SPECIALE kURDISTAN

Da Il Manifesto


 

Al via la spartizione etnica della Siria

L'atlantismo, quello strategico, dei contrabbandati valori e princìpi di libertà e diritto, affonda nel Rojava curdo-siriano, unico esperimento davvero democratico della regione.
E tutto sarà sancito il 13 novembre con una bella stretta di mano tra Erdogan e Trump alla Casa Bianca. Cosa ci spartiamo oggi con una vecchia cara pulizia etnica, di qualche centinaio di morti e migliaia di profughi, che porta alle annessioni di interi territori? La Siria, naturalmente: via i curdi per far posto a militari turchi, milizie turcomanne, bande di jihadisti amici di Ankara, dell’Isis e profughi arabo-siriani a volontà.
Poi un domani potrebbero seguire la Libia, l’Ucraina, l’ufficializzazione dell’annessione della Crimea, per cui la Russia è sotto sanzioni, e qualche altro nuovo pezzo di Medio Oriente o di Africa. Dalla condanna universale e allo sdegno per il tradimento Usa dei curdi si è passati in meno di una settimana all’accordo tra potenze.
LA TURCHIA si è già portata a casa l’anno scorso il cantone curdo di Afrin – nessuno allora disse una parola – e adesso punta a prendersi un bel pezzo di Rojava, con una profondità di 30 chilometri. Con il consenso degli americani ma anche della Russia, come vedremo sanzionato nell’incontro tra Putin e Erdogan di martedì prossimo a Sochi dove di taglieranno le fette della torta siriana.
RICORDIAMO che ad Afrin l’operazione «Ramoscello d’ulivo» dei turchi avvenne con la Russia che poco prima dell’inizio si ritirava dalle sue basi nel cantone e la sua aviazione controllava ancora lo spazio aereo in cui agivano i jet turchi. Mentre gli Stati Uniti, che avevano fatto dei curdi la loro fanteria contro l’Isis, non fecero alcuna protesta diplomatica. Non si sa mai che ai turchi venisse un attacco da «sindrome di Sévres», uno dei trattati negli anni Venti di spartizione dell’Impero ottomano, che dopo le promesse lasciarono i curdi come il popolo più numeroso della regione senza uno stato.
Gli americani sono premurosi nei confronti di un alleato Nato: toglieranno al più presto le sanzioni minacciate ad Ankara lasciando gli europei con il cerino in mano del finto embargo sulle armi. Del resto sanzionare Erdogan è sconveniente: al principe assassino Mohammed bin Salman, responsabile dei massacri di civili in Yemen e dell’uccisione barbara del giornalista Jamal Khashoggi, non solo non sono state imposte sanzioni ma inviati 3mila soldati Usa per proteggerlo dopo l’attacco agli impianti petroliferi e ora Washington gli vende pure un paio di centrali nucleari. Mentre Putin, che con i sauditi manovra il prezzo del petrolio, ha appena firmato a Riad contratti per un paio di miliardi di dollari.
CHE ARIA tirasse in Siria lo si era capito il 25 marzo scorso quanto Trump e Netanyahu si sono stretti la mano e gli Usa certificarono davanti al mondo l’annessione da parte israeliana della Alture del Golan occupate durante la guerra del 1967 e tutto questo nonostante la comunità internazionale continui a riferirsi alle Alture come parte dei «territori occupati», secondo la risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Uniti. E così avverrà anche questa volta con la Turchia e il Rojava, perché comunque l’Onu è paralizzato dai veti nel Consiglio di sicurezza.
NEL CASO del Rojava le vittime curde possono avere un aiuto, assai interessato, soltanto da parte di Assad e della Russia nel caso vogliano contribuire all’obiettivo di Damasco e di Mosca di fare pressioni su Erdogan per liberare Idlib dai jihadisti, città ai confini con la Turchia che ha una rilevante importanza strategica sull’asse di collegamento Aleppo-Hama-Homs-Damasco. Insomma i curdi si troveranno ancora una volta manovrati, soprattutto se sarà data loro la possibilità di organizzare una guerriglia contro Ankara. L’operazione turca «Sorgente di pace» potrebbe diventare fonte di grossi guai.
Ma intanto, lasciati dagli Stati uniti senza contraerea, i curdi sono stati esposti ai raid turchi senza possibilità di difendersi. Il tradimento resta, comunque venga venduto dalla propaganda americana.
SULL’ORLO della Brexit l’Europa ingurgita tutto, pronta con la Germania in testa a pagare ancora Erdogan per tenersi una parte dei profughi siriani, a respingere i nuovi rifugiati curdi e con la Francia che, forte dell’uscita prossima della Gran Bretagna, mette il veto al processo di adesione di Albania e Macedonia.
I francesi, che misero sotto mandato la Siria nel 1920, sono esperti di spartizioni e dismissioni. In Siria del Nord crearono persino uno stato alauita – la minoranza religiosa del clan degli Assad – con capitale Latakia dal 1922 al 1937 che comprendeva il Sangiaccato di Alessandretta (Iskenderum) e poi nel giro di una notte lo cedettero alla Turchia di Ataturk.

