NOTE PER UN CONTRIBUTO SUL MONDO AMERINDIO AL DIBATTITO : DOVE STA ANDANDO IL SUBCONTINENTE LATINOAMERICANO?
NOTE PER UN CONTRIBUTO SUL MONDO AMERINDIO AL DIBATTITO <<DOVE STA ANDANDO IL SUBCONTINENTE LATINOAMERICANO?>>
FESTA “LA ROSSA” – PERIGNANO
DI LARI – 15 AGOSTO 2024
Videoregistrazione del
dibattito: https://www.youtube.com/watch?v=iHrVaHjqcKw&t=45s
Premessa
Confesso
una prima impressione di disagio di fronte al lemma di questo dibattito: l’uomo
occidentale, pilota del mondo, che si interroga preoccupato su dove stanno
andando gli altri mondi.
Uno
degli attuali pensatori indigeni più interessanti, Ailton Krenak, del popolo
Krenak vivente nell’Amazzonia brasiliana, in un suo piccolo libro, pubblicato
anche in Italia, dal titolo significativo <<Idee per rimandare la fine
del mondo>>[1],
si legge: Gli indios
stanno resistendo da cinquecento anni, quello che mi preoccupa sono i bianchi,
come faranno a sfuggire a tutto questo? (il collasso in corso). E poco pi oltre aggiunge:
L'umanità si sta distaccando in modo così assoluto da
questo organismo che è la terra. Gli unici nuclei che ancora ritengono di
doversi aggrappare a questa terra sono quelli che sono stati semidimenticati ai
margini del pianeta, sulle rive dei fiumi, ai margini degli oceani, in Africa,
in Asia o in America Latina. Sono caiçaras, indios, quilombolas, aborigeni –
una sub-umanità.
Vengo
al tema. Mi è stato chiesto di parlare del mondo indigeno latino-americano che
chiamerò amerindio perché di latino, nel pensiero indigeno meno contaminato,
c’è poco di latino ed anzi, dopo secoli di silenzio sta rimpossessandosi del
proprio pensiero originario, vista la crisi intellettuale e morale che
imperversa nel mondo “occidentale” e “occidentalizzato”, cioè quello
industrializzato (potrei dire capitalista ma preferisco riferirmi a questo
aspetto). Un discorso complesso che mi appresto a fare con queste note, che vi
prego di considerare come tali, basate su una esperienza diretta di questo
mondo.
Essa risale agli anni ’80 del secolo scorso e in particolare al periodo 1996-2009, in cui seguii da vicino le vicende di alcune realtà amerindie, in particolare quella dell’insurrezione zapatista in Messico ma anche quella delle lotte sociali dei movimenti indigeni andini e, in misura minore, di quelli amazzonici brasiliani, presenziando anche a molti loro vertici subcontinentali (cumbres).
Userò
il plurale “mondi indigeni” (vedi nota 1 in calce) perché, nonostante lo
sterminio plurisecolare, le etnie tuttora esistenti sono alcune centinaia, con
proprie lingue e proprie usanze. Nel solo Messico sono circa 50, anche se
alcune contano ormai poche decine di persone ma dove altre, viceversa, sono in
espansione numerica; e sono una quarantina in Perù e via dicendo. Il grado di
preservazione della cultura originaria da parte di ciascuna di esse varia a
seconda della situazione specifica e delle vicende storiche.
Le statistiche ufficiali (Nazioni Unite) parlano di 450 milioni di indigeni presenti oggi, cioè un 6% circa della popolazione mondiale. Per l’A.L. si parla di 40 milioni di persone, cioè di un 10% della popolazione totale del subcontinente. Altre statistiche parlano, per questo paese, di un 15-20%.
Ogni anno le Nazioni Unite
celebrano la Giornata mondiale dei popoli indigeni, dedicata quest’anno ai
<<popoli indigeni in isolamento volontario e in primo contatto>>.
Trattasi di circa 200 gruppi che vivono in isolamento volontario praticando la
raccolta e la caccia in foreste remote ricche di risorse naturali (Bolivia,
Brasile, Colombia, Ecuador, India, Indonesia, Papúa Nueva Guinea, Perú e
Venezuela). Quella dell’isolamento è una scelta che corrisponde a una strategia
di preservazione della propria autonomia, lingua e modo di vita.
All’inizio
stentai a comprendere il vero significato delle esperienze che stavo facendo
poiché le leggevo con gli strumenti culturali propri dell’<uomo bianco>,
tecnicamente e culturalmente più “progredito” rispetto a loro, in una
traiettoria che anch’essi avrebbero seguito per diventare ”civilizzati”. E nel
mio caso ero animato da buone intenzioni “umanitarie” su cui col tempo mi sarei
ricreduto mettendomi in posizione di ascolto, come suggerito da Carlos
Montemayor.
