Tra rallentamento economico, crisi industriale e perdita di potere d’acquisto dei salari, dove ci stanno portando l’Ue e la Nato?

 

Quarta tranche degli atti del dibattito del 15 agosto alla Festa Rossa 2025: Conflitti, sanzioni e riarmo

Tra rallentamento economico, crisi industriale e perdita di potere d’acquisto dei salari, dove ci stanno portando l’Ue e la Nato?

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Piano ReArme Europe, politiche di riarmo e perdita di potere d’acquisto dei salari reali

Il piano ReArme Europe (Readiness 2030)

La spiccata politica di riarmo intrapresa dall’Unione Europea, tramite il piano ReArme Europe, poi edulcorato in Readiness 2030, da 800 miliardi di euro, in una fase di marcato rallentamento dell’economia e di crisi industriale, come emerso nella tranche precedente degli atti, costituisce ulteriore conferma dell’inadeguatezza della classe politica comunitaria e nazionale.

Entrando nel merito del piano in questione approvato dalla Commissione ad inizio marzo scorso, e successivamente dal Consiglio ma non dal Parlamento europeo[1], rileviamo come risulti articolato su tre linee di sviluppo[2].

La prima prevede il ricorso da parte dei singoli stati a finanziamenti per la Difesa, per un massimo di 650 miliardi di euro complessivi a livello comunitario per il quadriennio 2025-2028. Prestiti che, in deroga al Patto di Stabilità, saranno scorporati dai vincoli di bilancio, tramite l’attivazione del National Escape Clause (NEC), fino ad un massimo annuo dell’1,5% del Pil, ma che andranno in ogni caso ad aumentare il debito pubblico degli stati che ne faranno utilizzo.

Aumenti di spesa che graveranno sui bilanci statali a discapito delle spese per i già sofferenti welfare dei paesi comunitari, come indicato dallo stesso segretario generale della Nato Rutte (“tagliare sanità e pensioni per produrre più armi”) e che andranno ad appesantire le importazioni di sistemi d’arma più che a sviluppare una, seppur deprecabile, industria bellica europea con relative, benché minime vista la natura capital intensive del comparto, ricadute occupazionali.

Infatti, le importazioni di armamenti da parte dei paesi dell’Unione Europea che, in base ai dati del Sipri, sono già cospicuamente aumentante del 105% nel quinquennio 2020-24 rispetto al precedente, registreranno un ulteriore sensibile incremento nel prossimo. Conseguentemente, gli acquisti a vantaggio dell’industria bellica statunitense sono destinati ad aumentare nel prossimo futuro, in primis perché la quota di import dei paesi Ue da Washington era già in trend crescente dal 52% del quinquennio 2015-19 al 64% di quello successivo, e in secondo luogo, in quanto i recenti massicci piani di riarmo, anche a seguito dei dettami imposti da Trump alla Von der Leyen nel recente bilaterale in Scozia di fine luglio, in buona misura assumeranno forma di acquisti oltre oceano. L’entità dell’import dagli Stati Uniti, nonostante sia particolarmente elevata in percentuale in diversi paesi Ue, aumenterà inevitabilmente in valore assoluto a seguito dell’espansione dei budget nazionali per le Difesa[3].

Probabilmente la freddezza con cui è stato accolto in sede iniziale dalla nostra presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, è riconducile allo stretto spazio fiscale che caratterizza il nostro bilancio statale a causa di un rapporto deficit/Pil che, seppur in riduzione dal -7,2% del 2023, ha superato nel 2024 con -3,4% ancora il limite del Patto di Stabilità del -3%, e di un debito pubblico di oltre 3.000 miliardi di euro, corrispondenti al 135,5% del Pil[4].

Tutt’altra accoglienza ha invece avuto a Berlino dove, dopo il finanziamento straordinario pluriennale di 100 miliardi del 2022[5], le politiche di riarmo marciano spedite, anche alla luce di una finanza pubblica virtuosa con un rapporto attuale debito/Pil del solo 63%[6].

