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La giornata della Terra

 In occasione dellla giornata mondiale della Terra il Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati propone un articolo di 5 anni fa dello scomparso e sempre rimpianto prof Giorgio Nebbia, capostipite italiano dell'Ecologia politica, al fine di evitare che l'importante ricorrenza odierna diventi una delle numerose rituali "giornate internazionali", mere ricorrenze celebrative prive di riflessioni approfondite, di effettive prese di coscienza e di azioni politiche conseguenti.

Per approfondire, riflettere e dibattere sulle correlazioni fra sistema economico dominante, finaziarizzazione dell'economia e crisi climatico-ambientale stiamo organizzando, insieme ad altri gruppi e associazioni, un incontro per sabato 30 aprile alle ore 17,30 al circolo Arci di San Giuliano T. (con cena popolare a seguire) un incontro di presentazione del nuovo libro "Capitalismo, finanza, riscaldamento globale. Transizione ecologica o transizione al socialismo?" con l'autore Mario D'Acunto e con l'esperto di processi finanziari Raffaele Picarelli.

Il coordinamento del Giga



1970, quando l’uomo scoprì la terra

AMBIENTE. Quasi ogni giorno, nel mondo, si celebra una qualche «giornata» di qualche cosa: dell’ambiente, degli oceani, dell’alimentazione, della biodiversità, per non citare le giornate dei nonni, delle mamme, eccetera. Ogni […]

Quasi ogni giorno, nel mondo, si celebra una qualche «giornata» di qualche cosa: dell’ambiente, degli oceani, dell’alimentazione, della biodiversità, per non citare le giornate dei nonni, delle mamme, eccetera. Ogni volta è una occasione per qualche manifestazione o congresso o festa, spesso di natura esibizionistica e consumistica: spese e regali.

Quella che si ricorda il 22 aprile è una giornata particolare, dedicata “alla Terra”, al nostro pianeta, lanciata quasi mezzo secolo fa, nel 1970. Il decennio precedente, i favolosi anni sessanta del Novecento, erano stati pieni di speranze e di contraddizioni. Erano gli anni del Concilio Vaticano II e della crisi dei missili a Cuba.

Erano gli anni delle lotte dei “negri” americani per la integrazione e quelli degli assassinii di John Kennedy nel 1963 e di Martin Luther King e Robert Kennedy nel 1968, gli anni delle lotte operaie e studentesche per nuovi diritti, gli anni della guerra del Vietnam e dei devastanti esperimenti con bombe nucleari sempre più potenti, e gli anni della conquista dello spazio. La Terra, fotografata per la prima volta dagli astronauti dallo spazio, era apparsa nella sua bellezza e fragilità, una palla di rocce e foreste e acque, nostra unica casa nell’Universo conosciuto.

In quella primavera il mondo “scoprì” l’ecologia: questa austera disciplina, definita dal biologo tedesco Haeckel, nel 1866, come l’economia della natura, si era sviluppata nel silenzio dei laboratori come scienza capace di spiegare che la vita vegetale e animale dipende dalle sostanze chimiche tratte dall’aria, acqua, e suolo, cioè dall’ambiente; negli anni trenta del Novecento un gruppo di studiosi italiani, russi, americani, avevano spiegato che in un ambente di dimensioni limitate, come appunto la Terra, la limitata disponibilità di risorse naturali rallenta la crescita delle popolazioni e può portare al loro declino.

Vincoli alla crescita che si manifestavano anche per gli affari umani a causa dell’impoverimento delle riserve di minerali e della fertilità dei suoli in seguito all’eccessivo sfruttamento imposto dalla società dei consumi.

L’ecologia apparve come lo strumento per comprendere che, nel nome del profitto, pochi paesi si appropriavano, per trarne materie prime e per scaricarvi i rifiuti, di risorse naturali che non erano “loro”, ma che erano beni comuni. Considerazioni che mettevano in discussione il sacro principio della proprietà privata, introducevano parole maledette come limiti alla crescita.


L’ecologia, in quel 1970, divenne così la bandiera di una nuova contestazione del potere economico e militare, della violenza della società dei rifiuti, degli sprechi e delle armi, le merci oscene, con la richiesta di nuovi diritti, di nuovi modi e processi di produzione in grado di inquinare e alterare di meno l’ambiente, che tenessero conto anche della domanda delle classi e dei popoli poveri ed esclusi.

Anche l’Italia scoprì l’ecologia. Proprio il 22 aprile si tenne a Milano un congresso internazionale col titolo “L’uomo e l’ambiente”, lo stesso che sarebbe stato adottato, due anni dopo, dalla Conferenza delle Nazioni Unite che si tenne a Stoccolma.

Gli italiani cominciarono a guardarsi intorno e a riconoscere la violenza ecologica nelle valli disastrate, esposte al diboscamento e origine delle frane e alluvioni che si stavano verificando dai tempi del Polesine, in Calabria, a Firenze nel 1966.