Questo
grande pensatore latino-americano (questo sì latino e americano) estimatore dei
popoli indigeni, che ebbi la fortuna di conoscere e frequentare prima della sua
prematura scomparsa[2],
nel suo libro Los pueblos indios de México hoy, di cui conservo la copia
autografata, scrisse più o meno così
(vado a memoria):I popoli indigeni sono
stati silenziati per secoli. Oggi essi parlano. Ascoltiamoli!
La trappola dello sviluppo
La
grande trappola, in cui a partire dagli anni ’50 caddero in buona parte gli
stessi mondi indigeni -nonché la chiesa cattolica progressista di Paolo VI che
pubblicò un’enciclica famosa, la Populorum
Progressio- santificando questa “credenza occidentale” (Rist)[3].
Oggi stiamo facendo i conti con le promesse mancate di questa “credenza”. Ai
popoli indigeni è ormai apparso chiaro che sviluppo sta significando la loro scomparsa, per cui
stanno organizzando la propria resistenza.
Riporto
in calce, per chi vuole riflettere ulteriormente su questa trappola, un
estratto del discorso con cui Truman, celebrando nel 1949 la sua rielezione a
presidente degli Stati Uniti, lanciò questa “credenza” di successo che sussiste
tutt’oggi nell’inconscio di quasi tutti noi (Nota 2).
In
realtà il discorso sul risveglio delle culture indigene è più complesso, ma in
una chiacchierata di 20 minuti occorre semplificare il racconto a alcuni fatti
principali. Esso in realtà è iniziato già da un secolo circa ed ha avuto una
accelerazione in occasione dei festeggiamenti organizzati in occasione del
500mo anniversario di quella che viene chiamata “scoperta” dell’America da
parte di Cristobal Colon.
La
ricerca storica in realtà oggi ci dice che già nei tempi antichi si navigava
dall’Europa a queste terre e si tornava, come dimostrano certe pitture murali
romane emerse a Pompei dove sono raffigurate tavole imbandite in cui facevano
bella mostra frutta tropicali quali gli ananas mentre in rappresentazioni
indigene precedenti al 1492 si vedono
uomini bianchi barbuti (gli indios amerindi non hanno barba) con elmo e
corazza.[4]
La sinistra e l’America Latina
Dovendo
stare nei tempi faccio un salto però per noi presenti alla “festa rossa”
necessario. L’America latina ha avuto un posto importante nell’immaginario e
nella presenza degli ultimi 50 anni della “sinistra” europea (sinistra in senso
lato), quella “latina” in particolare (Spagna, Italia, Francia,
Portogallo), ma anche belga e tedesca, a
causa della speranza che la sua base, meno partitizzata, aveva di veder realizzate là quelle conquiste
sociali che non si era riusciti a realizzare qui da noi. Oggi questo interesse
è assai meno vivo, salvo alcune eccezioni, a un lato per le delusioni avute e
dall’altro per le mutazioni genetiche delle sinistre occidentali. L’attuale
pensiero di sinistra è culturalmente troppo debole per andare al di là di un
ragionamento di semplice umanitarismo egualitarista oggi dominante nelle menti.
Tutti uguali, però uguali a noi.
Ailton nello stesso testo dice: Non siamo assolutamente uguali, ed è bellissimo sapere che ognuno di noi che è qui è diverso dall'altro, come le costellazioni. Il fatto che possiamo condividere questo spazio, che stiamo viaggiando insieme non significa che siamo identici. Significa invece che siamo in grado di attrarci l'un l'altro attraverso le nostre differenze, che dovrebbero guidare il nostro copione di vita. Avere la diversità, non quella di un'umanità con lo stesso protocollo. Perché questo fino ad ora è stato solo un modo per omogeneizzare e toglierci la gioia di essere vivi.
In
un libro che sto pubblicando a giorni (Speranza forza sociale) riporto una
conversazione fra il pensatore messicano Gustavo Esteva -in realtà autore
morale del libro la cui morte due anni or sono ha aperto un vuoto incolmabile
nei miei riferimenti socioculturali sull’America latina- e il lituano Teodor
Shanin, in cui questo individua l’errore di base delle sinistre: aver
perseguito lo sviluppo anziché la giustizia sociale, tema sul quale
occorrerebbe fare una riflessione che invece manca.
Per
rispondere alla domanda “Dove sta andando l’America Latina e in particolare la
sua parte amerindia, ricorro a quanto mi ha insegnato un altro amico
latinoamericano, il vescovo messicano Samuel Ruiz, (1924-2011) -grande
benemerito del mondo indigeno maya del Chiapas e mediatore importante nel
conflitto fra successivi governi messicani e “zapatisti”- meriti che non ne
faranno mai un santo e neppure un beato della chiesa.