Il parlamento tedesco, peraltro in scadenza di mandato, ha infatti proceduto nel marzo scorso ad una modifica costituzionale che, fra le varie, ha allentato il cosiddetto “freno al debito” federale (Shuldenbremse), introdotto nel 2009 dal governo Merkel, e caratterizzato da un vincolo di bilancio del -0,35% del rapporto deficit/Pil. Con il nuovo testo le spese del governo di Berlino per la difesa che supereranno l’1% del Pil, da quest’anno non saranno più vincolate al limite precedente consentendo lo stanziamento di ingenti risorse per le spese militari.

Inoltre, Berlino ha approvato, sempre nel marzo 2025, un piano fuori bilancio ordinario da 500 miliardi di euro, dei quali 100 destinati ad un Fondo per il Clima e la Trasformazione (KTF) e i restanti 400 riservati ad investimenti infrastrutturali, anche a duplice utilizzo civile/militare, ripartiti fra 300 miliardi al governo federale e 100 a quelli dei Land[7].

La seconda linea prevede lo stanziamento 150 miliardi di euro per prestiti del Fondo Safe[8] (Security Action For Europe) per investimenti nella produzione di armamenti. I finanziamenti sono stati subordinati alla presentazione da parte dei governi di un dettagliato Piano di Investimento nell’industria della difesa entro il prossimo novembre. Una volta accettati, i prestiti godranno di un anticipo del 15% dell’importo totale e saranno erogati già a partire dal 2025 fino a tutto il 2030.

Il governo italiano ha recentemente inoltrato richiesta al fondo in questione per finanziamenti fino a 15 miliardi di euro, ottenendone 14,9, probabilmente alla luce dell’innalzamento della quota del Pil da destinare alle spese militari entro il 2035, appena varato dalla Nato, come vedremo di seguito, e dei tempi lunghi di restituzione dei prestiti, fino a 45 anni, e con una vacanza iniziale di un decennio che consentirà di spalmare le rate di restituzione e quindi l’incidenza sui singoli bilanci annui. Le favorevoli condizioni dell’erogazione dei finanziamenti da parte del suddetto fondo sono state colte, oltre che dal nostro paese, anche da altri 18 paesi comunitari che, a fine agosto, secondo la presidente della Commissione, Von der Leyen, avevano già raggiunto il tetto dei 150 miliardi di euro previsti[9].

Mentre la terza contempla l’aumento dei finanziamenti della Banca europea degli investimenti (Bei) alle industrie belliche, fino ad oggi escluse per questioni etiche, e movimentazione di capitali privati, soprattutto risparmio delle famiglie e fondi pensione, tramite l’istituzione dell’Unione del risparmio e degli investimenti. Ciò al fine ultimo di attivare la stratosferica cifra di 10.000 miliardi di euro (oltre 4 volte il Pil dell’Italia), depositati nei conti correnti bancari, trasformandoli in capitali di rischio a beneficio del riarmo e del comparto industrial-militare europeo.

A ciò dobbiamo aggiungere l’approvazione, su volontà di Trump, al vertice della Nato a L’AJa del 24 e il 25 giugno scorso, dell’aumento delle spese militari al 5% del Pil da raggiungere entro il 2035. Scellerata decisione che comporterebbe al nostro paese, secondo l’osservatorio sulle spese militari Milex[10], un incremento di spesa dai 45 miliardi di euro di quest’anno a 145 nel 2035, con un aumento a regime di circa 100 miliardi (tab.1).

Tabella 1: la progressione dell’aumento del Pil e delle spese per la difesa in Italia. Fonte Milex

https://www.milex.org/wp-content/uploads/2025/06/Schermata-2025-06-17-alle-15.57.32-1024x611.pngL’inarrestabile aumento delle spese militari globali

La spesa militare mondiale nel 2024 è aumentata per il decimo anno consecutivo con un incremento in termini reali del 9,4% rispetto al 2023, il più corposo almeno dalla fine della Guerra Fredda, quando sono iniziate le rilevazioni del Sipri. Una vera e propria impennata nonostante l’accelerazione degli incrementi registrati negli ultimi anni: dal +0,7% del 2021 al +3,7% del 2022 fino al +6,4% del 2023, per poi arrivare al +9,4% del 2024.

