SALARIO MINIMO: UN RAGIONAMENTO NON SOLO ITALIANO
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SALARIO MINIMO: UN RAGIONAMENTO NON SOLO ITALIANO
“Abbiamo la stessa posizione dei sindacati, siamo per rafforzare la contrattazione perché garantisce tutti…Nei paesi dove è stato inserito (il salario minimo n.d.r.) la tendenza delle imprese è uscire dalla contrattazione collettiva e questo non è nell’interesse dei lavoratori. Dobbiamo andare a colpire i contratti pirata, che vengono fatti da chi non ha rappresentanza e fanno dumping salariale”.
Carlo Bonomi (Presidente Confindustria) a Mezz’ora in più, 26.9.2021
“La discussione sul salario minimo va collocata nel contesto in cui si dà valore ai contratti nazionali, molti già oltre i 9 euro orari, e sostegno legislativo al modello contrattuale”
Maurizio Landini (Segretario Generale CGIL)
“Il salario minimo per i giovani è determinante, così come anche per le donne. Durante la pandemia, le categorie maggiormente vittime sono stati giovani e donne e le vittime di salari bassi in Italia sono prevalentemente i giovani e le donne”
Pasquale Tridico (Presidente Inps)
Il 6 dicembre 2021 il Consiglio dell’Unione Europea ha approvato la proposta dei Ministri del Lavoro e delle Politiche Sociali per l’istituzione di un Salario Minimo Europeo: sono così cominciati i negoziati che porteranno, presumibilmente dopo un lungo travaglio, ad una normativa comune in materia.
Vale la pena quindi provare a ragionare sulla situazione di partenza e confrontarsi con la varie proposte che si misurano sul campo, nel dibattito ormai pluriennale su questo strumento controverso.
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Come abbiamo visto, in Italia le “parti sociali”, cioè il capo della Confindustria e il capo del maggior sindacato concertativo, convergono sulla posizione di considerare il salario minimo un elemento negativo, che sottrae spazio alla contrattazione e vincola la libera volontà dei contraenti.
Viceversa il presidente dell’Inps lo elegge a unico strumento di tutela dei lavoratori più deboli, quelli più esposti e vulnerabili alle intemperie del “mercato”.
Dove sta la verità? Proviamo ad allargare il campo delle opinioni e definiamo il perimetro della nostra discussione.
Cerchiamo innanzitutto di definire i termini della questione.
La proposta del salario minimo in genere viene attaccata dalla impostazione mainstream della teoria politico-economica perché introduce, a suo dire, un’ulteriore rigidità salariale, riducendo la flessibilità dei salari nel garantire un livello d’equilibrio corretto tra domanda e offerta di lavoro. Conseguenza inevitabile di questa misura sarebbe quindi un aumento della disoccupazione: i salari non scenderebbero più fino al punto da garantire un totale assorbimento della forza lavoro disponibile e quindi il salario minimo verrebbe a costituire una deleteria alterazione della libera concorrenza.
Questa assurda teoria che attribuisce la responsabilità della disoccupazione alla presenza di salari troppo alti è contraddetta dai fatti: la Germania ha salari più alti dei nostri e tassi di disoccupazione nettamente più bassi, mentre sfidiamo chiunque a sostenere che in Italia ci siano salari troppo elevati; nonostante questo il tasso di disoccupazione è da noi altissimo e fortemente concentrato proprio tra i segmenti della popolazione e le aree geografiche più svantaggiate, dove i salari sono molto inferiori alla media.
Possiamo allargare il campo e vedere com’è la situazione nell’Unione Europea.
Tab. 1
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Valore salario minimo orario universale in Europa, Fonte: Inps 2020, 19° Rapporto annuale.
A dire il vero questa tabella non è proprio aggiornata, perché dal 2020 la situazione è ancora cambiata nei principali paesi europei.
Ad esempio in Francia il salario minimo orario (per un dipendente che ha compiuto i 18 anni) è stato alzato dal 1^ ottobre 2021 a 10,48 euro l’ora (lordi).