Mi riferisco a due suoi pensieri che riassumo
così:
<<se la vostra analisi della situazione
sociale e politica del mondo è vecchia di due anni, gettatela. Non serve
più!>> (Questo vent’anni fa. Oggi credo che accorcerebbe questa durata a
pochi mesi).
<<nelle vostre analisi non fermatevi
sui singoli eventi ma vagliateli all’interno dei processi di fondo in cui essi
accadono>>.Guardando i processi e al futuro lontano del mondo indigeno,
lungi dal vedere la sua fine, egli preconizzava una sua lenta e lunga
riemersione e affermazione nella realtà del mondo latinoamericano.
Una riflessione questa da leggere anche alla luce dell’avvitamento turbolento su se stessa della civiltà occidentale alle prese con una fallimentare globalizzazione ed il suo sogno del cyber.
Opportuno ma ad oggi ignorato il
suggerimento dato una quindicina di anni
or sono da un pensatore bianco neozelandese, Scott Eastham, nel suo saggio
“Visioni del mondo in collisione. La sfida dell’ingegneria genetica”: Forse,
prima di lasciare alla scienza moderna l’ultima parola sull’evoluzione
dell’homo sapiens, abbiamo bisogno di ascoltare altre culture e di sperimentare
alcuni degli altri modi di “essere umani”.
Cito
anche il filosofo spagnolo Jorge Riechmann che nel titolo di suo libro pone la
domanda: “Lo smartphone ha sconfitto il movimento ecologista?” e nel quale
scrive: L’antico sciamano asiatico o la
tessitrice egiziana (di quarantamila anni or sono) appartengono alla mia tribù:
ma un futuro “uomo bionico”, dotato di capacità extra-umane, probabilmente non
apparterrà ad essa. Vogliamo davvero rompere questa unità della “grande
famiglia” umana mantenuta nel corso di oltre 100.000 anni?
Un dialogo fra due padroni oggi
del mondo
Mi avvio con un altro salto a terminare,
raccontando un dialogo intercorso l’anno passato a un incontro ad alto livello
politico a Dubai, incentrato sul progetto di un governo mondiale del pianeta
Terra previsto per il 2071 (ne sapevate nulla?), fra Klaus Schwab, il patron
(ma recente dimissionario) dell’annuale incontro dei ricchi del pianeta e loro
commessi politici a Davos, e Elon Musk, il recente perdente del primo posto
nella classifica degli uomini più ricchi del mondo, patron della multinazionale
Neuronlink (“connessione dei neuroni”) che, nello sconcerto silenzioso delle
autorità mondiali sta impiantando dei
chip nei cervelli di alcuni volontari per dare loro intelligenze sovraumane
grazie all’Intelligenza Artificiale (AI).
Alla perorazione di Schwab per l’unità e
l’uniformazione del mondo di fronte ai tanti rischi storici che abbiamo di
fronte, Musk (lui?!) ha replicato: Penso che dobbiamo essere
un po’ cauti nell’essere troppo una sola civiltà, perché se siamo troppo una
singola civiltà, allora l’intera casa potrebbe crollare. […] Sembra un po’ strano, ma vogliamo avere
una certa dose di diversità di civiltà, in modo che se qualcosa va storto in
qualche parte della civiltà, l’intera cosa non collassi e l’umanità continui ad
andare avanti.
E il dubbio è forte nella mente dei grandi tecnofilantropi che danno il passo al mondo (Zuckerman, Musk, Besos e così via) se si stanno costruendo in Nuova Zelanda o nelle isole del Borneo costosissimi bunker-giardino in cemento armato con tanto di orto con coltivazioni di sopravvivenza.
Se Ailton e i
suoi amici indigeni hanno qualche buona idea per rinviare la fine del mondo
forse è saggio ascoltarli e porci seriamente la domanda: dove stiamo andando
noi?
Aldo Zanchetta
[1] Il titolo esatto è: Idee per rimandare la fine del mondo. L'identità
esemplare di un piccolo popolo per il futuro delle società umane. In realtà
Ailton non scrive libri ma di tanto in tanto accetta di essere intervistato o
di tenere conferenze (anche fuori dal paese) e dalle registrazioni di queste
vengono tratti dei piccoli libri.
[3] G. Rist, Lo sviluppo.
Storia di una credenza occidentale, Bollati e Boringhieri, 1997.
[4] Gli amanti dei grandi
misteri storici conoscono certamente la mappa del mondo dell’ammiraglio della
marina ottomana Piri Reis disegnata nel 1513 on Oceano Atlantico e coste
adiacenti dettagliatissime.
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