Salari da fame portano a pensioni da fame: qualche riflessione sulla povertà salariale e la previdenza
Pubblichiamo un passo tratto da un lavoro di Emiliano Gentili, Federico Giusti e Stefano Macera che verrà pubblicato nei prossimi giorni su Antidiplomatico
L’età previdenziale non si è alzata
perché prima si andava in pensione troppo presto, al contrario a un certo punto
della storia europea le risorse si sono spostate dai redditi al capitale, dal
welfare universale alla previdenza integrativa. E grane rilevanza ha avuto l’attività
svolta dalla Ragioneria Generale dello Stato perché utilizzando i dati sulla
speranza di vita ha trasformato i continui aumenti dell’età pensionabile in una
soluzione normale e del tutto accettabile, insomma dettata da semplice buon
senso. Peccato invece che quando la speranza di vita decresce gli adeguamenti
per il pensionamento vengano puntualmente sospesi con norme ad hoc.
Se invece avessimo fatto pagare maggiori contributi alle
aziende, che paradossalmente beneficiano di sempre maggiori detrazioni fiscali,
oggi ci ritroveremmo in una condizione diversa. Eppure l’aliquota contributiva
per i datori di lavoro non aumenta dal 1996. Considerando che la riduzione
della spesa previdenziale va avanti dalla Riforma Amato del 1992, dobbiamo
ipotizzare che sia stata fatta una scelta a monte: agire sulla riduzione delle
pensioni (uscite) anziché sull’incremento del gettito (entrate). Una scelta che oltretutto conduce a evidenti disparità
negli importi pensionistici, ad esempio, i divari di genere. Le donne, infatti,
mediamente percepiscono assegni pensionistici inferiori del 34% rispetto agli
uomini e inoltre, pur essendo poco più della metà (51%) dei pensionati, arriva loro
solo il 44% della spesa pensionistica.
E se l’importo lordo mensile medio dei redditi da pensione è
cresciuto solo del 4,4% rispetto al 2023, la spiegazione ci pare chiara: pochi
occupati rispetto ai pensionati, troppi contratti part-time e un monte
contributivo fin troppo modesto.
E in mezzo a narrazioni tossiche viene ancora una volta eluso
il problema principale: l’erosione del potere d’acquisto, infatti, solo negli
ultimi 5-6 anni, le retribuzioni contrattuali sono cresciute di meno della metà
rispetto al costo della vita. Lo abbiamo già sottolineato in precedenza, ma è
impossibile non ripetersi: tra i problemi principali vi è il modo in cui
vengono siglati o rinnovati i contratti. Altro che conquiste dei lavoratori e
delle lavoratrici, la firma di accordi e contratti con potere di acquisto in
perdita è confermata da altri dati
Le retribuzioni contrattuali tra il 2019 e il 2024 sono
cresciute dell'8,3% a fronte di un aumento dei prezzi nei cinque anni del 17,4%
e hanno quindi perso oltre nove punti percentuali di potere d'acquisto. È di nuovo quanto emerge dal Rapporto
annuale dell'Inps, che sottolinea come grazie agli interventi sulla
fiscalità e i contributi le retribuzioni nette abbiano perso meno punti sul
potere d'acquisto. Fatto 100 il valore medio del 2019, spiega l'Inps a
proposito delle retribuzioni, si arriva nel 2024 a 108,3.
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