Gestire i conflitti o educazione alla pace?
Educare alla
Gestione dei Conflitti. La continuità tra comportamenti macrosociali e
microsociali
di Laura Tussi
Educazione alla Pace.
L’educazione alla pace, innanzitutto, transita
attraverso la formazione di una personalità, di un’organizzazione
psichico-cognitiva in evoluzione nella quale hanno la preminenza gli
atteggiamenti positivi, di negoziazione, di cooperazione, rispetto
all’antagonismo e alla prevaricazione.
L’educazione alla pace all’interno delle dinamiche sociocomunitarie per
prevenire i conflitti a livello internazionale.
Nella psicologia dello sviluppo si indagano l’origine e l’evoluzione di
comportamenti quali l’aggressività, la competitività, la prevaricazione, la
violenza e gli atteggiamenti opposti a questi ultimi, quali la solidarietà, la
cooperazione e l’altruismo. La didattica recentemente si sta occupando anche di
educazione alla pace, di gestione del conflitto e diseducazione alla guerra.
Le guerre tra nazioni oppure tra
minoranze e fratricide con il loro carico di distruttività violentista sono un
aspetto macrosociale dell'aggressività che sempre può scaturire in odio e
violenza, ossia fattori impliciti nell'individuo a livello microsociale.
Nella nostra cultura è profondamente radicato il convincimento secondo cui
le guerre internazionali, i conflitti di predominio etnico ed economico, siano
avvenimenti addirittura necessari ed inevitabili come, in parallelo, le contese
e le diatribe tra gruppi e tra singoli. Gli studi sociologici e psicologici più
recenti indagano i comportamenti significativi relativi al tema della
conflittualità, dimostrando che sussiste continuità tra comportamenti
macrosociali e microsociali.
"Dalle parole occorre passare
all'azione" come ha declamato la grande attivista Greta Thunberg a bordo
della Freedom Fottilla, alla volta di Gaza per fermare e arrestare il genocidio
imposto dal governo di Israele.
Questo dimostra che è impossibile educare alla pace e alla gestione dei conflitti
esclusivamente predicando la pace o proponendo un ideale nonviolento e
pacifista rispetto alle relazioni belliche internazionali, ma occorre
intervenire nei comportamenti e nei rapporti sociali e comunitari che anche il
ragazzo vive e sperimenta nel suo quotidiano. Se non si considerano il
conflitto interpersonale, la guerra tra civiltà, la belligeranza tra potenze
nazionali, quali fenomeni connaturati con l’esperienza umana sussistono anche
convinzioni circa il ruolo dell’utilità di un’azione a favore della pace, per
impegnarsi in senso non violento. Ma l’educazione alla pace, innanzitutto,
transita attraverso la formazione di una personalità, di un’organizzazione
psichica e cognitiva in evoluzione nella quale hanno la preminenza gli
atteggiamenti positivi, di negoziazione, di cooperazione, rispetto
all’antagonismo e alla prevaricazione.
Il genocidio in atto a Gaza ha lontane
origini psichiche di odio e violenza tra le parti. Ma soprattutto con l'azione
di estrema virulenza di odio distruttivo e perverso del governo e dell'esercito
di occupazione Israeliani.
Gli atteggiamenti di conflitto e prevaricazione interindividuale si
costruiscono in primo luogo nel microcosmo o microsistema nell’ambito della
quotidianità del bambino e solo in seguito vengono proiettati, trasferiti e
riversati nell’ambito delle relazioni tra i popoli. L’atteggiamento pacifico
non si può esercitare a livello di istituzioni pubbliche, di relazioni
internazionali, a livello mondiale se non ci si abitua a praticare nelle
relazioni private e nei rapporti interpersonali comportamenti pacifici che
trasmettano ideali di cooperazione, di altruismo, di solidarietà, di
collaborazione.
La concezione di aggressività come
istintualità di morte, di annientamento e distruzione.
Sussiste una concezione dell’idea di aggressività come potenzialità di
adattamento, di creatività, di emancipazione ed evoluzione e non come
istintualità di morte, di annientamento e distruzione. L’aggressività adattiva
svolge fondamentalmente alcune funzionalità strumentali di tipologia
complementare. Da una parte l’aggressività svolge il compito di una forza
attiva per il proprio sviluppo e l’affermazione di sé, dall’altra è uno
strumento per tutelare la propria identità. Dunque l’aggressività si delinea come
una potenzialità positiva, necessaria al fine di consentire una modalità di
superamento della dipendenza infantile, al fine di favorire l’affermazione
della propria identità contro gli ostacoli che si frappongono alla
realizzazione del sé, per tutelare la propria stabilità fisica e psichica.
L’aggressività è uno strumento di difesa per tutelare la propria identità, per
stabilizzare l’assetto della propria personalità da incursioni ed attacchi
esterni, da critiche e censure interrelazionali. L’atteggiamento aggressivo si
delinea come potenzialità positiva e si configura come strumento necessario
alla stabilizzazione del sé, indispensabile al fine di consentire il
superamento dello stato di attaccamento e di dipendenza dalle figure
dell’infanzia, con lo scopo di permettere l’affermazione della propria identità
contro gli ostacoli che si frappongono alla piena realizzazione del sé.
Riconoscere l’aggressività come istanza che presenta potenzialità positive non
significa legittimare la distruttività e la violenza, perché aggressività e
distruttività non si identificano.
La distruttività costituisce una
degenerazione dell’aggressività ingenerata dalle specifiche e caratteriali
varianti biopsicosociali che determinano l’organizzazione psichica, cognitiva,
affettiva, relazionale, apprenditiva e socializzante dell’individuo.
Attualmente cercare di ridurre l’apporto distruttivo e degenerativo
dell’aggressività, quindi distogliere l’uomo dall’autodistruzione della
conflittualità, anche a livello mondiale che non prevede una fine, né un fine,
né un ritorno alla pace, tutto questo non comporterebbe né l’annullamento, né
la repressione dell’aggressività, intesa nel significato di espressione
positiva per l’affermazione e la difesa di sé. Le più gravi forme di
aggressività esplodono nella società, nella famiglia, nella scuola che soffocano
l’esigenza dell’affermazione della persona umana. Solo la famiglia, la scuola e
la società che consentono il maggior spazio di affermazione personale possono
agire in modo pacifico. La psicologia sociale e la psicanalisi sono accomunate
da un grande consenso circa la necessità di abolire stili educativi repressivi,
in quanto forieri di violenze. La realizzazione di sé si incontra con la
presenza e l’esigenza di interagire con l’alterità, di relazionare con gli
altri da noi. In questo contesto relazionale si pone il problema di come
permettere l’espansione identitaria di ogni soggetto, senza prevaricazione e
sopruso. In termini psicologici occorre individuare i meccanismi che possono
facilitare e agevolare condizioni di rispetto per la soggettività dell’altro e
per il controllo della propria aggressività. L’uomo è l’animale sociale e come
è in grado di essere aggressivo e distruttivo è anche capace di collaborazione,
altruismo e cooperazione. Dunque è necessario individuare le situazioni che
agevolano nel bambino l’emergere di stabili comportamenti collaborativi e
cooperativi.
Laura Tussi
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