Flaco, fondatore dei Punkreas: dal punk ai temi di pace e guerra, fino alla musica come impegno sociale
Flaco, fondatore dei Punkreas:
dal punk ai temi di pace e guerra, fino alla musica come impegno sociale
di LAURA TUSSI
"Siamo in una crisi che arriva in un
momento in cui si è persa l’abitudine a pensare collettivamente e a cercare
risposte collettive. Per lo più non si fanno neanche le domande. Figurarsi le
risposte".
Per Flacopunx – chitarrista, cantautore e fondatore
dei Punkreas – la musica non è (solo) svago ma è
anche un potente strumento per sensibilizzare le coscienze.
Con lui la nostra Laura Tussi ha parlato
di pacifismo, di geopolitica, di storia e di arte.
Flaco
storico fondatore dei Punkreas, un gruppo musicale Punk con un forte slancio di
pensiero e passione rispetto agli ideali antifascisti
Da secoli la musica
smuove le coscienze, entra nell'anima e spinge al pensiero e all'azione. La
pensa così anche Flaco, storico fondatore ed ex chitarrista dei Punkreas. Da
diversi anni ha intrapreso una carriera solista come Flacopunx. Ciò che non è
mai venuto meno è il suo impegno sociale e politico, in particolare rispetto a
temi come pacifismo e nonviolenza.
Flaco
continua la sua attività musicale da indipendente, senza dimenticare
l'esperienza collegata al passato
Fabrizio Castelli, meglio
conosciuto come Flaco, é stato fondatore, chitarrista, compositore e
portavoce dei Punkreas, noto gruppo dagli alti ideali antifascisti, dalle
origini al 2014. Dopo la separazione con la band per motivi che non sono mai stati
chiariti, é uscito nel 2016 con "Coleotteri", un album solista sotto
marchio Flacopunx. Da allora un lungo silenzio interrotto
recentissimamente da "Luce", un singolo in collaborazione con I
Blak Vomit ispirato al tema della pace un Europa.
Gli abbiamo fatto qualche
domanda.
Puoi
raccontare la genesi della tua ultima composizione musicale, una canzone dal
titolo emblematico 'Luce', che vuole illuminare questi tempi spaventosi e
oscuri?
Questa canzone è figlia
del momento di crisi che stiamo
attraversando, una crisi in cui il pubblico e il privato si ingarbugliano, si
influenzano e si confondono,
complicandosi sempre di più. Una crisi che arriva in un momento in cui
si è persa l’abitudine a pensare collettivamente e a cercare risposte
collettive. Per lo più non si fanno neanche le domande. Figurarsi le risposte.
E così, anche se l’origine dei problemi è sociale - la guerra, la pandemia, la
crisi economica e culturale - la ricerca di soluzioni finisce per essere sempre
e inutilmente personale e privata.
Forse
si è perso il piacere del confronto e dell’incontro. Sicuramente si è persa la
fiducia nella possibilità di poter incidere positivamente sulla realtà: “Tanto
non cambia niente”?
Non saprei dire se questa
percezione sia corretta oltre che diffusa. L’unica cosa che si può dire con
certezza è che, se uno non crede di poter fare una cosa, non la farà. E così ce
ne stiamo per lo più a far niente,
aspettando che le cose vadano come devono andare.
Sei
impressionato da questa guerra al centro del vecchio continente, con l'Europa,
che vede scontrarsi Ucraina, Russia, Stati Uniti e Nato?
Alla notizia dell’attacco
russo su Kiev sono rimasto traumatizzato. Non mi pareva possibile che in Europa
potesse succedere qualcosa che collegavo istintivamente all’invasione
hitleriana dei Sudeti. La cosa paradossale
è che la Russia presentava l’aggressione
come un’operazione di denazificazione.
Ho pensato che non fosse giusto tollerarlo. E in effetti non è stato tollerato.
Ma immediatamente dopo mi è parso che lo
scenario fosse molto torbido.
Ognuno
interpreta quel che accade (o meglio quel che apprendeva su quanto accadeva)
filtrandolo attraverso le sue convinzioni o pregiudizi, in una impressionante confusione di simboli,
di appartenenze e di identità ormai ridotti a fantasmi. Vero?
Evidentemente ci muoviamo
ancora seguendo gli schemi narrativi del ‘900, mentre il contesto è cambiato e
questo da luogo a numerosi cortocircuiti che mi hanno reso impossibile
schierarmi. Mentre Putin vendeva la sua
operazione speciale come opera di denazificazione, le destre estreme di tutta
Europa (finanziate dallo stesso Putin) si schieravano più o meno apertamente
con la Russia. Le sinistre, strette tra la nostalgia dell’U.R.S.S. comunista,
la critica all’espansionismo Nato e la necessità di condannare
l’aggressione sul piano del diritto
internazionale, finivano per accodarsi all’impostazione anglo-americana: avanti
tutta fino alla – impossibile – vittoria.
Questa
guerra sembra sempre più un grande spartiacque internazionale e ideologico e
etnico?
Contemporaneamente però
in alcuni che venivano da sinistra prevaleva il fascino per l’antiamericanismo
e la condanna per la politica
occidentale di accerchiamento della Russia. Mentre a loro volta i nazisti o
filo-nazisti ucraini (in Ucraina c’è una lunga tradizione di simpatie naziste
in funzione anti-sovietica) sono ovviamente tutt’altro che filo-russi. E’ evidente che su queste basi non se ne
esce.
