Apartheid in Palestina
«Nei bantustan in Sudafrica un’unica apartheid, in Palestina tante»
Intervista. Salim
Vally, professore sudafricano e leader del Palestine Solidarity
Committee: «Il sistema israeliano è più sofisticato: si applica in
forme diverse alle diverse 'sacche' di palestinesi. E a differenza
degli Afrikaners non è così dipendente dalla manodopera araba»
Da anni attivisti, esperti e ricercatori studiano i
parallelismi tra il Sudafrica del dominio Afrikaners e il regime
che Israele ha imposto sulla popolazione palestinese. Alla base
sta il concetto di apartheid che, seppur con ovvie differenze
storiche, è applicato ai due sistemi e che è definito dal diritto
internazionale come «regime istituzionalizzato di oppressione
sistematica e di dominio di un gruppo razziale su qualsiasi altro
gruppo razziale».
Ma se a 20 anni dalla sconfitta dell’apartheid
sudafricana come sistema legale le disuguaglianze socio-economiche
tra bianchi e nere permangono, Israele porta avanti la sistematica
discriminazione della popolazione palestinese sotto la propria
effettiva autorità, che si tratti dei palestinesi cittadini
israeliani o dei residenti nei Territori Occupati.
Ne abbiamo parlato con Salim Vally, professore
all’Università di Johannesburg e direttore del Center for
Education Rights and transformation, leader del Palestine
Solidarity Committee sudafricano e attivista anti-apartheid di
lungo corso.
A due decenni dalla fine dell’apartheid
legale in Sudafrica, cosa resta del sistema di segregazione?
Permane un’apartheid ufficiosa o, come la definisce un’analisi del
think tank al-Shabaka, un «capitalismo razziale» nel paese?
Sono completamente d’accordo con il concetto usato dagli
autori dell’analisi citata, Haidar Eid e Andy Clarno. Il
capitalismo razziale è la causa dell’assenza di un reale
cambiamento: il sistema di apartheid, la sua legislazione e la
discriminazione legale sono stati rimossi dalle leggi dello Stato,
ma non la discriminazione di classe, in termini di povertà, di
proprietà. Nulla è cambiato. Ci troviamo di fronte ad un sistema
liberale democratico come risultato dei negoziati dei primi anni
’90, ma non a reali cambiamenti strutturali.
È la razza che continua a definire
opportunità e accesso a casa, terre, educazione, servizi. Una
forma diversa e occulta di colonizzazione?
Il processo per cui alcune persone si sono arricchite e
altre impoverite segue linee razziali. Usare la razza per
giustificare la spoliazione della gente e l’accumulazione rapida
da parte di pochi significa utilizzare linee di «colore». Le
questioni di razza e classe non possono essere divise, l’intera
struttura dipende da capitalismo e razzismo. Succede anche in
altri paesi ma in Sudafrica in modo molto più sistematico. Tutti
noi abbiamo combattuto l’apartheid e pagato un prezzo e siamo
consapevoli che la situazione è migliorata, che c’è stato un
avanzamento chiaro sul piano della discriminazione legale, ma è
vero anche che la maggior parte dei poveri e della classe operaia
non ha visto migliorare le proprie condizioni socio economiche.
Perché nel Sudafrica della lotta
all’apartheid e del governo ormai ventennale dell’Anc, la
discriminazione non è stata sconfitta?
Perché la struttura economica della società non è stata
cambiata nelle sue fondamenta. Come accaduto anche in Asia e
America latina, l’indipendenza politica ha portato a nuove élite e
nuove bandiere ma le principali sorgenti dello sfruttamento sono
spesso rimaste le stesse. Il vero potere, quello economico, è in
mano a chi lo aveva già, alla borghesia tradizionale, nel caso
sudafricano quella bianca. A questa si aggiunge una piccola quota
di borghesia nera, ma la maggior parte dei neri sono intrappolati
in una tremenda povertà.
Inevitabile è il parallelo con il modello
israeliano. Nelson Mandela disse: «La nostra libertà è
incompleta senza la libertà dei palestinesi». E Desmond Tutu
ripete che quella israeliana è una segregazione ancora peggiore
di quella degli Afrikaners. Quali i punti in comune e quali le
differenze?
Ci sono molti elementi comuni, il modello israeliano è
parte della «famiglia» dei regimi di apartheid. I pensieri
espressi da Mandela e Tutu sono molto accurati. Chi di noi ha
visitato la Palestina ha immediatamente visto le similitudini
nella discriminazione quotidiana: mancata libertà di movimento,
regime dei permessi, demolizioni di case, detenzioni senza
processo, divisione in bantustan di Cisgiordania e Gerusalemme.
Tutto questo riflette il modello operativo dell’occupazione che
non esitiamo a definire stato di apartheid.
