Cronaca di un ritiro scontato: inizia l'era di Kamala Harris?
Cronaca di un ritiro scontato
La spasmodica attenzione per il gossip (travestito da politica estera)
Joe
Biden annuncia il ritiro della propria candidatura dalla corsa per la Casa
Bianca, a convincerlo non tanto la famiglia quanto i cospicui fondi per la
campagna elettorale bloccati dai finanziatori dem.
A
decretarne l’uscita anticipata non solo la lotta intestina al Partito
democratico diviso su importanti decisioni (qualche ripensamento sulla
transizione green per dirne una) ma anche per divisioni interne al capitalismo
Usa.
Superati
gli 80 anni Biden resterà in carica fino al termine del mandato presidenziale,
sostituito nella corsa alla Casa Bianca,
dalla sua vice Kamala Harris sostenuta apertamente dai Clinton ma al momento
guardata con qualche sospetto dalle minoranze afro che costituiscono una parte
rilevante dell’elettorato democratico. E
non basterà il sostegno promesso dalle lobby femministe afroamericane a
guadagnare il consenso delle minoranze.
Riusciranno
i democratici a fermare l’ascesa di Trump? E nell’arco di poche settimane il
vento contrario ai repubblicani ha forse cambiato direzione?
Agli
occhi di molti Trump continua ad essere impresentabile ma è indubbio riscuota
consensi crescenti nel cuore degli States tra le vittime della crisi economica,
sa meglio di tutti come alimentare paure recondite e sentimenti diffusi contro
migranti, diritti civili come l’aborto, incarna i sentimenti di quella “America”
profonda ormai animata da sentimenti religiosi e reazionari. Se Biden godeva
del sostegno delle contraddittorie centrali sindacali, non è detto che lo
stesso possa valere, almeno nell’immediato, per la sua sostituta.
Non
è casuale il solito ritornello con il quale Trump ha accolto le dimissioni di
Biden, argomentazioni ormai ripetute fino alla noia:
“ha
ottenuto la carica di Presidente solo grazie a bugie, fake news e senza uscire
dal suo seminterrato” e che “tutti quelli che gli stavano intorno, compreso il
suo medico e i media, sapevano che non era in grado di essere presidente, e
infatti non lo è stato”.
I
democratici, da qui a poche settimane, daranno vita alla solita farsa, riunire
la Convention del partito nella seconda metà di agosto, incaricare formalmente
la Harris sapendo che ogni candidato in teoria sarebbe libero di votare un
altro candidato. I blocchi di potere che dominano il Partito democratico
dovranno riunirsi, e in fretta, attorno alla figura della Harris, la cosiddetta
sinistra aveva per settimane sostenuto Biden anche davanti al genocidio
palestinese e oggi presenta un peso decisamente inferiore al passato e una
credibilità nelle minoranze Usa decisamente al ribasso.
Non
mancano i contendenti della Harris, da Gavin Newsom, alla governatrice del
Michigan Gretchen Whitmer, dal segretario ai Trasporti Pete Buttigieg al governatore
dell’Illinois J.B. Pritzker ma la candidata sulla quale puntare resta la vice
di Biden, Kamala Harris.
Oggi
i repubblicani presentano un programma scritto da tempo dalle fondazioni conservatrici,
Trump ha dichiarato di non averlo letto ma molte delle sue posizioni sono le
stesse di quelle contenute nelle 1000 pagine diffuse. Al contrario. i
democratici non hanno ancora definito un programma alternativo se non operare
scelte in continuità con l’attuale esecutivo sapendo che su alcuni punti anche
i loro tradizionali sostenitori e finanziatori manifestano perplessità di vario
genere, ad esempio avere trascinato gli Usa in una guerra globale dall’Indo
Pacifico al Medio Oriente sembra turbare i sonni di parte del capitalismo di
Oltre Oceano.
Come
in ogni paese in crisi il tema della immigrazione rischia di essere centrale nella
prossima campagna elettorale e non esiste idea più forte della espulsione dei
clandestini o del muro al confine del Messico, tradizionali cavalli di
battaglia repubblicana sui quali costruire un consenso negli Stati assediati
dalla crisi economica e sociale.
Ma
a preoccupare i democratici restano soprattutto i timidi segnali provenienti
dai tradizionali finanziatori, dai blocchi economici e finanziari che
controllano parte rilevante dei media, un tempo sostenitori di Biden e da
settimane ormai silenti, alla finestra in un paese che stando ai sondaggi oggi
regalerebbe la maggioranza assoluta ai repubblicani permettendo la rielezione
di Trump alla presidenza Usa.
Le
prossime settimane saranno decisive non l’ufficialità del candidato democratico
alla Presidenza degli Usa ma anche e soprattutto per comprendere come si
riposizioneranno i poteri forti del paese che poi dominando i social e gli
organi di stampa decideranno il vincitore finale. Di certo sono tutt’altro che
definiti gli equilibri interni agli Usa e il teatrino costruito attorno alle
dimissioni di Biden resta il classico specchio per le allodole dietro al quale
si celano ben altri interessi in gioco.
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