Hanno imparato a riconoscere i segni degli inquinamenti dovuti alle centrali a carbone e a olio combustibile, alla corrosione dei monumenti, ai rifiuti sparsi dovunque. Gli agricoltori hanno imparato a fare i conti con i pesticidi tossici e con la perdita di fertilità a causa dell’eccessivo sfruttamento dei suoli.

Anche in Italia comparvero le parole maledette: limite nei consumi, decrescita; i mondo imprenditoriale e benpensante reagì subito con energia contro questi ecologisti che, secondo loro, volevano far tornare il mondo ai tempi delle candele; erano loro, gli imprenditori, capaci di eliminare gli inquinamenti con depuratori e filtri, purché non si mettesse in discussione la divinità dell’economia, il dovere di far crescere il Prodotto Interno Lordo; Beckerman, un celebre economista inglese, affermò con fermezza che solo la crescita economica avrebbe potuto rendere l’ambiente migliore.

La consapevolezza dei limiti delle risorse naturali contagiò anche i popoli del terzo mondo le cui ricchezze minerarie, agricole e forestali erano sfruttate selvaggiamente dalle multinazionali straniere; nacquero così le prime rivendicazioni dei popoli per il controllo delle “proprie” materie prime, il petrolio in Libia e in Persia, il rame nel Cile, i metalli nel Congo, i fosfati nell’Africa occidentale.

La carica sovversiva di quella primavera dell’ecologia fu ben presto stemperata dagli eventi successivi: le crisi economiche, il breve boom economico degli anni Ottanta, la fine dell’Unione Sovietica, la nascita delle nuove potenze economiche Cina e India, infine la crisi degli inizi del XXI secolo. La promessa di un magico “sviluppo sostenibile” nel frattempo assicurava che con soluzioni tecniche sarebbe stato possibile avere un ambiente decente “purché” continuasse la crescita dei soldi e degli affari, cioè delle vere fonti delle crisi ecologiche.

Oggi esistono quasi dovunque ministri dell’ambiente di governi che hanno come imperativo la crescita economica, la moltiplicazione delle armi, l’allentamento dei vincoli ecologici.

Le conseguenze si vedono; in Italia la crescita (quella si) della concentrazione di polveri nell’aria urbana, le fabbriche che chiudono per la concorrenza di paesi che possono esportare merci a basso prezzo ottenute con produzioni inquinanti, montagne di rifiuti, frane e alluvioni e, soprattutto, a livello planetario, inarrestabili peggioramenti climatici derivanti all’immissione nell’atmosfera dei gas liberati dalle crescenti produzioni e dai consumi.

In occasione della giornata della Terra del 1970 nelle strade di New York comparvero dei manifesti in cui uno sconsolato Pogo, un personaggio dei fumetti sotto forma di opossum antropizzato, raccoglieva i rifiuti lasciati da una manifestazione ecologica ed esclamava: “Ho scoperto il nemico e siamo noi”.

Adesso sapete con chi prendervela se dovete fare in conti con i danni delle siccità e alluvioni, della congestione urbana e dell’erosione delle coste, con prezzi in aumento e con la disoccupazione.


Dall’Antropocene al Capitalocene: l’evoluzione dei paradigmi interpretativi della crisi climatico-ambientale

22 Dicembre 2020, di Andrea Vento

L’inesorabile incedere della crisi climatico-ambientale degli ultimi decenni ha indotto la comunità accademica internazionale ad ampliare e approfondire il campo di studi al fine di comprenderne cause, portata e sviluppi futuri. Un’imponente attività di ricerca, trasversale a varie discipline, che ha generato anche l’elaborazione di nuovi paradigmi teorici e terminologici. In tale ambito, particolare interesse sta rivestendo il concetto di Antropocene, da qualche anno a questa parte, oggetto di un crescente numero di pubblicazioni nell’ambito delle scienze geografiche e non solo.

Il lemma Antropocene, proposto per la prima volta negli anni ’80 dal biologo Eugene Stroener, ha iniziato a diffondersi, travalicando i confini disciplinari ed accademici, ad opera del premio Nobel per la chimica, Paul Crutzen, per rimarcare l’intensità e la pervasività che l’attività umana aveva assunto nei confronti del processi biologici terrestri (Crutzen, 2005). In ambito ambientalista il concetto evidenza invece il passaggio di stato del nostro Pianeta, causato dal manifestarsi su scala globale della crisi climatico-ambientale di origine antropogenica, assurta ad elemento caratterizzante di una nuova era geologica. Tale accezione del concetto di Antropocene risulta tuttavia avulsa da significative connotazioni storico-politiche poiché rapporta il cambiamento climatico all’azione umana, nel suo complesso, senza distinzioni di sorta.