La tregua non ferma Erdogan: faremo la zona cuscinetto

Siria/Rojava. Il leader turco fa ancora la voce grossa e minaccia una ripresa dell'offensiva militare se i combattenti curdi delle Ypg e Ypj non si ritireranno ad 20 miglia dal confine. Decisivo la prossima settimana il faccia faccia che avrà con Putin
Non tacciono le armi turche nel nord-est della Siria nonostante la tregua concordata da Recep Tayyib Erdogan con il vice presidente Usa Pence e il Segretario di stato Pompeo. La Turchia giovedì si era impegnata a fermare la sua offensiva aerea e quella terrestre condotta dai suoi alleati, i mercenari dell’Esercito nazionale siriano (Ens), in cambio dell’arretramento di 20 miglia in territorio siriano delle unità di difesa curde, Ypg e Ypj. Ma sul terreno le cose sono andate in modo molto diverso. Ersin Çaksu un reporter dell’agenzia Anf ieri ha raccontato che Serekaniye (Ras al Ain), la fortezza della resistenza curda, ha subito per tutta la notte tra giovedì e venerdì attacchi violenti da parte dell’esercito turco e dei suoi alleati, con uso di mezzi corazzati e dell’artiglieria. La città comunque resiste e ieri i combattenti curdi hanno respinto tentativi di incursione da ovest e da est.
Nell’ospedale locale – che ha subito quattro attacchi – la situazione resta precaria. Medici e pazienti di fatto sono intrappolati al suo interno con ben poco a disposizione. Non lontano dalla città, a Mishrafa, ieri si sono estratti i corpi di 16 civili rimasti sotto le macerie di case colpite da raid aerei del 9 ottobre, quando è cominciata l’offensiva ordinata da Erdogan. Nella stessa zona, a Zirgan, un bombardamento ha ferito 12 civili, tra i quali un rappresentante politico, Hesen Newaw Heci Eli. Il Cento d’informazione del Rojava ha riferito di un attacco dei miliziani dell’Ens al villaggio di Bab al Xer e dell’utilizzo di droni da parte turca: almeno otto i morti.
Non svaniscono nel frattempo i sospetti per l’uso di armi chimiche, che Erdogan e i suoi generali invece negano. «Sei persone riportano ferite sospette» denuncia la Mezzaluna rossa curda «Non possiamo confermare che a causarle siano armi illegali, al momento stiamo lavorando con le organizzazioni internazionali per compiere le verifiche del caso». I curdi chiedono che ad indagare siano degli specialisti indipendenti. Accuse durissime alle forze armate turche sono state lanciate anche da Amnesty. L’ong a difesa dei diritti umani denuncia esecuzioni sommarie e attacchi indiscriminati riferiti da medici, giornalisti e operatori umanitari locali. Attacchi che hanno preso di mira luoghi abitati (tra cui una casa, una panetteria e una scuola). Amnesty condanna anche i Paesi stranieri che vendono armi ad Ankara, con in testa gli Usa seguiti da Italia, Germania, Brasile e India.
