Bassi salari, pensioni da fame e il mito della crescita del PIL
Da 70 anni impera un mito duro da sfatare ossia quello dalla crescita economica infinita e il parametro guida rappresentato dal prodotto interno lordo (PIL), un indice composito che utilizza la spesa dei consumatori, gli investimenti privati e la spesa pubblica per arrivare a una cifra che rappresenta la produzione economica di un paese[1].
Ma il Pil è forse il corretto indice con cui misurare la
ricchezza di una nazione? E la crescita economica è una costante del sistema
capitalistico e le fasi recessive sono incidenti di percorso?
L’esperienza del 2023 è significativa: dopo 20 anni di crescita
la Germania è entrata in recessione e tutta la Ue ha subito le conseguenze
della guerra in Ucraina incontrando crescenti difficoltà che l’hanno spinta
alla revisione del PNRR.
Nutriamo dubbi sul fatto che il Pil possa essere assunto come
unico parametro con cui misurare lo stato di salute di un paese e secondo
questa vulgata, in caso di segno negativo dell’economia, le sorti di una
nazione sono compromesse iniziando le speculazioni finanziarie destabilizzanti e
mirate a imporre politiche economiche e sociali che poi si realizzano in tagli
al welfare, ai salari e in aiuti smisurati a favore delle imprese.
E sul versante della spesa pubblica è bene ricordare che le
previsioni per il prossimo biennio parlando del taglio di almeno il 10 % della
spesa pubblica per raggiungere gli obiettivi del PNRR, questi tagli potrebbero
riguardare alcuni capitoli di spesa come pensioni, istruzione e sanità. Anche
in questo caso non si spiega che la crescita della spesa pubblica è determinata
dall’aumento del costo del denaro e degli interessi, dall’aumento dei costi
energetici e dalla bassa crescita dell’economia italiana.
Nel corso degli anni, indistintamente, governi tecnici, di
centro sinistra e di destra hanno operato nell’ottica della crescita del Pil
non risparmiando tagli allo stato sociale finendo con l’intraprendere politiche sociali ed
economiche indirizzate verso un sostanziale attacco al welfare e al costo del
lavoro.
La crescita del Pil cela in realtà, in molti casi, il declino degli standard di vita per le
classi lavoratrici con l’attuazione di politiche di austerità salariale.
Sovente la crescita del PIL non determina il miglioramento delle
condizioni di vita di gran parte della popolazione mentre invece si acuiscono
le disuguaglianze economiche e sociali.
Un parametro da prendere in considerazione per misurare il
benessere di un paese dovrebbe essere rappresentato dalla distribuzione del
reddito e delle ricchezze, dalla misura di welfare, dal potere di acquisto dei
salari e delle pensioni, dal livello dei consumi. I tempi di vita sono stati
ridotti a beneficio dei tempi di lavoro, una esistenza precaria con riduzione
del potere di acquisto e di contrattazione.
Anche quando il PIL è scomposto in una cifra pro capite, non
tiene conto dei salari da fame e in prospettiva, “grazie” alle controriforme
previdenziali, percepiremo anche un assegno previdenziale da fame, ergo le
risorse destinate al welfare, alla sanità e alla istruzione diventano un costo insostenibile
e saranno progressivamente ridotte,
Emblematico il caso degli Stati Uniti ove il PIL medio pro
capite è superiore a quello della Germania, ma i lavoratori statunitensi hanno
una qualità della vita decisamente inferiore, sono precari e in condizione di
salute precarie, meno istruiti e con minore tempo libero a disposizione
In alcuni paesi in via di sviluppo l’aumento del Pil non si
traduce in sostanziale miglioramento della qualità della vita con una età media
ancora assai bassa e un degrado ambientale e sociale preoccupante.
La ricerca del profitto, la crescita economica infinita non
sempre si traducono nel miglioramento delle condizioni di vita, in una
esistenza migliore, prova ne siano le risorse irrisorie destinate al welfare,
alla salute e alla istruzione.
Perseguire l’obiettivo della crescita e del profitto da misurare
con Pil non significa allora migliorare le condizioni di vita per gran parte
della popolazione senza dimenticare che la crescita di alcuni paesi comporta
l’impoverimento di altri. Le politiche di guerra e l’aumento delle spese
militari poi mirano direttamente a impedire ogni resistenza dei popoli oppressi.
In alcuni paesi a capitalismo avanzato l’aumento del Pil è
avvenuto con lo sfruttamento di parti considerevoli della popolazione acuendo
il divario sociale ed economico
E tra i divari ci sono anche quelli di genere a conferma che le
donne continuano ad essere le vittime sacrificali di un certo modello di
sviluppo.
La crescita economica diventa quindi una sorta di Bibbia dietro
alla quale si celano disuguaglianze sociali ed economiche per favorire il
benessere di alcuni a discapito di molti, le differenze di classe sono i primi
risultati tangibili della spasmodica crescita del Pil nei 40 anni neo liberisti.
Se poi guardiamo ai consumi ci si accorge che nei paesi dell'OCSE, il PIL pro-capite
è cresciuto del 3% tra il 1961 e il 1985 ma l'aumento della crescita dei
consumi pro capite è rallentato dal 3% negli anni '70 all'1% dopo il 2000[2].
Si capisce allora che l’aumento del Pil è avvenuto a mero
discapito della ridistribuzione delle ricchezze, sono aumentati i divari
economici e sociali a conferma che l’ideologia della crescita infinita del Pil
è stata funzionale anche alla affermazione della ideologia capitalistica del
libero mercato e con essa le condizioni dei salariati sono state ferocemente
compromesse.
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