L’Occidente dell’ipocrisia: guerre, armi, bambini violati e il Sud del mondo sotto ricatto
L’Occidente dell’ipocrisia: guerre, armi, bambini violati e il Sud del mondo sotto ricatto
di Laura Tussi
Mentre l’Occidente pontifica sulla pace, sui diritti umani e sulla democrazia, continua a fabbricare e vendere strumenti di morte, a decretare sofferenze e carestie nei Paesi del Sud del mondo. È un paradosso che si ripete da decenni: da una parte palazzi e media diffondono parole di condanna verso i conflitti “altrui”, dall’altra i governi, le multinazionali e le lobby belliche lucrano sulla guerra, progettandola, alimentandola, controllandola.
La verità è cruda: l’Occidente vuole il Sud sotto schiaffo, perché un Sud destabilizzato, affamato e militarizzato è più facilmente soggetto a sfruttamento economico, politico e sociale. Le guerre “d’altri” sono il terreno su cui si coltiva la propria supremazia: materie prime sottratte, risorse naturali controllate, popoli privati di autodeterminazione. Chi parla di pace senza denunciare chi produce e commercia armi, chi parla di diritti umani senza guardare alle bombe che esporta, mente. È un’ipocrisia sistemica, funzionale agli interessi di pochi e devastante per molti.
Guardando ai teatri di conflitto in Africa, Medio Oriente, America Latina o Asia, emerge un filo rosso evidente: le armi occidentali arrivano sempre prima delle missioni umanitarie, e spesso le precedono. Le stesse democrazie che condannano l’invasione di un Paese sono le prime a vendere missili, droni, bombe intelligenti e munizioni a chi alimenta quei conflitti. È un circolo vizioso che garantisce profitti ingenti e mantiene il Sud del mondo in una condizione di dipendenza e di vulnerabilità permanente.
Ma le conseguenze non sono solo geopolitiche: la guerra produce traumi, disperazione e disperazione psicologica, soprattutto tra i giovani e gli adolescenti. Per loro, il mondo appare ingiusto e incomprensibile: immagini di bombardamenti, reportage di civili uccisi, notizie di carestie pilotate dall’avidità economica costruiscono un orizzonte di paura e impotenza. Eppure, educatori e operatori sociali continuano a testimoniare che si può coltivare resilienza, senso critico e coscienza politica, anche di fronte all’orrore, purché si denunci senza filtri la verità sui veri responsabili.
L’Occidente predica l’ordine globale, ma la sua pace è un’illusione pagata con il sangue altrui. La vera giustizia richiederebbe di smettere di fabbricare armi, di cessare il commercio internazionale delle armi, di interrompere il ricatto economico e militare sui Paesi del Sud. Solo allora il concetto di “pace” non sarà più una parola svuotata e i “diritti umani” non verranno più usati come strumenti retorici per coprire interessi inconfessabili.
Fino a quel momento, il compito di chi scrive e di chi educa è chiarissimo: denunciare, spiegare, rendere visibile la rete di potere e profitto che sta dietro la guerra. E stimolare una nuova generazione di ragazzi e ragazze a non accettare la menzogna come normalità, a leggere la realtà senza filtri e a pensare un mondo dove la pace non sia un lusso per pochi, ma un diritto universale.
L’Occidente può continuare a parlare di valori, ma la verità resta: la sua guerra è la guerra degli affari, e i popoli del Sud sono il suo laboratorio permanente. E finché questa ipocrisia perdurerà, parlare di democrazia e umanità resterà un insulto a milioni di vittime silenziose.
Educazione, infanzia ferita e il dovere di proteggere i più vulnerabili
A pagare il prezzo più alto di questa ipocrisia sono i bambini. I conflitti alimentati dal commercio internazionale di armi privano intere generazioni della possibilità di crescere, imparare, immaginare il futuro. Nelle scuole bombardate o trasformate in rifugi, l’infanzia diventa un miraggio: i bambini imparano presto il linguaggio della paura, molto prima di quello della lettura e della scrittura.
Molti sopravvivono a bombardamenti e carestie, ma restano segnati da ferite invisibili: incubi ricorrenti, mutismo selettivo, regressioni emotive, perdita di fiducia negli adulti. Questi traumi non sono accidenti della storia: sono la conseguenza diretta delle scelte politiche, economiche e militari dei Paesi che continuano a vendere armi sapendo perfettamente dove finiranno.
L’educazione, in questi contesti, diventa un atto di resistenza. Insegnare significa restituire dignità, offrire strumenti critici, costruire anticorpi culturali contro la violenza strutturale. Le maestre e gli educatori, spesso volontari o operatori locali, sono i veri custodi di un futuro possibile: creano spazi di apprendimento in cui i bambini possono sentirsi sicuri, protetti, ascoltati.
Ma non basta. Occorre che le società occidentali guardino in faccia la realtà: ogni bomba fabbricata porta con sé un bambino ferito, ogni arma venduta sottrae un banco di scuola, un libro, una possibilità. L’impegno educativo e sociale deve affiancarsi a una radicale critica del sistema bellico ed economico che continua a generare conflitti.
Solo quando l’Occidente smetterà di produrre armi e inizierà a sostenere davvero istruzione, sviluppo, cooperazione e dignità, allora i bambini del Sud del mondo potranno crescere non come vittime ma come protagonisti del proprio destino. Fino a quel momento, la nostra civiltà non potrà dirsi civile.

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