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Uso (e abuso) politico della Storia

 

NIKOLAJEVKA. Si manifesta così quella torsione del passato finalizzata al governo del presente che viene costantemente operata da chi cerca per le proprie azioni una legittimazione che sente (e sa) di non avere

Davide Conti Il MANIFESTO del 15 aprile 2022

L’uso pubblico della storia da parte di Stati e governi non è certo elemento nuovo né circoscritto. In Italia però l’utilizzo strumentale del passato è divenuto un fenomeno a tal punto pervasivo da contrapporre apertamente le «politiche memoriali» (stabilite per legge dal Parlamento) agli eventi della storia. Con lo scopo di giungere ad un radicale rovesciamento del loro significato. La scelta delle date del «calendario civile» in Italia ha evidenziato quei caratteri elusivi, a-conflittuali e vittimari grazie a cui le nostre classi dirigenti hanno evitato i conti con la storia nazionale.

La Giornata della Memoria celebra l’ingresso dell’Armata Rossa (russa) ad Auschwitz (Polonia) e la liberazione dei prigionieri di un campo di sterminio (tedesco). In ragione di questa figurazione, dove l’elemento italiano è assente, il 27 gennaio nel nostro Paese è una data vissuta quasi esclusivamente in funzione della condanna del nazismo, soprassedendo alle responsabilità dirette del regime fascista di Roma. Il giorno del ricordo del 10 febbraio rovescia il senso storico degli eventi trasformando gli aggrediti jugoslavi in aggressori e contestualmente consente la metamorfosi degli italiani da invasori a vittime. La giornata dell’Unità nazionale anziché il 20 settembre (la Breccia di Porta Pia e la fine del potere temporale della Chiesa del 1870) viene celebrata nella ricorrenza del 17 marzo 1861 quando Roma ed i territori dello Stato pontificio non sono ancora Italia, come d’altronde il Lombardo-Veneto. Il tutto per evitare un conflitto memoriale con il Vaticano.

Il 9 maggio il giorno del ricordo delle vittime del terrorismo commemora la morte di Aldo Moro ucciso dalla Brigate Rosse ma cancella le stragi di Stato che dal 12 dicembre 1969 (senza dimenticare Portella della Ginestra nel 1947) hanno colpito la democrazia repubblicana. L’istituzione della giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli alpini, però, segna un punto di svolta.

Non più, e non solo, l’uso del paradigma vittimario come forma di equiparazione del dolore da cui far scaturire l’equivalenza dei soggetti storici in conflitto (fascismo/antifascismo; nazismo/comunismo) ma una diretta legittimazione dell’invasione militare fascista dell’Unione Sovietica e, dunque, della guerra di aggressione condotta al fianco della Germania di Hitler.

Lo sconcio è tanto più grande in quanto priva gli Alpini di una giornata che sarebbe potuta essere senz’altro connessa con il loro fondamentale operato nella Resistenza o con l’impegno profuso sul piano civile negli anni della Repubblica (terremoti in Friuli o in Irpinia).

Tuttavia sono la quantità del voto (una sostanziale unanimità) e la sua qualità (la convergenza di tutta la destra e del centrosinistra) a sostanziare il tono del messaggio politico e a far cadere il velo di ipocrisia con cui sono state ammantate le scelte belliciste del nostro Parlamento al tempo dell’aggressione militare della Russia di Putin contro l’Ucraina e dei suoi correlati crimini contro la popolazione civile.

Le stesse forze politiche che, attraverso l’uso pubblico della storia ed un paragone distonico, da settimane evocano l’eredità della Resistenza come giustificazione dell’invio di armi a Kiev, di un globale riarmo europeo e di un aumento delle spese militari in Italia, hanno istituito per legge una giornata di commemorazione di quelle truppe fasciste che invasero l’Ucraina e contro cui la Resistenza (come soggetto storico oltre che politico-militare) lottò e, per buona sorte dell’umanità, vinse.

Nella totale assenza di pudore il 26 gennaio del prossimo anno assisteremo alla celebrazione «dell’epopea» delle truppe di occupazione italiane, che combattevano insieme ai nazisti per conservare attivi i campi di sterminio. Il giorno dopo, invece, sarà ricordata la liberazione di Auschwitz ad opera delle stesse forze armate sovietiche che respinsero l’aggressione nazifascista. Si manifesta così quella torsione del passato finalizzata al governo del presente che viene costantemente operata da chi cerca per le proprie azioni una legittimazione che sente (e sa) di non avere.

Le donne e gli uomini della Resistenza che imbracciarono le armi nel fuoco della «guerra totale» del 1939-1945 scrissero parole definitive sulla vitale questione della pace tanto nell’articolo 11 della Costituzione italiana quanto nell’articolo 2 dello Statuto dell’Onu. Lì il ripudio della guerra è associato al dovere di risolvere le controversie internazionali con mezzi pacifici, ovvero la strada inversa rispetto a quella finora percorsa.

Il portato valoriale della Resistenza ed il suo rifiuto della guerra vennero conquistati con il fucile e vergati indelebilmente con la penna. Nella riscrittura della storia di ieri e nella strumentalizzazione di quella di oggi sta il vero tradimento di quegli ideali.

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