I comandi politici e militari curdi confermano di voler rispettare il cessate il fuoco ma chiedono protezione alla comunità internazionale e che ai turchi e ai loro alleati non sia consentito di compiere operazioni di pulizia etnica nelle zone che hanno occupato nei giorni scorsi. Ripetono: «le nostre forze rimangono», quindi non se ne vanno come vuole Ankara. Erdogan afferma l’esatto contrario e scaglia altre minacce. «I terroristi (così chiama i combattenti curdi, ndr) si ritireranno per una profondità di 20 miglia», ha ribadito ieri, confermando l’intenzione di trasformare in una “zona cuscinetto” l’intera striscia di territorio siriano che costeggia la frontiera profonda 32 chilometri e lunga poco più di 400 chilometri. Per il leader turco il faccia a faccia che avrà con Vladimir Putin il 22 ottobre a Sochi (Russia) sarà un’altra fase del processo di creazione della “zona cuscinetto” che per il momento copre l’area tra Tal Abyad e Serekaniye, per un totale di 120 chilometri. Ma pensa di estenderla per un totale di 440 chilometri da est a ovest, lambendo anche il confine con l’Iraq. Determinato a realizzare i suoi piani, Erdogan ieri ha attaccato ancora una volta i capi di stato e di governo occidentali, colpevoli a suo dire di essere «ipocriti» nei confronti delle «esigenze di sicurezza» del suo paese.
Per Erdogan l’incontro con Putin, suo partner assieme al presidente iraniano Rohani nel meccanismo di Astana, è fondamentale. La Turchia, ha affermato, non attuerà altre operazioni militari nel nord-est della Siria se la Russia rimuoverà «i terroristi curdi delle Ypg anche da Manbij e Kobane». Putin è pronto a soddisfare le sue intimazioni? Non è scontato, anzi. Damasco resta in guardia e segue le mosse dell’alleata Mosca. A inizio settimana il presidente Bashar Assad ha inviato i suoi soldati, accompagnati dalla polizia russa, in aiuto ai curdi nelle città di confine dove dopo anni è stata nuovamente issata la bandiera siriana. E ora dal Cremlino si attende un “no” alla “zona cuscinetto” di Erdogan in territorio siriano. Uno dei consiglieri di Assad, Bouthaina Shaaban, ieri ha parlato di accordo «ambiguo» tra Turchia e Stati Uniti sul cessate il fuoco nella Siria nord-orientale. «Ciò che è stato concordato tra Washington e Ankara non significa che la Russia e la Siria lo accetteranno», ha sottolineato, in quello che è stato letto come un messaggio agli “amici” russi.

