“Mai più la guerra!” Il ricordo degli orrori della prima guerra mondiale ha alimentato il movimento pacifista in Gran Bretagna e il Magistero dei Papi

 

“Mai più la guerra!” Il ricordo degli orrori della prima guerra mondiale ha alimentato il movimento pacifista in Gran Bretagna e il Magistero dei Papi  

di Laura Tussi



“Mai più guerre” fu lo slogan con il quale molti si identificarono per lo stretto rapporto intrattenuto di persona con la sofferenza e la morte provocata dalla guerra

Il pacifismo inglese e non solo attinse forza dal ricordo degli orrori della prima guerra mondiale

Negli anni fra le due guerre, il pacifismo inglese e non solo attinse indubbiamente forza dal ricordo degli orrori della prima guerra mondiale. A ricordo dei morti e delle vittime furono eretti monumenti in tutto il paese, ma gli invalidi costituirono, almeno per tutti gli anni ‘20 del Novecento, un ricordo ancora più impressionante delle conseguenze della guerra.

Nel 1999 all’Arena di Verona Ligabue, Giovanotti e Pelù diedero vita allo straordinario concerto con lo slogan “Il mio nome è mai più”.

Quel titolo, diventato anche il nome della canzone scritta e interpretata insieme dai tre artisti, fu l’urlo collettivo di un’Italia stanca delle guerre “umanitarie”, pochi mesi dopo i bombardamenti della NATO sulla ex Jugoslavia. Il brano, i cui proventi furono devoluti a Emergency, divenne rapidamente un inno pacifista, con versi crudi e diretti che denunciavano la follia della guerra, l’ipocrisia del potere e l’indifferenza del mondo.

Il concerto all’Arena fu un momento straordinario di musica e impegno civile, in cui la voce degli artisti si fece megafono di un popolo che non voleva più accettare la logica delle armi. “Mai più” non era solo una frase simbolica: era una presa di posizione netta, una dichiarazione politica e morale, rilanciata da un palco che diventò piazza.

A distanza di oltre vent’anni, quel grido di pace torna ad avere un’urgente attualità. In un mondo segnato da nuovi conflitti, dal genocidio a Gaza alla guerra in Ucraina, “Il mio nome è mai più” non è solo il ricordo di un concerto, ma la promessa ancora da mantenere di un’umanità che rifiuta la violenza come soluzione.

Oggi più che mai, serve che la musica, l’arte e la cultura tornino a farsi voce di chi non ha voce. Come in quell’Arena di Verona del 1999, quando tre cantautori decisero che la guerra non poteva essere accettata. Né allora, né mai più.

Lo slogan “Mai più la guerra”

Per molto tempo a partire dagli anni ’20 del secolo scorso prevalse la convinzione che una nuova guerra sarebbe stata una mera ripetizione dell’ultima, con l’aggiunta assai temuta dei bombardamenti aerei. Ma l’origine dei sentimenti pacifisti non va ricercata solo nei ricordi del passato.

La crescita del pensiero pacifista fu strettamente connessa e correlata con i mutamenti sociali e politici verificatisi in Gran Bretagna e con gli sviluppi esterni.
Il contesto nel quale il pacifismo emerse e con il quale esso fu intimamente legato fu costituito dal declino industriale, dalla disoccupazione di massa, dalla povertà e dalla fame, all’interno, e dai problemi connessi con il perdurare, all’esterno, del dominio coloniale, prima che fossero tutti messi in ombra dalla grande minaccia del fascismo.

Eppure, oggi come ieri, la realtà smentisce quel sogno. Dall’Ucraina a Gaza, dal Sudan al Myanmar, il mondo è attraversato da conflitti devastanti, in cui i civili continuano a pagare il prezzo più alto. Gli interessi economici, la corsa agli armamenti, le logiche di potenza sembrano prevalere sulla dignità umana e sul diritto alla pace.