In valore assoluto l’esborso militare globale, secondo il Sipri è passato da 2.113 miliardi di $ del 2021 ai 2.718 miliardi dello scorso anno.

Per il secondo anno consecutivo aumenta la spesa in tutte le 5 macroregioni terrestri classificate dal Sipri, con una crescita maggiormente sostenuta in Europa (+17%) e in Medio Oriente (+15%), non casualmente le due aree interessate dai principali conflitti. Complessivamente, oltre 100 stati hanno aumentato la spesa militare nel 2024 (tab. 2).

La quota di Prodotto Lordo Mondiale destinato alle spese militari è salita al 2,5%, mentre l’incidenza sulla spesa pubblica degli stati al 7,1%

L’Europa, Russia compresa, riporta il maggior incremento fra le macroregioni mondiali col +17% su base annua e +83% nell’arco del decennio precedente (2015-2024), attestandosi a 693 miliardi di $ e fornendo anche il maggior contributo in valore assoluto all’aumento globale del 2024. A parte i due paesi coinvolti direttamente nel conflitto, in Europa si registra un’accelerazione delle politiche di riarmo principalmente in Germania (28%) e in Polonia (31%).

Con la guerra Russia-Ucraina ormai al suo terzo anno, tutti i paesi europei, tranne Malta, hanno aumentato la spesa nel 2024, portandola oltre il livello della fine della Guerra fredda.

Tabella 2: spesa militare mondiale espressa in miliardi di $ e ripartizione per macroregioni terrestri e subregioni con variazioni annue 2023-24 e decennali 2015-24. Fonte: Sipri 2025  

Ripartizione della spesa militare per macroregioni e sub-regioni

 

Macroregioni e subregioni

Spesa militare 2024

% incremento 2023-2024

% incremento 2015-2024

% di spesa mondiale

Totale mondiale

2.718

9,4

37

100

Africa

52,1

3

11

1,9

Africa Settentrionale

30,2

8,8

43

1,1

Africa Sub-sahariana

21,9

-3,2

-13

0,8

Americhe

1.100

5,8

19

40

America Settentrionale

1.027

5,7

19

38

America Centrale

19,8

31

111

0,7

America Meridionale

53,6

-0,1

-4,1

2,0

Asia e Oceania

629

6,3

46

23

Asia Centrale

1,9

-5,5

-25

0,1

Asia Orientale

433

7,8

54

16

Asia Sud-Orientale

54,9

7,5

27

2,0

Asia Meridionale

102

1,0

38

3,8

Oceania

37

1,5

26

1,4

Europa

693

17

83

26

Europa Centro-Occiden

472

14

59

17

Europa Orientale

221

24

164

8,1

Medio Oriente (stime)

243

15

19

9,0

Per quanto riguarda la Nato la spesa complessiva si è attestata a 1.506 miliardi di $ pari al 55% del totale mondiale, con 18 suoi membri su 32 che hanno raggiunto, e talvolta superato, il 2% del Pil per la Difesa, in aumento rispetto agli 11 del 2023.

Gli Stati Uniti incrementano del 5,7% su base annua, confermandosi di gran lunga il principale spenditore mondiale con 997 miliardi di $, corrispondenti al 37% dell’esborso globale (tab. 3) e al 66% di quello dei paesi Nato.

Le spese per il riarmo aggravando i bilanci pubblici degli stati, comportano inevitabilmente una pressione sulle spese sociali, in una perversa spirale nella quale l'aumento delle spese militari e delle produzioni di armamenti, finiscono per alimentare i conflitti armati. Come ha più volte dichiarato Papa Francesco denunciando, senza parafrasi, come “il commercio di armi muove i fili delle guerre con tutti i soldi pubblici che vengono destinati agli armamenti".