È molto importante sul piano giuridico e del diritto
internazionale ricordare che l’Onu ha votato alla fine degli anni
’80, dopo lo scoppio della prima Intifada per intenderci, una
risoluzione di condanna ed eliminazione dell’apartheid, ovviamente
riferita all’epoca al Sudafrica ma volontariamente posta come
concetto generico. L’obiettivo era riferirsi a qualsiasi possibile
paese. Esperti giuridici di tutto il mondo, come John Dugand e
Richard Falk, hanno detto più volte che Israele si qualifica come
Stato di apartheid.
Esistono ovviamente anche significative differenze tra
Israele e Sudafrica dell’apartheid. Un esempio: la classe al
potere in Sudafrica dipendeva dalla forza lavoro nera a basso
costo e per questo lo sviluppo dei sindacati ha permesso di
resistere con più efficacia al regime semplicemente sottraendogli
lavoratori e bloccando l’economia. Nel caso palestinese non
accade: se inizialmente Israele ha sfruttato la manodopera
palestinese, l’ha poi marginalizzata. L’economia israeliana non è
dipendente dalla forza lavoro palestinese.
Il caso palestinese è inoltre
caratterizzato dalla divisione in territori e conseguenti status
legali diversi della popolazione (rifugiati della diaspora,
residenti apolidi di Gerusalemme, comunità sotto occupazione a
Gaza e in Cisgiordania e palestinesi cittadini israeliani).
Forme diverse di apartheid o un unico sistema?
È come se il popolo palestinese fosse tanti popoli
diversi. È fondamentale ricordarsi dei 7 milioni di profughi
all’estero e dei quasi 2 milioni di palestinesi cittadini
israeliani discriminati. La situazione è dunque diversa dalla
segregazione sudafricana dove con il sistema dei bantustan si
puntava al controllo fisico e limitato nello spazio della
popolazione nera, dove però non c’erano differenze di trattamento.
Il sistema di apartheid di Israele è infinitamente più sofisticato
perché si applica in forme diverse alle diverse «sacche» di
palestinesi. Ciò rende la loro situazione peggiore di quella che
la maggior parte dei sudafricani ha sopportato.
Nel caso sudafricano, oltre alla
mobilitazione interna, un ruolo centrale lo ebbe il boicottaggio
internazionale. In quello palestinese il boicottaggio esiste, ha
effetti concreti ma resta un’opzione elle società civili, non
dei governi. Quale la chiave per aprire le stanze dei bottoni?
Nel caso sudafricano ci sono voluti decenni prima che si
arrivasse al boicottaggio internazionale e che questo divenisse
significativo: la prima chiamata la boicottaggio risale al 1959.
Non abbiamo raggiunto questo livello con la questione palestinese,
ma non significa che un movimento non esista. Significa che il
supporto globale può avere effetti contro l’impunità di Israele,
soprattutto in Europa, se si moltiplicano le spinte dalla base ai
vertici. Ognuno di noi di fronte alle atrocità che vede deve
giocare un ruolo: studenti, professori, organizzazioni,
associazioni di donne e così via sono il solo mezzo di pressione
sui governi al potere, che beneficiano loro stessi
dell’occupazione israeliana.
Abbiamo visto in questi giorni Ibrahim Abu Thuraya,
disabile, ucciso da un cecchino israeliano mentre sventolava una
bandiera, un omicidio extragiudiziale; la 16enne Ahed Tamimi
arrestata per uno schiaffo; due milioni di persone sotto assedio a
Gaza; 500 bambini arrestati ogni anno e torturati…posso andare
avanti per giorni a elencare le atrocità israeliane. E tutto
avviene nel silenzio internazionale. Dobbiamo agire ora perché la
repressione che subiscono i palestinesi è ora. Netanyahu, il
movimento dei coloni, la gran parte del governo israeliano la
vedono come la soluzione definitiva a quanto iniziato nel 1948, un
genocidio in termini di presenza fisica, culturale, sociale, così
come lo definisce – usando la definizione dell’Onu – Ilan Pappe.
Tutto questo può spingere la gente a guardare alla solidarietà
internazionale e al rafforzamento delle organizzazioni di base
palestinesi come sola alternativa alla posizione dei governi.
***
Salim Vally è impegnato in questi giorni in un tour in Italia, una serie di incontri sul ruolo del boicottaggio internazionale nella lotta all’apartheid. Lunedì ha parlato a Cagliari, ieri a Torino. Oggi sarà a Trieste, domani a Bologna e venerdì a Reggio Emilia. Informazioni su luoghi e orari nella pagina Facebook di Bds Italia.
Salim Vally è impegnato in questi giorni in un tour in Italia, una serie di incontri sul ruolo del boicottaggio internazionale nella lotta all’apartheid. Lunedì ha parlato a Cagliari, ieri a Torino. Oggi sarà a Trieste, domani a Bologna e venerdì a Reggio Emilia. Informazioni su luoghi e orari nella pagina Facebook di Bds Italia.
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