Anche in Spagna c’è stato a inizio 2022 un provvedimento del governo che ha fatto salire il salario minimo, anche se l’importo è stato fissato a livello mensile: 1.000 euro lordi al mese (un incremento di 35 euro rispetto al pregresso).
Ma l’incremento più significativo è stato sicuramente quello tedesco: il nuovo governo ha mantenuto la promessa della campagna elettorale socialdemocratica di Scholz, alzando a 12 euro il salario minimo orario (con decorrenza 1^ ottobre 2022).
Francia, Spagna e Germania sono certamente i paesi con cui va fatto il confronto, per dimensione e fisionomia rispetto al nostro paese.
Che resta, ahimè, uno dei pochi paesi europei privi di questo strumento: su 27 paesi, 21 hanno un salario minimo, con l’eccezione di questi 6: Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Svezia; e Italia, per finire.
Interessante notare come la presenza di un salario minimo coesista in molti casi con strutture di contrattazione collettiva piuttosto solide (Francia, Belgio, Spagna, ecc.), mentre
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invece tra i paesi privi del salario minimo ci siano dei tassi più elevati di contrattazione collettiva (Austria, Svezia, Finlandia, Danimarca e Italia) come si vede da questa tabella:
Viceversa, nel paese europeo dove i sindacati sembrano più solidi (la Germania) il tasso di copertura della contrattazione è sotto il 58%: un effetto delle riforme Hartz dei primi anni 2000?
Un’idea meno vaga di quanto significhi, in termini di tenore di vita e potere d’acquisto, il differenziale salariale in Europa, ce la possiamo fare esaminando i dati comparati sul piano del salario minimo mensile.
In tredici paesi dell'Ue i salari minimi mensili sono inferiori a 1.000 euro, mentre in sei sono superiori a 1.500 euro. E' quanto emerge dai dati di Eurostat aggiornati al primo gennaio.
Nel gennaio 2022 13 Stati membri, situati nell'est e nel sud dell'Ue, avevano salari minimi inferiori a 1.000 euro al mese: Bulgaria (332 euro), Lettonia (500 euro), Romania (515 euro), Ungheria ( 542 euro), Croazia (624 euro), Slovacchia (646 euro), Repubblica Ceca (652 euro), Estonia (654 euro), Polonia (655 euro), Lituania (730 euro), Grecia (774 euro), Malta (792 euro) e Portogallo (823 euro).
In Slovenia (1.074 euro) e Spagna (1.126 euro) il salario minimo era di poco superiore a 1.000 euro al mese, mentre nei restanti sei Stati membri il salario minimo era superiore a 1.500 euro al mese: Francia (1.603 euro), Germania (1.621 euro), Belgio (1.658 euro), Paesi Bassi (1.725 euro), Irlanda (1.775 euro) e Lussemburgo (2.257 euro).
I dati in alcuni casi divergono (es. Spagna), perché entrano in campo conteggi approssimativi legati agli orari effettivamente lavorati e le varie tipologie contrattuali che vengono assunte come valori di riferimento. Ciò nonostante ci forniscono informazioni utili per spiegare il trasferimento verso est e verso sud di molte aziende, la massiccia
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delocalizzazione di processi produttivi e le modifiche profonde delle “catene del valore” attuate negli ultimi tre decenni.
Ovviamente i salari minimi non spiegano tutto: in particolare non rappresentano tutta la complessità della struttura salariale, pur rappresentandone il posizionamento gerarchico nella divisione internazionale del lavoro. In genere il salario minimo riflette una semplice proporzione, non necessariamente meccanica, del salario medio: diciamo il 50-60% per non allontanarci troppo dal vero.
Riprendendo il nostro ragionamento, possiamo provare a capire gli effetti che si sono verificati in quei paesi che hanno introdotto il salario minimo, per verificare in contesti diversi dal nostro cosa è accaduto.