Tabella 3: i primi 15 stati per spese militari nel 2024. Fonte Sipri 2025

I primi 15 stati per spese militari nel 2024

Stato

Spesa militare in miliardi $

% di spesa globale

% incremento 2023-2024

% incremento 2015-2024

2024 spesa militare

in % sul Pil

2015 spesa militare

 in % sul Pil

Stati Uniti

996

37

5,7

19

3,4

3,5

Cina

314

12

7,0

59

1,7

1,8

Russia

149

5,5

38

100

7,1

4,9

Germania

88,5

3,3

28

89

1,9

1,1

India

86,1

3,2

1,6

42

2,3

2,5

Regno Unito

81,8

3,0

2,8

23

2,3

2,0

Arabia Saudita

80,3

3,0

1,5

-20

7,3

13

Ucraina

64,7

2,4

2,9

1.251

34

3,8

Francia

64,7

2,4

6,1

21

2,1

1,9

Giappone

55,3

2,0

21

49

1,4

0,9

Corea del Sud

47,6

1,8

1,4

34

2,6

2,4

Israele

46,5

1,7

65

135

8,8

5,4

Polonia

38,8

1,4

31

159

4,2

2,1

Italia

38,8

1,4

1,4

45

1,6

1,2

Australia

33,8

1,2

1,9

25

1,9

2,0

Totale primi 15

2.185

80

 

 

 

 

Restanti stati

533

20

 

 

 

 

Totale globale

2.718

100

9,4

37

2,5

2,3

La perdita di potere d’acquisto dei salari reali nel nostro paese

Le penalizzanti specificità del mercato del lavoro nazionale, causata dalle 4 controriforme degli ultimi 30, hanno inciso sulla riduzione di lungo periodo dei salari reali.

A causa di fragilità strutturali, il nostro mercato del lavoro, risulta caratterizzato, come sottolineano gli economisti Valeria Cirillo e Domenico Evangelista[11] su Sbilanciamoci, "Da una elevata percentuale di posti di lavoro non standard, a breve termine, e da livelli salariali medi reali già molto bassi prima della recente ondata inflazionistica e in significativa flessione da oltre quindici anni". Come ci confermano i dati diramati dall'Ocse in base ai quali fra il 1990 e 2020 siamo risultati l'unico stato nell'Ue ad aver accusato una diminuzione dei salari reali, pari a ben -2,9%, mentre in Germania e in Francia crescevano rispettivamente del +33,7% e del +31,1%. Meglio di noi anche la Grecia con +30,5%, nonostante "la cura" della cosiddetta Troika (Bce, Commissione Europea e Fmi) di inizio anni 2010 (grafico 1).

Grafico 1: variazione percentuale dei salari reali nei paesi Ue nel trentennio 1990-2020 (Ocse[12])

federico ferrazza on X: "Su @LaStampa c'è questo grafico. L'Italia è  l'unico paese dell'area Ocse in cui la media degli stipendi del 2020 è  inferiore al 1990. Dai, parliamo ancora del Reddito

L'effimera ripresa del potere d'acquisto dei salari italiani del 2021, evidenziato dal ritorno in campo positivo nella media mobile trentennale 1991-2021 (+0,3%), tuttavia al cospetto di una media Ocse del +32,5%[13], risulta frutto esclusivo del corposo rimbalzo economico post-pandemico dell'anno in questione (+6,4%) e dalla bassa inflazione, più che da cambiamenti strutturali nella politica salariale.

Dall'anno successivo, infatti, sotto la spinta inflazionistica il trend trentennale riprende la sua consolidata traiettoria ribassista, come evidenziato dagli economisti Valeria Cirillo e Domenico Evangelista in una recente pubblicazione a cura di Mario Pianta[14]: "I salari reali negoziati hanno reagito molto lentamente, e solo in misura limitata, all'ondata inflazionistica. Sebbene in linea di principio la contrattazione collettiva dovrebbe contribuire a mitigare le perdite del potere d'acquisto dei salari e a garantire una distribuzione più equilibrata del costo dell'inflazione tra imprese e lavoratori. Nel 2022 invece l'onere maggiore è stato scaricato sul lavoro dipendente".