Il grido dei Papi, da Pio XI a Leone XIV, tradito dai conflitti del nostro tempo

“Mai più la guerra”: poche parole, semplici e potenti, che da quasi un secolo risuonano nella voce profetica dei Papi. È stato Pio XI, già nel 1931, a lanciare un primo allarme contro la follia bellica con l’enciclica Quadragesimo Anno, denunciando l’industria delle armi e i “nuovi idoli” del nazionalismo. Ma è nel secondo dopoguerra che l’espressione “Mai più la guerra!” diventa un vero e proprio grido universale.

Pio XII, nel suo celebre radiomessaggio del Natale 1944, invocava una pace giusta e duratura, dopo aver assistito impotente alla tragedia della Seconda guerra mondiale. Ma fu soprattutto Paolo VI, il 4 ottobre 1965, a scolpire quella frase nella coscienza globale, rivolgendosi all’ONU con le parole: «Jamais plus la guerre, jamais plus la guerre! C’est la paix, la paix, qui doit guider le destin des peuples et de toute l’humanité».

Giovanni Paolo II ne fece un pilastro del suo magistero: lo gridò contro la guerra del Golfo, lo ripeté nel 2003 alla vigilia dell’invasione dell’Iraq, e nel 2002 ad Assisi riunì i leader religiosi del mondo per dire insieme: “Mai più guerra, mai più terrorismo, mai più odio!”

Benedetto XVI proseguì sullo stesso solco, parlando spesso della “guerra a pezzi” già in corso, mentre Papa Francesco ha reso quel grido ancora più attuale, ricordando che viviamo “una terza guerra mondiale combattuta a pezzi” e denunciando “la pazzia del riarmo” e “l’ipocrisia di chi parla di pace e vende armi”.

Oggi è Papa Leone XIV, eletto l’8 maggio 2025, a raccogliere questa eredità. Già nei primi mesi del suo Pontificato ha rilanciato con forza l’appello per il disarmo totale e il cessate il fuoco in tutte le zone di conflitto, dicendo a gran voce che “la guerra è un fallimento della politica e dell’umanità”.

Eppure, mentre le bombe continuano a cadere su Gaza, l’Ucraina e altre terre martoriate, quel “mai più guerra” appare sempre più come una preghiera solitaria, sovrastata dal frastuono delle armi e da interessi economici e politici come quelli che spingono il governo Meloni ad alimentare i conflitti con gli ordigni micidiali prodotti nel nostro paese, in particolare dalla Leonardo, partecipata dallo Stato, e da RWM, multinazionale tedesca attiva in Sardegna con la sua produzione a servizio della morte. Perché non resti solo un ideale tradito, quel grido deve diventare progetto concreto di pace, giustizia e disarmo. Altrimenti, continueremo a ripeterlo solo sulle tombe.

“Mai più la guerra” è diventato un paradosso: lo ripetiamo nelle cerimonie ufficiali, lo incidiamo sui monumenti, lo insegniamo ai bambini, mentre il rumore delle bombe non smette mai di echeggiare.
Perché questa frase non resti vuota, occorre trasformarla in azione politica, giuridica e culturale. Altrimenti resterà solo una preghiera, e non una promessa.

Il decennio dell’illusione e della delusione

Le opinioni riguardo la guerra cominciarono a cambiare in modo significativo nel corso degli anni ‘20, un periodo che potrebbe essere definito il decennio dell’illusione e della delusione.
Gli anni immediatamente seguenti al conflitto avevano visto poco trionfalismo militarista e non erano sorte battagliere e violenti organizzazioni di ex combattenti, come ce ne erano in altre parti d’Europa.
Lo stato d’animo diffuso era la stanchezza e l’idea comune fra la gente vedeva nella guerra una tragedia terribile, ma necessaria per salvare la democrazia e che quella appena combattuta poteva essere la guerra per mettere fine a tutte le altre guerre.

