Cile, 52 anni dopo

 Cile, 52 anni dopo 

di Rodrigo Rivas 


La sentenza abbozzata da  Neruda nel "Poema XX" (1924), non ha mai lasciato  spazio ai dubbi: 
"Noi, quelli di allora, ormai non siamo gli stessi". 

I miei tempi di trasformazione si sono  accelerati brutalmente quella mattina, 11 settembre 1973, in cui ascoltai per l'ultima volta, da vivo, Salvador Allende: 
"... Ho la certezza che il seme che abbiamo consegnato alla coscienza degna di migliaia e migliaia di cileni non potrà essere  recisa definitivamente. Hanno la forza, potranno schiacciarci, ma non si arrestano i processi sociali né col crimine né con la forza. La storia è nostra e la fanno i popoli ... Supereranno altri uomini questo momento grigio e amaro in cui il tradimento s'impone. 
Continuate voi sapendo che, molto prima di quanto ci si aspetta, si apriranno un'altra volta i grandi viali da dove passarà l'uomo libero, per costruire una società migliore". 

In questi 52 anni a volte mi è parso che i grandi viali si aprissero, quantomeno che si schiudessero, ad esempio a Saigon (1975), a Managua (1979), a Caracas (1989), al Cairo (2011) ..., e  persino a Washington, col primo presidente statunitense nero (2009). 

Dicono che le bugie hanno le gambe corte. 
Non ho la certezza che sia vero ma, 52 anni dopo so, sappiamo, oltre ogni dubbio, che le illusioni hanno le gambe corte e che Neruda ha sempre avuto ragione: 
"È ormai partito il levriero terribile ad uccidere bimbi bruni.
È ormai partita la cavalcata
il branco si è scatenato
sterminando cileni ah,  cosa faremo, ah cosa faremo.
E col fucile in mano sparano al messicano e uccidono il panamense, mentre dorme.
Ormai uccidono ai cileni
ah, cosa faremo, ah cosa faremo, mentre dormono ah, cosa faremo, ah cosa faremo" ("Ya parte el galgo terribile", È ormai partito il levriero terribile).  

Con Enrique Santos Discepolo abbiamo cantato che "il mondo è stato e sarà una ciofeca, ormai lo so. Nel 506, e anche nel 2000" ("Cambalache", 1942). 
Certo, il mondo è stato e sarà una schifezza finché il piccinin che vende rose nella bettola del Bachín, quando la luna brilla sulla griglia continuerà a mangiare luna e pan di fuliggine (Astor Piazzolla e Horacio Ferrer, "Chiquilín de Bachín", 1964). 

52 anni dopo non ho ancora visto aprirsi i grandi viali ma, come fa  Neruda in "Pieni poteri" (1962), "mi chiedo se e da dove, se dal padre, dalla madre o dalla cordigliera, ho ereditato i doveri minerali, i fili di un oceano acceso". 
E, sempre sciommiottando il Neruda di "Plenos poderes", so che "continuo e continuo perché continuo, e canto perché canto e perché canto". 

52 anni dopo penso che continuerò, che continueremo, che canterò, che canteremo, fin quando si spengeranno le candele della veglia definitiva.
Neruda, Allende, Discepolo, Piazzolla, Ferrer e un interminabile eccetera di grandi e piccoli, fratelli, sorelle, compagne, compagni, amiche e amici, ci accompagna e il più esigente è sempre quello che viaggia con noi, che è dentro di noi, il nostro "imperativo assoluto". 

Perciò, 52 anni dopo né gli alzheimer né i parkinson, le zoppie e le calvizie, le debolezze e le gravidanze, tantomeno i muti e ciechi svendutisi senza grazia e ritegno perché così va il mondo, ce lo possono impedire. 
E io continuerò ad augurarmi che il bimbo che sono stato e non mi perde ancora di vista, non debba sputarmi in faccia. 

Si compie un anno e si compie.
52 anni dopo, come Neruda,  sono certo che "potranno recidere tutti i fiori ma non potranno impedire il ritorno della primavera". 
"Vinceremo, vinceremo noi, i più semplici. Anche se non ci credi, vinceremo" ("Ode all'uomo semplice", 1954).

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