Le curde e i curdi combattono anche per noi

E così Siria. «Non parlateci più di valori occidentali se non sapete difendere il popolo curdo», come titola quello firmato da numerose intellettuali italiane, lascia intendere una qualche supremazia dei valori occidentali, come se fossero quelli a ispirare le donne curde! No, sono i valori e i diritti universali a ispirarle, comuni anche a paesi non occidentali. Non abbiamo il primato dei diritti, nemmeno di quelli delle donne, se le curde stanno realizzando, non senza problemi, la parità di genere che da noi stenta ad affermarsi
Il cessate il fuoco concordato da Erdogan con il vicepresidente americano Pence per 120 ore (5 giorni, ne restano 4) non ha impedito all’esercito turco di continuare a colpire obbiettivi curdi.
Del resto l’accordo non serviva a dare una tregua ai curdi ma a permettere a Erdogan di evitare uno scontro con gli Usa e a Trump di non dare seguito alle minacce di sanzioni. Che a Trump non interessasse la sorte dei curdi è stato evidente, se ce ne fosse stato bisogno, fin dal momento in cui ha annunciato il ritiro dal Kurdistan siriano, che di fatto rappresentava un via libera a Erdogan per le sue mire espansioniste. Tuttavia a Trump serviva questo accordo ambiguo per calmare le critiche – anche interne – seguite al ritiro.
Durante i 5 giorni di «tregua» i curdi dovrebbero ritirarsi da quella che Erdogan considera «fascia di sicurezza», 30 chilometri all’interno del territorio siriano. Ma perché i curdi dovrebbero lasciare le loro case, il loro lavoro e i loro averi? Anche se si parla di combattenti curdi – Ypg e Ypj – non si tiene conto che non si tratta di soldati di un esercito ma di Unità di protezione con compiti non solo militari rispetto alla popolazione. E se si ritirano i combattenti curdi chi garantisce la sicurezza del popolo curdo? L’esercito turco, quello di Assad o quello di Putin?
Se a Trump interessa solo disfarsi del fardello della guerra in Siria a scapito di combattenti che hanno sconfitto l’Isis, ma che sono considerati a loro volta terroristi, l’Europa dovrebbe avere maggiore consapevolezza dei rischi che corre con la messa in libertà di migliaia di jihadisti che fanno il gioco di Ankara.
Non è un mistero che gli aiuti – combattenti, armi e soldi – ai jihadisti che hanno combattuto in Siria contro Assad sono passati dalla Turchia, anche se i giornalisti turchi che l’hanno documentato sono in carcere o costretti all’esilio.
In Europa alla solidarietà formale con il popolo curdo, considerato più affine alla nostra concezione dei diritti come lo erano una volta i palestinesi, non corrispondono azioni concrete. E chi ha combattuto a fianco dei curdi è sotto processo a Torino.
A fare la differenza è la concezione laica dello stato, principio nato dalla Rivoluzione francese, ma non per questo appannaggio solo degli europei o degli occidentali.
Non esistono diritti occidentali od orientali, questa divisione è frutto di un relativismo culturale basato sulle diverse appartenenze etnico-religiose. Le donne e gli uomini curdi hanno spazzato via ogni ambiguità nella costruzione nel Rojava di una società basata sulla democrazia dal basso, la laicità, la parità di genere e lo sviluppo compatibile con l’ambiente. Un progetto ambizioso e rivoluzionario persino per gli standard occidentali. La forza dei curdi sta proprio nel loro progetto radicalmente alternativo a quello dello Stato islamico e in nome del quale le Forze siriane democratiche hanno combattuto e vinto la guerra contro i jihadisti.
I numerosi appelli che circolano in sostegno al popolo curdo sono una manifestazione dell’appoggio all’immagine che ci è giunta dei curdi e soprattutto delle combattenti curde. Ma proprio perché il valore di queste donne sta nella coerenza con il loro progetto di società e non si lasciano sopraffare dalla militarizzazione nemmeno quando sono sul terreno di battaglia, anche gli appelli in loro sostegno dovrebbero essere più meditati.
«Non parlateci più di valori occidentali se non sapete difendere il popolo curdo», come titola quello firmato da numerose intellettuali italiane, lascia intendere una qualche supremazia dei valori occidentali, come se fossero quelli a ispirare le donne curde! No, sono i valori e i diritti universali a ispirarle, comuni anche a paesi non occidentali. Non abbiamo il primato dei diritti, nemmeno di quelli delle donne, se le curde stanno realizzando, non senza problemi, la parità di genere che da noi stenta ad affermarsi.
«Le parole non bastano per fermare la Turchia», come ha detto giorni fa la comandante Nassrin Abdallah, che avevo intervistato quando la loro azione stava vivendo tempi migliori. E ha aggiunto: «Stiamo combattendo per tutti, per l’umanità intera, non solo per noi». Le parole non bastano ma hanno il loro peso e chi le pronuncia deve assumersene la responsabilità. Le curde e i curdi stanno combattendo anche per noi, perché i valori che condividiamo sono universali.