Le criticità retributive del nostro paese vengono rilevate anche dall’annuale rapporto Ocse del luglio 2025 intitolato “Le prospettive dell’occupazione” (Employement Outollok[15]) che evidenzia come, nonostante il trend nominale crescente, i salariali reali non abbiano ancora recuperato il potere d’acquisto perso a causa dell’inflazione e che l’Italia registra la peggior situazione fra gli stati Ue. Una dinamica che, nonostante il rallentamento dell’economia iniziato nel 2023, si sta paradossalmente verificando in contemporanea con il raggiungimento del livello record di occupazione a giugno scorso, pari al 62,9%, benché ancora distante dalla media Ocse del 70,4%. Secondo il rapporto in questione l’Italia ha accusato il calo più marcato dei salari reali fra i suoi stati membri, infatti nel primo trimestre del 2025 risultavano ancora inferiori del -7,46% rispetto ai primi tre mesi del 2021. Specificando che gli ultimi rinnovi contrattuali hanno conseguito aumenti salariali superiori ai precedenti, tuttavia non in grado di compensarne la perdita di potere di acquisto. L’Ocse prevede infine che l’incremento dei salari reali dovrebbe rimanere di entità modesta anche nei prossimi 2 anni.

Allegria, era il saluto di Mike Buongiorno al termine delle sue trasmissioni.

Conclusioni

La situazione attuale dell’Unione Europea, sia dal punto di vista geopolitico, con il proliferare incontrollato delle guerre e col crescente aumento delle spese militari, che geoeconomico, con l’economia dell’Eurozona in quasi stagnazione, la ex locomotiva tedesca in recessione da un biennio e con una crisi industriale che ha assunto carattere strutturale in Germania e Italia, risulta indubbiamente molto critica e dagli incerti sviluppi futuri.

In sintesi rileviamo come, da un lato, l’austerità fiscale rigidamente imposta fino ad oggi alle spese sociali flette come pagliuzza al vento sotto il furore riarmista, dall’altro, i danni provocati all’economia dell’eurozona, e della Germania in particolare, sembrano non aver indotto sino a oggi alcuna riflessione sul boomerang innescato dalle politiche sanzionatorie.

Il perseverare, anche alla luce del 19° pacchetto sanzionatorio in fase di gestazione, della politica sanzionatoria contro Mosca, ed in particolare contro il suo settore energetico, rappresenta un ulteriore capitolo poco onorevole per l’establishment dell’Ue, che, forse non causalmente, è diventata sempre meno rilevante sullo scacchiere internazionale e screditata al suo interno.

 

Andrea Vento

14 settembre 2025

Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati

 



[1] La Presidente della Commissione Von der Leyen per accelerare la procedura di attivazione del piano ha utilizzato l’escamotage del ricorso all’articolo 122 del Trattato sul funzionamento dell’Ue, impedendo una democratica discussione e successiva votazione all’unico organo elettivo dell’Ue.

[3] Secondo il Sipri la quota di import di armamenti dagli Usa raggiunge il 97% nei Paesi Bassi, il 94% in Italia, il 91% in Norvegia, il 79% in Danimarca e il 70% in Germania.

https://www.avvenire.it/attualita/pagine/armi-per-l-ue-affari-per-l-americagli-eserciti-eu

[10] https://www.milex.org/2025/06/18/con-il-5-sul-pil-la-spesa-militare-salirebbe-di-oltre-400-miliardi/

[11] https://sbilanciamoci.info/la-caduta-del-potere-dacquisto-dei-salari-in-italia/

[12] https://www.openpolis.it/numeri/litalia-e-lunico-paese-europeo-in-cui-i-salari-sono-diminuiti-rispetto-al-1990/

[13] https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/08/30/stipendi-nel-2021-inversione-di-tendenza-ma-in-30-anni-sono-saliti-solo-dello-03-litalia-resta-ultima/6769153/

[14] "L'inflazione in Italia. Cause, conseguenze, politiche" a cura di Mario Pianta, Carozzi editore - ottobre 2023

[15]https://www.oecd.org/it/publications/2025/07/oecd-employment-outlook-2025-country-notes_5f33b4c5/italy_a775131b.html

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