87 anni fa le Leggi Razziali nella scuola. Riflessioni tra passato, presente e futuro.
87 anni fa le Leggi Razziali nella scuola. Riflessioni
tra passato, presente e futuro.
di Laura Tussi
L’articolo 1, del regio
decreto legge del novembre 1938, riguardante l’integrazione ed il coordinamento
delle norme già emanate il 5 settembre precedente (a firma di Re Vittorio
Emanuele II e volute da Benito Mussolini) per la difesa della razza nella scuola
italiana, riporta che non potevano essere ammesse persone di “razza ebraica” a
qualsiasi ufficio e impiego nelle scuole di ogni ordine e grado, pubbliche e
private, frequentate da alunni italiani.
Il divieto era esteso anche
agli studenti, bambini e ragazzi.
Nelle scuole di istruzione media, frequentate da alunni italiani, era vietata
l’adozione di libri di testo di autori di “razza ebraica” e il divieto era
esteso anche ai libri frutto della collaborazione di più autori, di cui uno di
questi fosse di origine ebraica.
Per i bambini ebrei erano istituite, a spese dello Stato, speciali sezioni
discriminatorie di scuola elementare, in cui il personale doveva essere
rigorosamente appartenente alla “razza ebraica” e dove potevano essere adottati
libri di testo di autori ebrei.
87 anni fa le Leggi Razziali
furono salutate con favore da molti intellettuali dell’epoca, altri rimasero
zitti per paura
Era il 1938 quando in Italia
vennero promulgate le Leggi Razziali. Una ferita ancora aperta nella coscienza
collettiva del Paese, che a distanza di 87 anni continua a interrogarci non
solo per l’infamia del contenuto normativo – che discriminava, escludeva,
perseguitava cittadini italiani di origine ebraica – ma anche per la complicità
morale e culturale che le accompagnò.
Non fu solo il regime fascista
a volerle. Le Leggi Razziali trovarono un’accoglienza tutt’altro che marginale
in ampi settori della cultura italiana. Alcuni tra i più noti intellettuali
dell’epoca, accademici, giornalisti, filosofi, scrittori, le sostennero
apertamente. C’è chi firmò il “Manifesto della razza”, chi scrisse articoli che
cercavano di giustificarne la necessità storica e scientifica, chi si prestò a
costruire l’impalcatura ideologica che le rese possibili. L’antisemitismo venne
sdoganato in cattedra, sui giornali, nei salotti culturali, in nome di un
malinteso patriottismo o per puro opportunismo.
Accanto a loro, però, ci fu
anche chi scelse il silenzio. Non per convinzione, ma per paura. Per timore di
perdere la cattedra, la posizione, la pubblicazione. Intellettuali che avevano
voce e strumenti per parlare, tacquero. Alcuni si giustificarono in seguito
dicendo di non sapere, di non aver compreso la portata reale della legislazione
antiebraica. Ma il clima era chiaro, le conseguenze evidenti fin da subito:
espulsioni da scuole e università, interdizioni dal lavoro, emarginazione
sociale.
Fu un crollo della coscienza
civile e culturale del Paese, un cedimento generalizzato che coinvolse non solo
il potere politico, ma anche il mondo della cultura, quello che avrebbe dovuto
costituire una coscienza critica della nazione.
Ci furono eccezioni, certo. Alcune voci isolate si alzarono contro l’infamia
delle Leggi: quella di Benedetto Croce che si oppose con coerenza al fascismo e
alle sue derive razziste, ad esempio, o quella di Piero Calamandrei, giurista e
futuro costituente, che nel dopoguerra avrebbe denunciato apertamente la
complicità del mondo accademico con le leggi infami. Anche Aldo Capitini,
filosofo e educatore, considerato il padre del movimento pacifista, rifiutò di
giurare fedeltà al fascismo e fu emarginato.
Ma queste voci furono poche, minoritarie, e non bastarono a contrastare il
consenso diffuso – o l’indifferenza – che accompagnò l’entrata in vigore della
legislazione razzista.
Oggi, a 87 anni di distanza,
non basta ricordare. È necessario anche interrogarsi su come e perché un’intera
classe dirigente culturale poté sostenere – o non ostacolare – una tale deriva.
