il ritardo nel lasciare l’incarico: «Ho sempre pensato che il conflitto in Iraq fosse sbagliato ma ho accettato di rimanere nel governo per sostenere la ricostruzione dell’Iraq».
Ricordiamo i (pochi) signornò, opposti da interi governi e Parlamenti pur membri della Nato. Mai l’Italia. Nel 1999 la Grecia non partecipa alla guerra contro la Serbia. Nel 2003 la Francia nega il sostegno agli alleati anglo-statunitensi nell’invasione dell’Iraq. Nel 2011 la Germania, membro di turno del Consiglio di sicurezza, non appoggia la no-fly zone che da lì a poco si trasformerà nella distruzione per via aerea della Libia. E la Norvegia, quantomeno, si ritira prima degli altri dall’operazione Nato contro Tripoli.
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