Educare alla pace: ripensare la scuola tra interazione, nonviolenza e resistenza alla militarizzazione
Educare alla pace: ripensare la scuola tra interazione, nonviolenza e resistenza alla militarizzazione
di Laura Tussi
In un contesto nazionale e globale segnato da un crescendo costante di militarizzazione — dalle scuole alle politiche di sicurezza, fino al linguaggio pubblico — diventa indispensabile tornare a riflettere su cosa significhi educare alla pace. Le guerre in corso, il riarmo accelerato, la normalizzazione della violenza nei media e nei discorsi politici alimentano un clima in cui le nuove generazioni rischiano di crescere considerando inevitabile ciò che invece è frutto di scelte precise.
All’interno delle istituzioni educative questo processo è particolarmente evidente: visite militari nelle scuole, progetti che presentano le Forze Armate come modelli identitari, narrazioni belliciste travestite da educazione civica. Tutto ciò contribuisce non solo a plasmare un immaginario improntato alla competizione e alla forza, ma anche a svuotare i percorsi pedagogici fondati sul dialogo, sulla cooperazione, sulla gestione nonviolenta dei conflitti.
In questa fase storica, il contributo di studiosi, educatori e attivisti offre un punto di riferimento prezioso per ripensare il ruolo della scuola come luogo di costruzione di pace, pluralismo e cittadinanza democratica. Le sue riflessioni partono da un’analisi sociologica ampia e tornano a ricordarci che ogni modello educativo è sempre l’espressione di una visione del mondo: può riprodurre strutture di potere verticali e militarizzate oppure promuovere soggettività libere, critiche, attente all’altro.
Da tutto questo emerge come le pratiche scolastiche non siano mai neutre, e come oggi più che mai sia urgente recuperare percorsi di dialogo e di interazione nonviolenta, opponendosi a ogni deriva fascistizzante e autoritaria che rischia di insinuarsi nel tessuto educativo.
In ambito scolastico si dovrebbero adeguare sempre delle prassi e modalità di comportamento per costruire sistemi di pace e non militarizzanti e violentisti.
Attualmente è sempre più difficile adeguarsi a dinamiche di pace a scuola per il repentino susseguirsi di processi di militarizzazione e fascistizzazione. Forse anni fa, in ambito scolastico si disponevano costantemente, si adeguavano sempre delle prassi, delle pratiche d’azione e modalità di comportamento, nonché strumenti normativi per attuare nell’ambito dell’esosistema o microsistema educativo dei principi normativi e per attivare negli allievi processi di socializzazione atti e volti a stabilire delle norme in un tessuto d’azione anche negoziabile, flessibile, interattivo e modificabile per costruire sistemi di pace.
Il fatto di disporsi a cerchio con i banchi, incentrando l’attenzione sull’artefice primario del processo educativo (l’educatore/insegnante), la pretesa della prenotazione del turno per alzata di mano anche al fine di intervenire a scopi didattici e il rispetto cronologico dell’intervento, costituiscono un insieme di strumenti normativi che possono avviare processi socializzanti, fautori di regole e norme implicite, esplicitate dall’insegnante e acquisite dal ragazzo quali modalità funzionali alla migliore convivenza e al reciproco rispetto, senza adottare modalità coercitive, ma ampiamente condivise in maniera interattiva.
Anche questa elaborazione di intervento educativo, pienamente condivisa e attuata dalla sottoscritta, risulta il frutto di decenni di studi sociologici dei processi di crescita, che oscillano tra interazione e rispetto delle regole, nonché processi di socializzazione e nonviolenza.
Infatti, l’idea di infanzia fino ai giorni nostri si modifica in base ad alcuni modelli di lettura sociologica. Negli anni ’60 e ’80 l’idea di bambino è legata alla concezione di società funzionalista, integrazionista o costruttivista, per cui l’educazione in questo periodo risulta finalizzata all’integrazione funzionale dell’individuo alla società.