Perché il razzismo non si affermò da solo: ebbe bisogno di giuristi che lo
codificassero, di giornalisti che lo diffondessero, di docenti che lo
insegnassero.
E soprattutto ebbe bisogno del silenzio di chi avrebbe potuto parlare.
Un lavoro critico del Liceo
Manzoni di Milano
L’incontro con i testimoni di
queste ingiustizie e di questi tragici eventi lascia sempre un profondo senso
di amarezza di fronte alla crudeltà di quanto avvenuto; incoraggia a mantenere
viva la memoria di quello che è stato e obbliga alla ribellione contro tutte le
forme di ingiustizia che nel mondo attuale ancora si perseguono. Un gruppo di
studenti del liceo Manzoni di Milano hanno scoperto, tra le vecchie carte
dell’archivio del loro antico liceo, il provvedimento di eliminazione dalla
scuola degli studenti di cultura, tradizione e religione ebraica, nel settembre
del 1938, anno della promulgazione delle leggi sulla razza in Italia.
Attraverso documenti e
testimonianze, gli studenti con i loro insegnanti ripercorrono l’intera vicenda
della discriminazione, della diaspora e della repressione degli ebrei in
Italia, sino alla deportazione.
Studenti e insegnanti incontreranno nomi e storie, scopriranno che gli studenti
epurati erano un numero notevole e che il liceo Manzoni di Milano era scuola di
riferimento della comunità ebraica. Incontreranno, nella loro ricerca, parti
della società milanese, piccola e media borghesia, commercianti e liberi
professionisti.
Incontreranno una società normale, produttiva, operosa, condannata alla
discriminazione, all’umiliazione, alla persecuzione, alla morte.
Studenti e insegnanti del liceo
Manzoni incontreranno nei documenti omertà e silenzio, intorno alla vicenda dei
cittadini discriminati.
Discriminazione, omertà, silenzio, eventi di repressione, densi di infamie, che
terminano sui binari dei treni che conducono nei Lager della morte.
Studenti e insegnanti del liceo Manzoni di Milano, con la ricerca dal titolo
“Oltre la memoria”, hanno meditato e si sono impegnati a partire da se stessi.
Hanno individuato e analizzato il passato, partendo da se stessi.
Le aule liceali che loro frequentano e animano sono esattamente le stesse del
1938.
Dai documenti del liceo sono arrivati a trattare della storia crudele di quegli
anni che si consumava anche nelle scuole. Hanno incontrato i testimoni,
cercando di tessere analogie tra quegli eventi e i vari episodi di intolleranza
e discriminazione, sempre attuali nella scuola.
Episodi di intolleranza e
discriminazione contro i disabili, contro le persone di colore, contro gli
islamici, contro i nuovi diversi
Da tempo la scuola italiana
occupa l’attualità con cronache sempre più disarmanti.
Tutti conoscono e deprecano le condizioni e i livelli di studio.
Tutti biasimano le condizioni di insegnamento e la remunerazione professionale
degli insegnanti e di tutto il personale impiegato nella scuola.
Il precariato dilaga.
Tutti subiscono i tagli imposti dalla recessione economica.
La scuola è percepita come un immodificabile santuario dell’inutile e
dell’effimero.
Un necessario purgatorio
temporale che contiene i giovani e li risparmia ad un mercato del lavoro che
ormai implode su se stesso, fagocitato da un sistema capitalistico spietato che
riduce in schiavitù i più deboli. La scuola è un rito sociale che si ripete. Istituzionale,
inesorabile, con cadenze secolari, con la stessa luce nei corridoi, le stagioni
che si susseguono sempre identiche, le ansie e i dolori, gli analoghi
turbamenti di generazioni.
La stessa scuola che ha vissuto ingiustizie e discriminazioni in un passato da
non dimenticare e da non archiviare nel dimenticatoio dell’oblio.
La scuola che ormai
riattualizza le ingiustizie anche se con diversa entità ed intensità.
La scuola che dovrebbe invece sempre e costantemente aprirsi alle differenze,
agli altri, insegnanti e studenti, alle loro esigenze, ai caratteri di cui
ognuno è portatore e alle difficoltà che ciascuno presenta. Una scuola senza
discriminazioni dove l’altro sia considerato come depositario di un’autentica
ricchezza individuale, da condividere nella comunità sociale per una civiltà a
misura di persona.
Commenti
Posta un commento