LE PENSIONI DI DOMANI
LE PENSIONI DI DOMANI
F. Giusti ed E. Gentili
Da quanto visto con la Manovra
di Bilancio 2023, in materia previdenziale il Governo Meloni si è letteralmente
rimangiato quanto spergiurato in campagna elettorale.
Oggi, chi al 31 dicembre 1995
aveva maturato 18 anni di contributi e quindi poteva beneficiare del calcolo
retributivo è ormai in pensione e, quindi, ancora per alcuni anni avremo
lavoratori\trici con un sistema misto, calcolato in base alla retribuzione fino
alla fine del 1995 e con il sistema contributivo dal 1996 in poi. Nell’arco di
pochissimi anni resteranno in attività solo lavoratori entrati dopo il 1996 e
quindi si applicherà in toto il contributivo che comporta un assegno
pensionistico decisamente inferiore, a parità di anni lavorati, rispetto a
quanto percepito dalle generazioni precedenti.
La idea degli scriventi è che
il Governo voglia in sostanza eliminare il sistema misto foraggiando norme che
scoraggiano il calcolo degli anni lavorati col retributivo
Ora, se prendiamo a mo’ di
esempio un insegnante, la pensione puramente contributiva del domani
determinerà un risparmio, per lo Stato e l’Inps, di oltre il 30%.
Il sistema contributivo basa il sistema di calcolo delle pensioni sulla effettiva contribuzione versata dai dipendenti, per cui chi nell’arco della vita ha avuto periodi di precariato o disoccupazione vedrà l’assegno ridotto a una miseria. Se poi il Prodotto Interno Lordo dovesse essere negativo (come accaduto negli anni del COVID) il calcolo dei contributi potrebbe tenere conto di questa percentuale negativa a partire dai successivi incrementi, andando a determinare una ulteriore perdita. Il legame fra salari, produttività e PIL non è di certo casuale e la tentazione di collegare le future pensioni all’andamento dell’economia è una ipotesi tutt’altro che remota come del resto collegare i salari alla produttività rendendoli una variabile dipendente dai margini di profitto
L’uscita dal mondo del lavoro si sta progressivamente avvicinando ai 70 anni d’età. Se dovessimo guardare, in termini realistici, al pensionato del 2040, potremmo ipotizzare una persona costretta a restare in servizio fino a 70 anni per avere alla fine un assegno da fame. Basti pensare che l’INPS, per i lavoratori i nati tra il 1965 e il 1980, con 30 anni di contributi versati e un salario con paga oraria inferiore poco inferiore ai 9 Euro lordi l'ora stima una pensione di circa 750 euro da percepire a 65\66 anni, una cifra veramente bassa e di poco superiore all’assegno sociale. Per alzarne l’importo saranno costretti, già loro, a restare a lavoro fino a 70 anni e, magari, con oltre 40 anni di contributi versati potrebbero raggiungere una cifra decente, per quanto comunque assai inferiore alle ultime retribuzioni.
Secondo i calcoli
della Ragioneria di Stato, i giovani che hanno iniziato a lavorare 10 anni fa
percepiranno circa 400 Euro in meno di
pensione rispetto ai loro padri, che andranno in pensione da qui a pochissimi
anni. Nell’anno 2040 (tra meno di 16 anni) con 40 anni di contributi
l’assegno previdenziale sarà pari al 64,7% dell’ultima
retribuzione, mentre se gli anni di contributi saranno 30 si andrà in pensione
con meno della metà dell’ultima busta paga! Se pensiamo a quanto sia diffusa la
precarietà nei luoghi di lavoro possiamo ipotizzare che lo Stato potrebbe
invogliare lavoratori e lavoratrici a conquistare un assegno più pesante con
una sorta di sistema premiante per trattenere in servizio ben oltre i 68 anni
di età[1], in
barba anche al meccanismo della aspettativa di vita.
Se
prendiamo un insegnante o un dipendente pubblico con 40 anni di contributi oggi
la sua pensione sarebbe di poco sopra 1500 Euro ma tra una quindicina di anni
diminuirebbe di quasi 350 Euro, nonostante il costo della vita sarebbe nel
frattempo cresciuto.
Il
lavoratore indebitato, precario e malpagato dei nostri giorni sarà un
pensionato in ristrettezze economiche, uscirà dal mondo lavorativo vecchio e
malandato e gli resteranno pochi anni da vivere con un assegno magro.
Non
pensiamo di tracciare scenari apocalittici ma di avere solo riportato dei fatti
che scaturiscono da dati oggettivi e proiezioni veritiere che confermano la natura
predatoria del capitalismo, che ci condannerà a uno sfruttamento crescente
della forza lavoro e a un deterioramento delle condizioni di vita, con il
potere di acquisto salariale e previdenziale destinato a ridursi ai minimi
termini.
[1] «Oggi esistono dei meccanismi di
prolungamento volontario del lavoro, per cui rinviando il pensionamento si
arriva a percepire pensioni maggiori (pesando sul bilancio previdenziale per
meno anni) e al contrario, anticipandolo, minori. L’ultimo incentivo alla
prosecuzione lavorativa, promulgato dal Governo Meloni, è abbinato a una forma
di pensionamento anticipato (Quota 103) anziché al raggiungimento della normale
età pensionabile. Si chiama, infatti, “Bonus posticipo uscita Quota 103”.
Permette al lavoratore di percepire uno stipendio più alto solo grazie al fatto
di non dover più versare i contributi, che vengono dirottati in busta paga… ma
di conseguenza tali contributi non versati andranno ad abbassare l’importo
della futura pensione, senza però che il dipendente abbia smesso di lavorare!
In sostanza, si va a ricevere un salario più alto (del 9,19%) per gli ultimi
anni lavorativi a patto di perdere una quota della pensione per tutti quelli a
venire.
È possibile fare questo “gioco delle
tre carte” fin dalla Legge 243/2004 (art. 1, comma 12). Questo genere di misura
sulla prosecuzione volontaria del lavoro è incluso nella legge finanziaria
sempre per quanto stabilito dalla stessa legge (art. 1, commi 41, 42 e 43): è “con la legge finanziaria [che] si
provvede (…) a determinare la variazione delle aliquote contributive e fiscali
e a individuare i lavoratori interessati”».
In “E. Gentili, F. Giusti e S. Macera, Pensioni, lavoro e welfare (II), «Machina»,
04/01/2024.
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