Mosca accende il gas ad Ankara

Russia. Lavrov: «No a forze d’interposizione russe»
Per comprendere le complesse relazioni diplomatiche tra Russia e Turchia è necessario alzare lo sguardo dalla Siria e gettare un occhio sulla fitta rete di relazioni economiche che i due Stati hanno sviluppato negli ultimi anni.
Ieri la società che cura il progetto di Turkish Stream – la South Stream Transport V.B. – ha annunciato che «il primo dei due filoni della sezione offshore del gasdotto Turkish Stream ha iniziato a essere riempito di gas durante la messa in servizio».
L’azienda ha anche informato che la pressione necessaria per riempire il sistema è stata creata dalla stazione di compressione Russkaya vicino ad Anapa. Da ieri dunque Mosca ha iniziato a fornire gas ad Ankara anche se l’inaugurazione vera e propria avverrà solo tra qualche settimana alla presenza dei due capi di Stato.
PER COMPRENDERE la dimensione dell’affare varrà la pena ricordare che le pipeline previste sono in realtà due: la prima, quella entrata in funzione ieri, rifornirà il mercato turca, mentre la seconda raggiungerà i Balcani e la Serbia attraverso la Bulgaria.
La capacità di ogni pipeline è di 15,75 miliardi di metri cubi di gas all’anno. La seconda tranche sarà il frutto di una joint-venture tra Gazprom e Botas, l’operatore della rete turca di trasporto del gas. In questo modo la Mezza Luna ha superato sul rush finale la Germania ancora alle prese con i veti ucraini e polacchi per il completamento di North Stream. Nelle trattative sulla Siria tra Erdogan e Putin sulla Siria (in programma a Mosca il prossimo 22 ottobre) non potranno tenere conto di questo aspetto come del resto del crescente interscambio commerciale tra i due paesi fatto di milioni di russi che ogni anno si abbronzano sulle spiagge di Antalya e fanno incetta delle primizie agricole turche nei supermercati di Mosca, rendendo ancora più guardinga la diplomazia del Cremlino.
IL MINISTRO DEGLI ESTERI Sergey Lavrov in partenza per una missione che toccherà molte capitali mediorientali, ha voluto ribadire la posizione russa sulla guerra scatenata dai turchi in Siria. Lavrov ha smentito la dichiarazione del ministro degli esteri turco, Mevlut Cavusoglu, secondo cui la Russia avrebbe promesso di garantire il ritiro delle forze curde dai confini con la Turchia e anche l’esistenza di un progetto del dispiegamento di una forza d’interposizione russa tra zone controllate dai turchi e quelle curde.
«Crediamo che il problema curdo nel quadro dell’integrità territoriale e della sovranità della Siria sia da risolvere attraverso il dialogo tra i leader curdi e le autorità legittime di Damasco. Sottolineo ancora una volta che ciò dovrebbe condurre a un completo ripristino della sovranità e dell’integrità territoriale della Siria, all’interno della quale vivranno curdi e altri gruppi etno-confessionali» ha sottolineato il ministro.
MA SULLA LEGITTIMITÀ dell’aggressione turca è stato ancora più prudente: «Riteniamo che la Turchia abbia legittime preoccupazioni per la sicurezza dei suoi confini di fronte alle minacce terroristiche ed estremiste che ora persistono in Siria. Allo stesso tempo siamo convinti che è possibile e necessario risolvere il problema attraverso il dialogo» ha chiosato Lavrov dando un colpo alla botte di Ankara dopo aver dato un colpo al cerchio curdo-siriano.
Infine Lavrov si è detto preoccupato che il conflitto di questi giorni possa rianimare l’Isis «lo Stato islamico sta purtroppo crescendo in Afghanistan, Indonesia, Malesia e altri paesi del sud-est asiatico, non vorrei che tornasse in auge anche in Siria» ha concluso il diplomatico.


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