Una corrente accademica di pensiero e alcuni contesti scientifici sostengono che la crisi climatico-ambientale in atto sia, invece, il frutto del sistema economico dominante a livello mondiale, nel cui ambito la volontà di una parte nettamente minoritaria di popolazione mondiale di perpetrare lo sfruttamento delle risorse nell’intento di salvaguardare il proprio, ormai insostenibile, livello di consumi[1], si concretizza in un forte deficit ecologico che, sotto varie forme, finisce per impattare soprattutto nelle aree geografiche economicamente e socialmente meno sviluppate. Attribuire indistintamente all’intera umanità le cause della crisi climatico-ambientale, di fatto rimuove il ruolo e le responsabilità del sistema dominante di produzione e consumo, che secondo quest’area di studiosi, può assumere più opportunamente una denominazione di matrice geologica diversa: il Capitalocene (Moore, 2017).

Tale paradigma interpretativo sembra essere confermato dal rapporto “Disuguaglianza da CO2″,pubblicato daOxfam[2], in collaborazione con lo Stockholm Environment Institute, il 21 settembre 2020 alla vigilia dell’annuale Assemblea Generale della Nazioni Unite nell’intento di indurre la leadership politica mondiale a varare ed implementare misure efficaci di contrasto alla crisi in atto. Dal report emerge, infatti, che nel venticinquennio compreso fra il 1990 e il 2015, durante il quale le emissioni di CO2 in atmosfera sono più che raddoppiate, l’1% più ricco della popolazione mondiale, pari a 63 milioni di abitanti, ha emesso nell’atmosfera il doppio di CO2 rispetto al 50% più povero del pianeta, corrispondente a 3,1 miliardi di persone. E che il 10% più ricco è stato responsabile del 52% delle emissioni totali di CO2 tra il 1990 e il 2015, mentre il solo 1% più ricco del 15%. Da questi dati, e da numerosi altri, risulta evidente come le responsabilità della crisi del Pianeta non possono essere attribuite genericamente all’essere umano, bensì più opportunamente all’oligarchia mondiale; il vertice del capitalismo globalizzato che negli ultimi decenni ha accumulando enormi ricchezze[3], con attività produttive estremamente impattanti, dilatando inesorabilmente la forbice delle disuguaglianze e spingendo la crisi climatico-ambientale verso l’irreversibilità.

Il concetto di Capitalocene, risulta particolarmente funzionale nel focalizzare le dinamiche in atto in quanto riesce ad individuare gli aspetti degenerativi della struttura capitalistica che, in modo sempre più “classista”, polarizza le vulnerabilità non solo intergenerazionali, in ottica futura, ma, soprattutto quelle odierne all’interno e fra società diverse (Amato, 2019). In relazione a queste ultime, gli studi prevedono che il Sud del mondo, responsabile del solo 10% delle emissioni globali, dovrà subirne il 75% delle ricadute negative, precipitando di fatto in una situazione di “apartheid ambientale”.

Il sistema economico globalizzato, neoliberista e sviluppista, funziona da garanzia per il capitale transnazionale nell’ambito di un modello di sviluppo lineare fondato sul ciclo estrazione- produzione-consumo, sulla concentrazione di immensi profitti e la socializzazione dei costi ambientali. Tuttavia, l’adozione di politiche indirizzate verso un modello economico circolare (Circular economy) in grado parzialmente di rigenerarsi riducendo l’impatto sull’ecosistema terrestre può, a nostro avviso, non essere sufficiente a risolvere la triplice crisi in atto (ambientale, economica e sociale), in quanto non vengono messi in discussione i paradigmi della crescita economica infinita e dell’accumulazione capitalistica.

La questione del superamento delle strutture economiche e sociali del Capitalocene, con i suoi insostenibili modelli di produzione, di consumo e di ripartizione della ricchezza, si propone, alla luce della crisi ambientale sull’orlo del punto del non ritorno e delle disuguaglianze sociali, sempre più marcate, in modo ancor più pressante, a causa dei suoi crescenti effetti degenerativi, arrivati, ormai, a mettere a repentaglio il futuro del Pianeta e, soprattutto, dell’intera umanità.

Andrea Vento – 27 novembre 2020

Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati


[1]Come certificano i dati dell’impronta ecologica L’impronta ecologica media pro capite mondiale sostenibile è 1,8 ha mente quella effettiva è invece di 2,7 ha. Fra i singoli paesi: Qatar (11,68)  Kuwait (9,72) Eau (8,44) Usa (8,1)

[2] https://www.adnkronos.com/sostenibilita/risorse/2020/09/21/disuguaglianza-piu-ricco-del-pianeta-inquina-piu-miliardi-poveri_hVANEvcMqa693vnRu0GeUI.html

[3] Oxfam 20 gennaio 2020. Davos 2020: la terra delle disuguaglianze: a metà 2019 l’1% della popolazione più ricca è arrivata a detenere più del doppio della ricchezza posseduta da 6,9 miliardi di persone.

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