Tali sentimenti si combinavano con nuove speranze per il futuro, in parte legate alle promesse fatte alle truppe, in parte a un nuovo radicalismo sociale che si era sviluppato fra i soldati nel corso della guerra.
Ma la realtà venne subito a disingannare la gente da queste aspettative: disoccupazione, carenza di case e di cibo, l’insuccesso del governo laburista, il fallimento dello sciopero generale, tutto contribuì ad accentuare le divisioni sociali e servì a rivelare la distanza profonda che ancora separava i ricchi dai poveri e il governo dalla popolazione.

L’interpretazione della sinistra sulla guerra

Delusione e risentimento portarono a un aumento delle opinioni circa la guerra. Ora la gente era più disposta ad accogliere l’interpretazione di sinistra sulla guerra, vista come lotta fra imperialismi, combattuta per difendere gli interessi inglesi e a vedere la retorica patriottica del sacrificio come poco più che un espediente ipocrita per dissimulare questa realtà.

La sensazione della classe lavorativa, che la guerra l’aveva combattuta, fu forse stata tradita da chi non l’aveva fatta e provocò a sua volta una crescita della solidarietà internazionalista della classe lavoratrice stessa.
Questa mentalità fu dominante nei circoli della classe lavoratrice e nelle classi medie orientate a sinistra. Accadeva di frequente di imbattersi in risoluzioni approvate dalle associazioni dei lavoratori e dei sindacati, che invitavano il governo a rinunciare alla guerra come strumento di azione politica.

La guerra è sempre inutile

Si trattava di una sorta di pacifismo diffuso, fondato sul presupposto che la guerra è sempre inutile, ed è dichiarata da governi incompetenti per farla combattere a generali ancora più incompetenti. Tale visione procurò un forte sostegno alla Società delle nazioni a favore del disarmo generale.
Un contributo piuttosto sorprendente al movimento per la pace si ebbe agli inizi degli anni ‘30 del Novecento quando nel corso di un dibattito la Lega degli studenti all’Università di Oxford, fra la contestazione dell’establishment britannico votò una mozione per cui “questa istituzione in nessun caso combatterà per il suo re e per il suo paese”.

Tale voto significava infatti che ora il pacifismo penetrava persino tra gli studenti privilegiati della classe media quella da cui tradizionalmente provenivano gli ufficiali. Ovviamente le cose non stavano proprio così. Molti non erano pacifisti avevano semplicemente cominciato a pensare di avere il diritto di scegliere il tipo di guerra che volevano combattere.
Ciò era tuttavia indicativo del sentimento generale che permeava i giovani e la sinistra.
Era un sentimento di mancanza di fiducia nei governi politici al potere, considerati inefficienti nella retorica del patriottismo. Di contro vi era la convinzione che l’azione e la testimonianza personali a sostegno della pace potevano in qualche modo compensare le manchevolezze dei governi.
Naturalmente, la situazione mutò radicalmente con l’avvento di Hitler al potere, che conferiva al problema della guerra e della pace un’urgenza del tutto nuova e emergente.

Lo slogan “fascismo significa guerra”

All’inizio, la sinistra fu alquanto incerta sulla linea da seguire nei confronti di Hitler: essa respingeva come ovvio le intenzioni del fascismo e i metodi della dittatura. L’instabilità della situazione portò l’opinione pubblica pacifista ad accentuare molte tematiche degli anni precedenti.
Furono rinnovati gli appelli a puntare sulla Società delle nazioni per la sicurezza, per una riduzione pianificata degli armamenti e per la messa in atto di sanzioni economiche e politiche contro gli aggressori. La prevenzione della guerra attraverso un’azione concentrata di carattere internazionale rimase la grande speranza della sinistra pacifista.

In Inghilterra ci si trovava invece alle prese con un governo nazionale in realtà largamente conservatore che in pratica sembrava non far nulla a sostegno degli sforzi che venivano compiuti per raggiungere la sicurezza collettiva.
I segnali di disastri incombenti erano fortemente aumentati durante il primo anno di governo di Hitler, e cominciò a essere più largamente accettato a sinistra lo slogan “fascismo significa guerra”.

Commenti

Post più popolari