Il caso tedesco è ancora una volta esemplare, perché lì il salario minimo è stato introdotto in tempi relativamente recenti (2015) con una soglia inizialmente bassa (7,50 euro). L’effetto “disoccupazione” non si è verificato, se non in modo marginale, mentre è migliorata la posizione di quel 15% di lavoratori che avevano salari inferiori al salario minimo. L’incremento progressivo ha portato il valore del salario minimo verso il 50% del valore mediano e non ha compromesso la tenuta dei salari in Germania, che hanno continuato ad avere la dinamica moderata, ma progressiva, che è ben conosciuta e che è inserita in un modello solido di contrattazione concertativa. Criticabile finché si vuole, privo di conflitto e men che mai di antagonismo tra le parti, ma strutturato e rispettoso delle regole.
Il già citato incremento a 12 euro l’ora a partire da ottobre 2022 sarà l’ultima tappa di un percorso accelerato, che ha visto un aumento a 9,82 euro a gennaio di quest’anno e vedrà un aumento a 10,45 euro a luglio 2022. Secondo il sindacato tedesco DGB porterà vantaggi a 8,5 milioni di lavoratori (in prevalenza donne): "Per un salario minimo che consenta di far fronte alla povertà - precisa la confederazione sindacale Dgb - si deve prendere come riferimento il 60 per cento del reddito medio in una situazione di piena occupazione. In Germania tale valore rappresenta almeno 12 euro all'ora". "Le persone che lavorano a basso salario non possono aspettare - prosegue la confederazione - Un salario minimo a prova di povertà è atteso da tempo. Almeno 8,5 milioni di persone, soprattutto donne, ne beneficerebbero. Tuttavia, per noi sindacati si tratta prima di tutto di concludere buoni contratti collettivi. Perché il buon lavoro non si paga con un salario minimo - che può essere sempre e solo la linea mediana più bassa - ma in base a contratti collettivi".
E’ ben presente quindi la consapevolezza che il salario minimo non risolve tutto e soprattutto non esaurisce il senso della contrattazione collettiva: che serve a fare salire gli stipendi di tutti e tenerli, perlomeno, allineati all’inflazione.
Contrariamente quindi a quanto vuole farci credere la teoria dominante, emergono due evidenze incontrovertibili: la flessibilità dei salari non porta alla piena occupazione e l’esistenza del salario minimo non porta disoccupazione.
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Sgomberato il campo dai luoghi comuni, vediamo quali proposte operative potrebbero essere avanzate anche in Italia, sulla base delle esperienze europee.
Possiamo dire che nell’Unione Europea esistono tre modelli sostanziali:
1) un salario minimo fissato direttamente dall’esecutivo;
2) una misura stabilita con la partecipazione di enti terzi e parti sociali;
3) una soglia determinata da meccanismi di indicizzazione ai prezzi e alle retribuzioni.
L’ultima soluzione è quella adottata da paesi come Francia, Belgio e Olanda e sembra la più adatta a seguire anche nel tempo la dinamica salariale complessiva, senza dipendere dall’orientamento momentaneo dell’esecutivo in carica. Il legame con il salario medio potrebbe avere carattere meccanico, con adeguamento annuale, oppure avere una cadenza diversa, contrattata, ma comunque rivedibile nel corso del tempo per garantire un’efficacia effettiva nel tutelare i segmenti più deboli della forza lavoro.
La proposta M5S (prima firmataria l’ex-Ministro del Lavoro Nunzia Catalfo) quantificava in 9 euro lordi orari la paga del salario minimo. Secondo studi dell’Inps, fissare questo importo, senza tredicesima e TFR, interesserebbe 4.6 milioni di lavoratori, cioè poco meno del 30% dei lavoratori dipendenti italiani. Questa soglia collocherebbe il salario minimo vicino all’ 80% di quello mediano, un valore nella fascia alta della forchetta, rispetto ai paesi comparabili al nostro. Questo rappresenta un punto di discussione importante: il rapporto tra salario minimo e salario mediano sarebbe il più alto tra i paesi Ocse (che vede in media questo rapporto di poco superiore al 50%).
Si potrebbe a questo punto obiettare che questo risultato è dovuto al fatto che in Italia il denominatore, cioè il salario mediano, è molto basso. Ciò è vero solo in parte: guardando ai dati OCSE espressi a parità di potere d’acquisto (PPP), il salario mediano in Italia è sì inferiore a quello dei principali paesi europei, ma è comunque in linea con la media OCSE (tra i 14 e i 15 dollari all’ora). Inoltre, va ricordato che nel nostro paese i salari bassi sono anche e soprattutto la conseguenza dell’elevata tassazione sul lavoro (cd. cuneo fiscale). (Osservatorio dei Conti Pubblici Italiani, Edoardo Frattola e Giampaolo Galli, ottobre 2019).