Parsons e Durkheim elaborano lo schema AGIL, riflettendo sulla società interessata a inquadrare gli individui in alcuni modelli preordinati in un autocratico adultocentrismo, che vuole inglobare il bambino nella società perlopiù tendente alla militarizzazione. È lo stesso modo di pensare che subentra con gruppi minoritari di società “altre” per cui deve avvenire un processo assimilatorio con il gruppo di accoglienza.
Da questi concetti nasce la prospettiva educativa adultocentrica, ma attualmente militarizzata, che prevede la completa integrazione nella struttura sociale, secondo un modello funzionalista che coinvolge ruoli e funzioni di adeguamento e adattamento all’ordine e al sistema violentista precostituito.
Il modello funzionalista e integrazionista con Parsons si esplica con lo schema AGIL (adattamento, obiettivo, integrazione e latenza), dove latenza significa riproduzione della cultura secondo gli obiettivi dati all’educazione negli anni ’60 e ’80. Secondo Parsons tutto è analizzabile con questo schema, che rappresenta un modello di lettura della realtà adeguato a leggere la struttura sociale.
Questo modello adultocentrico corrisponde a diverse prassi di intervento, tra cui prevalgono le modalità coercitive e guerresche e belliciste in ambbito scolastico. Una autentica fascistizzazione di indottrinamento. Per esempio emerge la prassi della sorveglianza. Foucault scrive “Sorvegliare e punire”, in cui il concetto di sorveglianza conduce all’aspettativa che l’altro si comporti in base alle nostre regole e a dettami imposti.
Prevale il valore dell’imparare a conformarsi come sostiene Danziger ne “La socializzazione”. Se l’obiettivo è quello della conformità subentra il rischio di ipersocializzazione, per cui l’infanzia non deve risultare trasgressiva, né deviante, ma ipersocializzata.
Il grosso rischio è una forma di dipendenza sociale perché in assenza di regole e norme l’individuo è disorientato, per cui si avverte l’esigenza di essere incasellati, inquadrati come in una protezione, in un’incubatrice, in quanto le norme esterne non sono state interiorizzate come regole intersoggettive. Dal punto di vista strutturale della società si avvertiva omologazione, omogeneità in senso positivo.
La riproduzione culturale implica invece un impoverimento e il rischio che si presenta è appunto l’ipersocializzazione. Alcuni autori criticano il modello ipersocializzante e funzionalista, applicando alla realtà il modello costruzionista-interazionista.
Mead, Blumer e la Scuola di Chicago propongono una considerazione della società e della realtà prive di funzionalismo, ma come costruzioni sociali basate sull’interazione con l’altro, per cui l’idea d’infanzia non è solo strutturata su modelli teorici, ma per interazioni con e tra bambini.
La Scuola di Chicago nasce quando ci si pone il quesito se tutto dipende dalla nostra esperienza, ossia il filosofo “trova ciò che cerca”. Quello che noi facciamo in educazione non è sempre così integrazionista, ma è soprattutto interazionista, ossia basato sull’interazione. L’educazione consiste dunque in interazione e non in possibile ipersocializzazione con schemi sociali attualmente alla deriva violentista.
Subentra lo spostamento del soggetto socializzante dell’infanzia verso un soggetto con capacità interpretativa, in cui l’infanzia conduce a un’identità individuale e sociale. Dunque l’infanzia, ancora considerata mancanza, non è perfetta, ma cambierà l’idea di infanzia come oggetto passivo; infatti, nell’ambito dell’interazione il bambino diviene soggetto attivo mediante il controllo e la comunicazione dialogica.
Tale modello comunicativo pone attenzione alla soggettività dell’educando e le prassi si modificano all’interno di un’interazione dialogica per la pace, che sviluppa la preoccupazione relativa alla relazione, in quanto non vi è primato né dell’individuo né della società.
Nella foto: Disegno di Angela Belluschi, madre di Laura Tussi, che soffre di sindrome neurodegenerativa. Con il supporto di Nora Romero
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