Intanto
in Italia, inevitabilmente, la retorica di guerra si impadronisce
dell’informazione e crea una cappa di sospetto su chiunque osasse dei
distinguo. Giusto?
I più hanno accettato la
narrazione secondo cui era doveroso mettersi l’elmetto (almeno fino a che erano
altri a doverselo mettere) e difendere i nostri valori minacciati. I meno
criticavano questa versione e venivano quindi immediatamente additati come filo-russi
e quindi traditori, anche quando non avevano nulla da spartire con Putin e la
sua politica. La legge della guerra implica la necessità di essere arruolati, a
forza o per convinzione, da una parte o
dall’altra. Ed è esattamente questa logica che i rappresentanti delle
istituzioni europee hanno avallato, diffuso e alimentato fin da subito.
Passato
il primo momento di sgomento e di indignazione per l’invasione, ti sembra
incredibile che nessun rappresentante delle istituzioni europee osasse parlare
di trattativa e negoziazione?
Eppure le nazioni
d’Europa sono le più esposte in questo scenario. A prescindere dal rischio
sempre presente dell’escalation nucleare, la guerra comporta danni economici e
sociali che dissanguano ulteriormente quel poco di welfare rimasto, mentre
arricchiscono pochi produttori di armi. Mi chiedevo: possibile che a nessuno
venga in mente che proporre delle soluzioni di pace possa essere più sensato che soffiare sul fuoco di una guerra
dagli obiettivi e dagli esiti sempre più incerti? Con me, e prima di me se lo
chiedevano illustri rappresentanti della cultura europea. Cito ad esempio Edgar
Morin: ”E’ sorprendente che in una congiuntura così pericolosa, il cui pericolo
aumenta continuamente, si levino così poche voci in favore della pace nelle
nazioni più esposte, in primo luogo quelle europee” (“Di guerra in guerra”,
Cortina, 2023)
Al
posto di iniziative per il dialogo e la risoluzione pacifica del conflitto, sul
piano istituzionale abbiamo avuto Macron
che si improvvisa Napoleone - facendo la stessa fine senza doversi prendere il
disturbo di affrontare a cavallo l’inverno russo -, e numerosi altri politici
che hanno soffiato sul fuoco. Che ne pensi?
A livello di movimenti di
opinione, a parte l’appiattimento e il sonnambulismo generale con qualche
venatura bellicista (soprattutto sui media), ci sono state iniziative pacifiste
di ispirazione cattolica e sociale, ben rappresentate dal Papa. Ora, vorrei
spendere giusto due parole su queste
generiche aspirazioni alla pace: sono inutili e prive di consistenza. Troppe
volte abbiamo visto questo teatrino, dalle canzoncine tipo “Il mio nome è mai
più”, a Ligabue che suona al cospetto di Sua Santità. Una volta officiata una
posizione formale tanto dovuta quanto ininfluente, si torna a casa a guardare
un serie di Netflix con l’ impressione di aver fatto la propria parte.
Questo
pacifismo generico ti è inaccettabile per più di un motivo?
Anzitutto fingere che
l’aggressività e la guerra non facciano
parte del corredo filogenetico dell’uomo e che quindi possano essere eliminate
con un semplice atto di buona volontà e un appello ai buoni sentimenti, è una
truffa. Negare il problema è il modo migliore per non affrontarlo.
In secondo luogo perché
il pacifismo europeo è storicamente un
effetto della guerra fredda: mentre gli equilibri mondiali erano garantiti
dalle armi e dagli scudi stellari americani e sovietici, agli europei era consentito
scendere in piazza e manifestare dissenso. Ma senza nessuna forza reale. Nel
2003 a Roma e Madrid milioni di persone hanno manifestato contro la guerra in
Iraq. C’ero anch’io. Risultati? Zero. Che vuoi che gliene importi agli
americani di qualche milione di europei e delle loro bandiere colorate?
Hai
scritto anche una canzone, anni fa. Si intitola 1861 e dice “Il pacifismo protetto/dall’ombra
lunga di Yalta”?
L’hanno capita solo i
lettori di Limes, ma non c’erano lettori di Limes tra i tuoi fan perciò il
disco di Flacopunx non è andato molto bene.
Per tutti questi motivi
non credo ci possa essere nessuna iniziativa di pace incisiva, se non si
affronta la questione delle condizioni storiche e geopolitiche. In altre parole
l’Europa può avviare un processo di pace e garantirne le condizioni se si costituisce
come forza politica consistente e federata, riprendendo il programma del
manifesto di Ventotene. Altrimenti non
resta che leggere le istruzioni ed eseguire.
Chi
oggi vuole fare il pacifista non può limitarsi agli appelli e neanche alle
manifestazioni?
Deve anche e soprattutto
studiare le condizioni storiche contingenti, cercare alleanze e trovare una
strada praticabile nel contesto reale. Più faticoso che sventolare una bandiera
arcobaleno o gridare che è tutta colpa del patriarcato. E di molto lontano da
quel qualunquismo per il quale “sono tutti uguali”, che è diventato un mantra
di appoggio all’ascesa delle destre in tutta Europa.
Queste
destre sovraniste oggi si gonfiano il petto,
ma domani saranno di necessità le nuove ancelle?
In Italia sta già
succedendo. Sempre che i nostri protettori ad un certo punto non decidano che
la colonia europea è troppo
dispendiosa e ci abbandonino come un
Iraq qualunque.
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