Ci sono quindi ragioni serie per assumere in Italia una proposta di salario minimo elevato, in rapporto al salario mediano, come si evince dalla tabella sottostante.
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Occorre quindi inquadrare la proposta del salario minimo nel contesto corretto, non aspettarsi soluzioni miracolose e approfondire le cause dei bassi salari italiani (che non sono solo conseguenza dell’anomalo cuneo fiscale).
Come ha recentemente rilevato la Fondazione Di Vittorio in una sua ricerca, l’Italia evidenzia un salario medio annuo di 9.000 euro inferiore a quello francese e di 12.000 euro inferiore a quello tedesco. E tra le otto categorie salariali su cui il modello di ricerca ha ripartito il mondo del lavoro subordinato, le prime due assommano oltre 5 milioni di lavoratori che prendono meno di 10.000 euro l’anno. Non si può neanche pensare che sia sufficiente l’istituzione del salario minimo orario per risolvere il problema: spesso si tratta di lavoratori “a progetto” che non sono pagati ad ore; altre volte subiscono un part-time involontario che riduce il numero di ore lavorate, portando a bassi salari.
Inoltre rileva la composizione della forza lavoro, oltre che la produttività dei processi produttivi e organizzativi in cui è inserita:
Uno dei problemi principali è l’addensamento nelle basse qualifiche professionali. Nei due raggruppamenti più bassi della distribuzione dell’occupazione dipendente per gruppi professionali, l’Italia ha il 34% degli occupati contro il 27,8% dell’eurozona. Nei due più alti, il rapporto si ribalta e quindi l’Italia ha il 15,5% di occupati contro quasi il 25% dell’eurozona. Ovviamente questo incide sui salari, ma è anche uno specchio della qualità del nostro sistema produttivo ed educativo e, a conforto di questa tesi, cito solo gli ultimi dati Istat sull’istruzione, che vedono il 12,7% in meno di laureati e il 16% di diplomati (Fondazione Di Vittorio, relazione di Fulvio Fammoni).
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La povertà di molti lavoratori italiani dipende quindi da un insieme di fattori e la contrattazione collettiva, sebbene molto più pervasiva e strutturata di altri paesi europei, come Francia e Spagna, non ha fornito alcuna risposta alle esigenze più elementari di tutela salariale.
“In sintesi: 3 milioni di precari, 2,7 milioni di part-time involontari (di cui una parte anche precari), 2,3 milioni di disoccupati ufficiali (da noi stimati in quasi 4 milioni come disoccupazione sostanziale), il décalage salariale che comunque è previsto in strumenti preziosi di tutela, come gli ammortizzatori sociali, propone uno spaccato davvero troppo alto, ingiusto e insostenibile, di lavoro povero e discontinuo che riguarda il nostro Paese (stessa fonte già citata)”.
Si tratta quindi di tematizzare il salario minimo come uno strumento di regolazione del mercato del lavoro, particolarmente orientato alla difesa di quei segmenti privi di potere contrattuale, difficili da organizzare e spesso ai margini della mobilitazione sindacale: spesso e volentieri anche collocati sul crinale della difficile distinzione tra lavoro subordinato e popolo delle (finte) partite Iva.
Non si deve quindi interpretare lo strumento come alibi servito su un piatto d’argento alle componenti datoriali, da usare come arma per sottrarsi all’impalcatura dei CCNL, ma come presidio invalicabile della parte più indifesa della classe lavoratrice: in questo senso deve essere veramente inteso come un “pavimento” al di sotto del quale il salario non può scendere.
E da questo punto di vista occorre anche controbattere alla retorica di parte avversa. A cominciare dall’Ocse, che ritiene troppo elevata la soglia dei 9 euro minimi e che “consiglia” alle autorità italiane di attestarsi su un valore più consono alla realtà del paese, scegliendo un valore che si collochi tra i 5.50 ed i 7.50 euro orari, in linea con il rapporto minimo/mediano in media Ocse.
