La narrazione autobiografica come giustizia sociale, cura della memoria e riscatto delle vite invisibili.
La narrazione autobiografica come giustizia sociale, cura della memoria e riscatto delle vite invisibili.
di Laura Tussi
Ogni individuo ha diritto di autonarrarsi. Non è un vezzo, è un diritto civile. Perché nelle zone d’ombra dove il disagio sociale, spirituale ed emotivo si insinua, il racconto di sé diventa un gesto di resistenza. Riconsegna alle persone la legittimità della propria esistenza e restituisce loro la coscienza di essere parte di una storia più ampia. Le storie di vita non sono mai un semplice resoconto: sono un atto di riappropriazione.
Quando la memoria individuale non riesce più a dialogare con quella collettiva, le persone si isolano, si smarriscono, si sentono estranee ai propri stessi giorni. La narrazione cura queste fratture. Rianima relazioni interrotte, ricuce percorsi comunitari, crea ponti dove prima c’erano silenzi. Il racconto è sempre relazione: non esiste memoria senza un destinatario, senza un ascolto, senza un altro essere umano a cui affidare le proprie parole.
La scrittura amplifica tutto questo. Trasformare la narrazione orale in parola scritta permette una nuova consapevolezza: apre spazi interiori, attiva processi riflessivi, rielabora emozioni e sensazioni, traduce l’esperienza in pensiero. Nella scrittura autobiografica avviene un processo ermeneutico: si impara a leggere sé stessi come si leggerebbe un testo complesso, con attenzione, cura, rispetto.
Questo metodo non è solo individuale: è profondamente sociale. Le comunità hanno bisogno di raccogliere, rievocare e riconnettere storie che rischiano di essere dimenticate o standardizzate da un sistema culturale che tende a omologare tutto. Oggi più che mai la società è schiacciata su modelli uniformanti, dove la singolarità interiore viene soffocata da dinamiche mediatiche e mercificatrici. Recuperare la narrazione significa difendere l’unicità di ogni persona, significa contrastare la spersonalizzazione.
Le istituzioni educative hanno un ruolo decisivo in questo processo. La scuola – quando riesce ad essere realmente una comunità di ricerca – è il luogo in cui il passato viene reinterpretato per comprendere il presente e immaginare il futuro. La memoria non serve a ricordare: serve a progettare. È un atto creativo, non imitativo. La storia non è solo ciò che è accaduto, ma ciò che siamo in grado di salvare e reinterpretare.
Educarci alla memoria significa insegnare ai giovani a dare senso alla propria vita, a riconoscere radici e matrici di significato, evitando di smarrirsi in un eterno presente che rende tutto effimero e privo di fondamento. La memoria è fatta di emozioni, non solo di dati: è sedimentata nelle passioni, nei sentimenti che accompagnano gli eventi. Per questo la testimonianza diretta – la presenza viva di chi ha attraversato certe vicende – è insostituibile. È il filo rosso emotivo che permette di comprendere la storia non come successione di fatti, ma come esperienza umana.
La memoria, però, non è mai una semplice riproduzione del passato: è una creazione. È un atto che illumina e a volte brucia, come un sole interiore che rivela ciò che spesso vorremmo dimenticare. Ma è proprio attraverso questa luce – anche quando è difficile da sostenere – che possiamo rimanere in relazione con noi stessi e con gli altri. La solitudine involontaria, l’isolamento che spezza i legami, è uno dei mali più pericolosi delle nostre società. Le storie di vita sono antidoti: ampliano il confine del sé, lo collegano ad altri mondi, ad altre esperienze, a un orizzonte condiviso.
In questa prospettiva, anche le esperienze socio-pastorali, come quelle vissute da molte donne impegnate nella cura delle persone in mobilità, sono storie di vita preziose: raccontano la dimensione umana e spirituale del servizio, rivelano un patrimonio di memoria collettiva che non può andare perduto. In un tempo segnato da migrazioni, spaesamenti, identità fragili, la memoria di chi ha vissuto e accompagnato questi percorsi è una risorsa essenziale per ricostruire senso e comunità.
Raccontare significa non essere soli e non lasciare soli gli altri. Significa creare legami, offrire riconoscimento, difendere il diritto di ogni persona a essere ascoltata e compresa. Le storie di vita sono strumenti di liberazione, di empowerment, di ricostruzione del tessuto sociale. In esse si trova la sorgente che scorre sotto le rocce del tempo: la possibilità di dare ancora senso alle nostre esistenze, di costruire un futuro condiviso, di restare umani nell’epoca delle omologazioni.
Raccontare e ascoltare storie di vita non è un semplice gesto narrativo: è un atto di giustizia. Un modo per riconsegnare alle persone ciò che la società spesso sottrae loro: dignità, voce, relazione, memoria.
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