Per argomentare bisogna ancora una volta partire dai dati.
In Italia il salario orario lordo mediano dei lavoratori dipendenti, riferito alle posizioni lavorative nei settori privati non agricoli, è pari a 11,2 euro (fig. 2).
I dati sono riferiti al 2016, ma la debole dinamica delle retribuzioni, dovuta anche all’impianto contrattuale che prevede rinnovi del CCNL ancorati all’indice IPCA (che sterilizza gli aumenti dovuti all’inflazione “importata”) e al basso livello d’inflazione degli ultimi due lustri, fa sì che i valori siano ancora ampiamente significativi….
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In base alla simulazione condotta dall’Inapp sulla proposta di legge Catalfo (9 euro al lordo di tasse e contributi previdenziali e assistenziali), assumendo il dato con esclusione di tredicesima, eventuale quattordicesima e bonus vari, ed escludendo i lavoratori del settore agricolo ed il lavoro domestico, i costi del provvedimento sarebbero quantificabili in questa tabella:
In questo caso quindi avremmo una platea di beneficiari pari a circa 2,6 milioni di lavoratori ed una spesa complessiva di 6,7 miliardi di euro.
Si apre naturalmente il problema di come dovrebbe essere compensato il sistema delle imprese per questo aggravio di costo (compensazione che dovrebbe essere solo parziale, perché l’obiettivo è prima di tutto circoscrivere il livello degli extra-profitti legati ad una situazione endemica di sotto-salario). E soprattutto quello di stabilire delle sanzioni applicabili ai datori di lavoro che non ottemperano alle disposizione di legge (lacuna presente nella proposta di legge M5S, a differenza di quella PD, con primo firmatario Nannicini, che invece le prevede).
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L’idea di un salario minimo non deve essere occasione per dilatare ancora l’area del lavoro irregolare e in nero, cioè la parte sommersa della nostra economia, che sfugge sia al fisco che alla contribuzione previdenziale. Da questo punto di vista può e deve, anzi, diventare strumento di emersione, con un appropriato sistema di controlli e di ispezioni da parte degli organi di vigilanza (da rafforzare ed estendere)-
Non sarebbe trascurabile quindi l’effetto dell’introduzione del salario minimo sull’aumento della base imponibile (e quindi il volume di nuove risorse fiscali), insieme ad un aumento della domanda aggregata (le fasce più marginali del mercato del lavoro hanno la più elevata propensione al consumo).
Riteniamo quindi superabili le obiezioni che da parte sindacale, anche da parte nostra, vengono spesso avanzate su questo strumento: il deterioramento della contrattazione collettiva è già avvenuto, la segmentazione del mercato del lavoro è già nei fatti, il fenomeno dei lavoratori poveri ampiamente dispiegato (e particolarmente grave nel nostro paese).
Il salario minimo potrebbe quindi ormai diventare elemento di ricomposizione e ricucitura, insieme ad altri strumenti (come il reddito di cittadinanza riveduto e corretto) rappresentare un punto di riferimento per le fasce più dequalificate, precarizzate e sottopagate delle forze attive sul mercato del lavoro.
Tutto questo senza nulla togliere a quei segmenti, a quelle categorie, a quei settori, che hanno conservato una forza contrattuale rilevante, per collocazione produttiva, qualificazione professionale e posizionamento nella geografia del conflitto. Sono questi settori che possono tornare a guidare una dinamica salariale sostenuta in un nuovo ciclo rivendicativo, che tutti auspichiamo, soprattutto in una fase come questa caratterizzata da un alto livello (strutturale?) di inflazione.
Nell’insieme tutto questo darebbe nuovo senso di dignità e orgoglio al lavoro, maggiore conoscenza dei propri diritti da parte dei più sfruttati, maggiore forza contrattuale a tutto il mondo del lavoro, subordinato e non. Una misura di civiltà che dobbiamo elevare a rivendicazione collettiva.
Torino 27.3.2022 RENATO STRUMIA
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